Finora, a ogni scandalo, abbiamo sempre riconosciuto che Matteo Renzi e il suo governo non c’entravano, perché erano appena arrivati. Da ieri, con l’arresto di Ercole Incalza,
non è più così. Il governo c’entra eccome. Il premier vede platealmente
rottamata la sua presunta rottamazione e deve spiegare molte cose, al
Parlamento e all’opinione pubblica. E il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi (Ncd)
se ne deve andare alla svelta. Il fatto che non sia indagato non vuol
dire nulla: per molto meno Renzi due anni fa, quando era ancora un
aspirante segretario del Pd, chiese la testa di due ministri del governo
Letta, Alfano e Cancellieri, che non erano indagati, ma certamente
responsabili di condotte ritenute incompatibili con le loro funzioni
(sequestro Shalabayeva e teleraccomandazioni alla figlia di Ligresti).
Lupi deve sloggiare o essere sloggiato non tanto per la storia dei presunti favori a suo figlio da parte di un costruttore arrestato,
quanto soprattutto per aver confermato un anno fa e lasciato fino alla
scadenza del mese scorso al suo posto di capo della struttura tecnica di
missione del ministero delle Infrastrutture Ercole Incalza, vecchia
conoscenza di procure e tribunali. Né Lupi né Renzi possono dire che non
sapevano: nel febbraio 2014, appena nacque il governo, e poi ancora a
giugno con un editoriale di Marco Lillo
(“O Incalza o Cantone”), il Fatto aveva incalzato – è il caso di dirlo –
il governo a rimuovere quel soggetto poco raccomandabile per “820 mila
ragioni”: tanti erano gli euro sganciati dall’architetto Zampolini
(vedi alla voce Cricca) nel 2004 per pagare la casa a suo genero, a due
passi da piazza del Popolo, bissando l’operazione Scajola. Solo che
Scajola disse che la casa gliel’avevano comprata a sua insaputa. Per
Incalza invece la lista degli insaputisti va allargata ai sette governi
che gli hanno lasciato le mani in pasta. Ingaggiato da Lunardi
(Berlusconi-2), Ercolino Sempreinpiedi fu cacciato da Di Pietro (Prodi-2),
poi riesumato da Matteoli (Berlusconi-3) e lasciato lì tanto da Passera
(Monti), quanto da Lupi (governi Letta e Renzi). E siccome un bel
giorno andò finalmente in pensione, fu subito riciclato come consulente.
Con l’aggravante che, quando nacque il governo Renzi, Incalza era stato
appena indagato (avviso n. 15!) a Firenze per gli appalti truccati del
Tav. Eppure fu subito rinnovato per un altro anno, con un concorso ad
hoc. E quando i 5 Stelle ne chiesero conto alla Camera, Lupi si presentò
a leggere una imbarazzante difesa scritta dal suo avvocato.
Quindi, per favore, questi tartufi che in men che non si dica votano
la legge per farla pagare ai giudici mentre da due anni non riescono a
votare l’anticorruzione (anzi, riescono a non votarla), ci risparmino
almeno lo stupore. Oltreché ramificato e invincibile – almeno finché
nessuno si deciderà a combatterla sul serio – la nostra Tangentopoli è
anche ampiamente prevedibile: un piccolo mondo antico dove non c’è
ricambio nemmeno fra i faccendieri, infatti s’incontrano sempre i soliti
noti, già inquisiti ai tempi di Mani Pulite, poi
reinquisiti negli anni 90 e 2000, tutti rimasti ai posti di
combattimento. Non nonostante, ma in virtù dei loro trascorsi penali.
Che, nel Paese di Sottosopra, fanno curriculum e sono indice di
esperienza e affidabilità. Greganti, Frigerio e Grillo (Luigi) in Expo.
Maltauro e Baita nel Mose. E ora Incalza, già balzato alle cronache
giudiziarie nel 1996 per gli scandali ferroviari di Necci & Pacini
Battaglia. Se poi qualcuno è proprio troppo vecchio per trafficare col
girello e la flebo, o magari è passato a miglior vita, trasmette il background
alla prole: nelle carte di Firenze, fra i comprimari non indagati,
affiorano i nomi di Pasquale Trane, figlio del socialista pugliese
Rocco, e Giovanni Li Calzi, figlio dell’ex assessore comunista milanese
Epifanio. Fra gli indagati invece troneggia Vito Bonsignore,
che non è il figlio dell’andreottiano condannato per tentata corruzione
a Torino negli anni 90 e di nuovo pizzicato 10 anni fa nelle scalate
dei furbetti del quartierino: è sempre lui, solo che ora è uno degli
azionisti di maggioranza – come pure Incalza – di Ncd, prezioso alleato
di Renzi, acronimo di Nuovo Centro Destra (per distinguerlo dal
vecchio), accreditato dai giornaloni come la “nuova destra liberale ed
europea”. E Antonio Bargone non è un parente dell’ex deputato
Pci-Pds-Ds, dalemiano di ferro e sottosegretario ai Lavori pubblici
di Prodi e D’Alema: è sempre lui, solo che s’è messo in proprio e
presiede le autolinee Sat. Idem per altri coprotagonisti, anch’essi
inquisiti, tipo Rocco Girlanda (ex deputato Pdl e sottosegretario di
Letta), Stefano Saglia (ex deputato di An e del Pdl), Fedele Sanciu (ex
senatore Pdl) e Alfredo Peri del Pd, assessore della giunta regionale
dell’Emilia-Romagna guidata da Vasco Errani, poi caduta per la condanna
del governatore per falso in atto pubblico. A prescindere dalle
responsabilità penali, che sono personali e saranno vagliate dai
giudici, finisce alla sbarra la banda larga dei soliti noti, che da 30
anni “fa il bello e il cattivo tempo” nella grande mangiatoia delle
grandi opere: Prima e Seconda Repubblica, governi politici e tecnici,
destra e centro e sinistra, rottamati e rottamatori.
L’unico leader che ebbe il coraggio di liberarsi di Incalza, Di
Pietro, è anche l’unico espulso dal Parlamento: era incompatibile col
sistema. Per anni ha proposto una legge semplice semplice: fuori dalle
pubbliche funzioni i politici e gli amministratori condannati e fuori
dalle gare pubbliche gl’imprenditori condannati. È quello che Renzi
chiama “Daspo per i corrotti”, credendo di averlo inventato lui. Ma si guarda bene dal farlo. Ora forse è più chiaro perché.
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