La
«rivoluzione passiva» dell’ultimo quarantennio e il mancato incontro
tra comunismo del Novecento e cultura del riconoscimento del Sé. I
«marxismi senza Capitale» di Gramsci e Della Volpe. Dalla «dialettica»
tedesca alla «differenza» francese. L’operaismo italiano tra Gentile e
Heidegger
Alla
fine degli anni ’70 del secolo scorso gli intellettuali italiani hanno
abbandonato, in massa e in modo definitivo, il marxismo. Il fenomeno non
è stato solo italiano, ma in Italia, per il radicamento e la lunga
storia che il marxismo, nelle sue varie accezioni, aveva avuto, quel
congedo significava la conclusione e la disgregazione di un mondo, di
una comunanza di idee, di linguaggio, di confronti e di scontri.
«Nell’arco di quattro o cinque anni, fra il 1976 e il 1981,
sprofondarono in una rapida obsolescenza modelli di pensiero, criteri di
valutazione morale e psicologica, forme della sensibilità. E con le
“cose” cambiarono le “parole”. A sottolineare il carattere radicale di
questo fenomeno di trasformazione dei modi di pensare di tutto un ceto
sociale e delle sue propaggini immediate qualcuno impiegherà più tardi
la metafora della mutazione antropologica e genetica»1.
Rivoluzione passiva
Da tale passaggio socio-culturale, che ha segnato
profondamente l’intellettualità e l’ideologia italiana, è derivata
insieme ad altri fattori, quella «rivoluzione passiva» che i ceti
popolari e i gruppi sociali più radicali hanno vissuto e subìto durante
l’ultimo quarantennio, e continuano tuttora dolorosamente e
drammaticamente a subire.
Perché a me sembra che quanto sia venuto accadendo negli ultimi decenni,
sul piano storico-sociale, nel mondo occidentale, e particolarmente in
Italia, sia definibile appunto come una rivoluzione passiva nel
senso più rigorosamente gramsciano di questa espressione, quale
rivoluzione-restaurazione: cioè quale realizzazione reazionaria e
regressiva di un programma di rivoluzione etico-politica originariamente
avanzato dai ceti subalterni2.
Non rientra, infatti, nel canone, appunto, di una rivoluzione passiva
l’assunzione e la trasformazione/svuotamento dei valori più positivi e
innovativi del ’68 nella realtà di un’«autorealizzazione amministrata»3,
ossia di un’affermazione e di una valorizzazione del Sé ricondotte a
funzione della tecnologia e delle macchine dell’informazione di cui s’è
avvalsa l’ultima rivoluzione industriale?
Quello che di più significativo la generazione
del ’68 aveva fatto avanzare sulla scena della storia contemporanea, al
di là dei mille infantilismi ed estremismi, era stata – a mio avviso –
la denuncia dei limiti di un’antropologia comunista troppo univocamente
consegnata ai soli valori dell’eguaglianza e della solidarietà. La
celebrazione e la diffusione della critica antiautoritaria significava
infatti la messa in campo, accanto e oltre il tema tradizionale
dell’eguaglianza, del diritto d’ognuno di accedere, coll’esposizione al
minor grado possibile di repressione, alla realizzazione del più proprio
e personale progetto di vita. Ma ciò che, poi, è venuta storicamente a
mancare, a partire dal ’68 e per tutto il decennio degli anni ’70, è
stata la mediazione e la fecondazione reciproca del vecchio paradigma di
una socializzazione attraverso eguaglianza con il nuovo paradigma
possibile di un’individuazione antiautoritaria. La cultura del comunismo della prima metà del Novecento, per diverse ragioni, non s’è incontrata con la cultura del desiderio e del riconoscimento del Sé della
seconda metà del Novecento.
Ma appunto tale fallimento storico è stato
il principio della rivoluzione passiva che n’è conseguita e del processo
paradossale per il quale, a muovere dagli anni ’80 e da quel dilagare
dell’americanismo che in Italia ha coinciso con il
craxismo-berlusconismo, gli ideali dell’individuazione emancipatrice e
rivoluzionaria, sono divenuti, assunti e tradotti nel linguaggio delle
classi dominanti, i valori della gestione imprenditoriale e
quantitativo-concorrenziale del proprio Sé. Esito paradossale che
connota strutturalmente una rivoluzione passiva e a cui, nella vicenda
italiana, si aggiunge l’ulteriore paradosso storico di essere stato
proprio il gruppo dirigente della tradizione comunista dell’eguaglianza a
trasformarsi nel ceto politico, che entrato in concorrenza con il
craxismo-berlusconismo, ha programmato e curato il transito alla pratica
e alla cultura dell’amministrazione americano-calcolante del proprio Sé.
Dunque quello che s’ha veramente da comprendere è
l’assenza d’incontro, a muovere dal ’68 e durante gli anni ’70, tra il
marxismo della tradizione e le filosofie della liberazione
individualizzante. Nella necessità d’intendere perché quegli anni che si
sono voluti interpretare come egemonici della cultura della sinistra,
tanto da essere suffragati in tal senso dai successi elettorali del
maggior partito comunista d’Occidente, siano stati invece segnati e
deformati da una radicale insufficienza, da un deficit teorico che ha
impedito che si generasse una reale egemonia: tale da cedere poi la
scena necessariamente e da rovesciarsi in una rivoluzione passiva.
Perché come ha insegnato Gramsci, nel suo riflettere su egemonie e
ideologie, non da supposto pensatore democratico come taluni ancora
vorrebbero, ma da sistematico e persistente intellettuale
rivoluzionario, una ideologia che aspira a esercitare egemonia deve
essere «totalitaria»: cioè deve proporre una visione e
un’interpretazione del mondo capaci di un elevato grado di
universalizzazione e di coerenza. Di universalizzazione, in quanto
l’ideologia egemonica deve implicare e riflettere dentro di sé la
totalità della struttura economica con la sua logica contraddittoria. Di
coerenza e di unitarietà in quanto l’ideologia che tende all’egemonia
deve esser capace della «elaborazione unitaria di una coscienza
collettiva omogenea», cioè in grado di superare, nel gruppo sociale in
questione, la compresenza di forme disparate ed eteroclite di
rappresentazione e di sapere, che testimoniano della presenza
colonizzante e subordinante, in quella coscienza sociale, di visioni del
mondo estranee e proprie di altre classi sociali.
Ed è proprio da qui, dal paradigma gramsciano
dell’ideologia e dalla possibile mancanza di soddisfacimento del suo
criterio totalitaristico di realizzazione, che è necessario partire, per
spiegare il perché ’68 e anni ’70 hanno rappresentato un’occasione
mancata di egemonia e di rivoluzione sociale. Con l’obbligo d’iniziare a
tal fine con un rapido quanto indispensabile resumé della
storia teorica e filosofica del marxismo italiano che precede il ’68 e
che può essere sintetizzata, a mio avviso, sia nella versione del
marxismo storicistico che nella versione del marxismo scientista,
attraverso la formula sintetica di un marxismo senza capitale.
Perché tali sono stati, a mio avviso, sia il marxismo
gramsciano-togliattiano da un lato che il marxismo
dellavolpiano-collettiano dall’altro: entrambi espressioni, proprio
perché «senza capitale» – ovviamente secondo rilevanza storica e piani
di gioco profondamente diversi – di una strutturale insufficienza quanto
a un reale progetto di egemonia sociale e culturale.
Marxismi senza «Capitale»
Il marxismo di Antonio Gramsci, per quello che
s’è appena detto, è stato attraversato da una potentissima passione per
la totalità, che non ha esitato a coniugarsi come una pratica, che io
definirei psicoanalitica, di formazione di una soggettività
collettiva. La prassi per eccellenza della filosofia della prassi di
Gramsci, della sua teoria della storia, com’è noto, non è infatti quella
della produzione economica, secondo la lezione dei classici del
marxismo, bensì quella etico-politica di conduzione all’egemonia di una
soggettività collettiva4.
La storia, prima che succedersi di modi di produzione, è per Gramsci
alternarsi di egemonie e di soggettività collettive. E funzione
fondamentale del darsi di un’egemonia è la produzione di una coscienza
ideologica omogenea e «totalitaria»5 che
possa diffondersi come un nuovo conformismo in tutto il complesso
sociale. In tal senso l’ideologia deve essere formazione di coscienza
adeguata e distruzione di falsa coscienza: deve cioè elaborare
l’inconscio del proprio gruppo sociale, quale deposito di colonizzazione
simbolica derivato dalle classi dominanti, trasformandolo da inconscio a
coscienza autonoma e critica. E deve avere la funzione
gnoseologico-conoscitiva e insieme etico-politica, di tradurre la
necessità naturalistica e passiva della vita economica e del sistema dei
bisogni materiali sotto la quale gli individui vengono atomisticamente
sussunti, nella coscienza attiva e collettiva di una progettualità
storico-sociale. Per Gramsci non esistono concezioni individuali del
mondo. Si è sempre partecipi di coscienze collettive. Ma la questione è
appunto quello del modo in cui una coscienza individuale vive e
partecipa ad una coscienza collettiva. O in modo frammentato e
autocontraddittorio6,
dove spesso c’è scissione tra la coscienza implicita nell’operare e la
coscienza verbale, o, al contrario, attraverso una consapevolezza
unitaria ed omogenea? Fare questione di egemonia implica dunque che,
contrastando l’acquisizione e l’assimilazione ideologica dall’esterno,
ciò che venga messo a tema è l’esistenza di un inconscio ideologico e le
pratiche della sua elaborazione.
Il limite di Gramsci, a fronte di tale profondissima innovazione dei concetti di prassi e di ideologia,
è consistito, a mio avviso in una simmetrica e speculare
sottovalutazione della capacità della struttura di costruire di per sé
storia e società, in una troppo rapida riduzione gentiliana
dell’economico a mera sfera del «fatto» di contro alla dimensione
propriamente ideologico-politica dell’«atto». Perché anche quando nelle
pagine audacissime di Americanismo e fordismo il pensatore comunista raggiungeva il massimo della penetrazione conoscitiva del presente, riuscendo a vedere l’economico capitalistico come capace di generare da sé medesimo anche il simbolico e il culturale,
la mancanza di una lettura del capitale come funzione più produttiva di
valore astratto che non fattore di sviluppo di forze produttive e di
valori d’uso l’obbligava a leggere la classe lavoratrice fordista, anche
qui gentilianamente, come capace di automatizzare e di rendere mero
corpo i meccanismi della fabbrica fordista e di liberare così la propria
mente7. Ed è appunto questo deficit strutturale
riguardo ad una teoria critica del processo di lavoro capitalistico in
quanto contemporaneamente processo di valorizzazione della ricchezza
astratta nonché di produzione delle forme della coscienza collettiva,
questa mancanza di una sociologia critica del processo lavorativo –
insomma un’appartenenza a un marxismo iscritto ancora nel mito
positivistico del progresso come sviluppo delle forze produttive – che
il gramscismo consegna al togliattismo. Di qui, si potrebbe aggiungere en passant, la genesi teorica, per contrapposizione e per riempimento di quel vuoto teorico, del marxismo dei Quaderni Rossi,
volti, soprattutto con Panzieri, a ricostituire appunto una sociologia
critica dei processi di lavoro adeguati all’industrializzazione e alle
innovazioni produttive del nostro paese.
Ma s’iscrive nella cornice teorica di un marxismo senza Capitale quel
cosiddetto marxismo della scienza, di Galvano della Volpe e, tra gli
altri, Lucio Colletti, che s’è contrapposto per tutti gli anni ’50 e ’60
al cosiddetto marxismo della storia, e la cui considerazione non può
essere evitata per una comprensione adeguata delle ideologie degli anni
’70. Marxismo senza Capitale anche qui, s’è detto, perché, a
ben vedere, anche tale marxismo che ha preteso di opporre la concretezza
dei fatti empirici e di un procedimento scientifico, purificato da ogni
contraddizione, alle astruserie della tradizione dialettica, si è
occupato assai poco del Capitale e della modernizzazione
capitalistica. Ossessionato dallo scopo di espungere la dialettica dalla
dignità del pensare, la sostanza di quel marxismo si è infatti risolta
nella necessità costante di ricondurre il Marx del Capitale ai manoscritti del giovane Marx e al loro sedicente superamento critico della filosofia di Hegel. Gli studiosi dellavolpiani e Colletti in primis –
inadeguati a comprendere quanto la vicenda del primo materialismo
marxiano nascondessero implicazioni di comunitarismo essenzialistico e
spiritualistico, e quanto l’intera vicenda dello Junghegelianismus si
attestasse un livello teorico assai meno elevato della capacità
hegeliana di porre problemi e soluzioni – hanno voluto leggere le
strutture e le legalità del capitale alla luce di una categoria ancora
pesantemente antropocentrica come quella di «lavoro alienato», senza
riuscire anch’essi di mettere a tema un’analisi dei processi di
astrazione capitalistica sottratta a presupposti antropomorfi e capaci
di essere all’altezza dell’astrazione impersonale di ricchezza
che si pone oggi al centro dell’accumulazione contemporanea. Salvo
accorgersi solo alla fine che l’intero discorso di Marx si collocava,
non all’interno di un orizzonte scientifico-empiristico bensì di
totalizzazione dialettica: con la conseguenza, a quel punto, di
dichiarare il pensiero di Marx e l’intero marxismo al di fuori di ogni
possibile pretesa di legittimità scientifica e di verità. Senza alcuna
possibilità d’intendere come la dialettica marxiana del Capitale, costruita sul dualismo ontologico di astratto e concreto,
sia, sì prossima nell’analogia, ma lontanissima nella sostanza da una
dialettica come quella hegeliana costruita invece sulle categorie
arcaiche della metafisica come Essere e Nulla.
Ma ciò che qui preme maggiormente sottolineare
non è tanto lo scarso controllo concettuale di quella apostasia che ebbe
comunque l’effetto di espellere definitivamente il marxismo dall’ambito
della tradizione e dei progetti di studio accademico-universitari.
Quanto il fatto che per buona parte dei quadri intellettuali
dell’estrema sinistra, critici del togliattismo gramsciano del Pci e già
destinati a essere i futuri quadri del ’68, il dellavolpismo e sempre
più il pensiero di Lucio Colletti abbia costituito l’interpretazione del
marxismo, la disamina teoretica, più originale, da accogliere e da
valorizzare, in senso radicale-rivoluzionario, di contro
all’accettazione di fondo del modo capitalistico di produrre e di
consumare.
In tal modo l’influenza culturale più
significativa, nel senso negativo, che ebbe la scuola dellavolpiana e
Colletti in particolare fu quella di scindere buona parte
dell’intellettualità più attiva e impegnata nei movimenti di
contestazione del ’68 e degli anni ’70 da una consuetudine di studio e
di riflessione sulle tematizzazioni dialettiche della totalità e delle
sue mediazioni – specificamente sul nesso dialettica-totalità nel verso
hegelo-marxiano – e in tal modo di consegnare quella generazione, sul
piano della filosofia e di una generale visione del mondo, verso altre
ispirazioni e verso altre scuole. Si potrebbe dire, per semplificare,
un’operazione di cultura antidialettica che, certo inconsapevolmente e
senza intenzione, concorreva in modo determinante a spostare la
sensibilità filosofica dall’area di cultura tedesca all’area di cultura
francese.
Non perché i marxismi degli anni ’70 non abbiano
guardato e tratto alimento, com’è ben noto, anche dagli autori della
Scuola di Francoforte, soprattutto per il rilievo che trovavano alla
tematiche dell’antiautoritarismo: basti pensare in tal senso alla
diffusione di un pensatore come il Marcuse di Eros e civiltà.
Ma anche qui, va aggiunto, frequentando pensatori che certo non avevano
rinunziato a pensare secondo l’orizzonte della totalità e della
dialettica, ma tra i quali pure stentava a darsi, per non dire che di
fondo era assente, la definizione di un vettore di totalizzazione e
integrazione che valesse ad esplicare organicamente la complessità della
vita sociale all’altezza dei termini richiesti dalla contemporaneità
capitalistica. Giacché i vari autori francofortesi hanno messo a tema la
dialettica della merce e del denaro, i rovesciamenti del feticismo, la
totalizzazione pubblicitaria e mass-mediatica, il dominio di una società
pervasiva e totalmente amministrata fin nelle scelte e nelle psicologie
individuali. Ma sono rimasti nel loro complesso sempre limitati alla
rappresentazione di una società più monetaria e mercantile che non
propriamente capitalistica, rinunciando anche loro in tal modo ad
un’analisi del variare delle composizioni organiche e delle
trasformazioni tecnologiche che ne derivano, ossia ogni volta a quello
studio, propriamente marxiano, delle innovazioni di quel sistema
inscindibile costituito dal nesso sistematico macchina-forza-lavoro,
che potesse valere come principio direttivo e primario di un’analisi
sociale estensibile dal piano delle strutture a quello delle
sovrastrutture.
Dalla «dialettica» tedesca alla «differenza» francese
È stata dunque l’estenuazione progressiva del
marxismo teorico, sia di tradizione storicistica che di tradizione
scientistico-empirica, a muovere dal suo originario vulnus di non pensare il Capitale come
soggetto sistemico della modernità e di non porre, di conseguenza,
all’ordine del giorno la totalizzazione dell’essere sociale che il
capitalismo, anche in Italia, veniva gradualmente realizzando - a
dissodare il campo perché la cultura dell’emancipazione radicale degli
anni ’70 si volgesse dall’area d’ispirazione tedesca a quella
d’ispirazione francese. La conseguenza fu che il marxismo filosofico,
abbandonati sia i paradigmi storicistici che quelli dell’empirismo
scientifico dell’alienazione, non potesse che cedere all’accoglimento
dell’althusserismo: a un teorizzare cioè che, senza mezze misure,
dislocava il pensiero di Marx dalla cornice dialettica nella quale era
nato, e nella quale anche se polemicamente s’era sempre trattenuto, ad
una cornice concettuale profondamente diversa- vera e propria μετάβασις εις άλλο γένος – quale
quella costituita dallo strutturalismo (con condimento lacaniano),
quale visione del mondo istituita non più sulla filosofia ma sulla
linguistica. Con la conseguenza primaria, per quel che ci riguarda, che
lo strutturalismo althusseriano segnava, malgrado le dichiarazioni in
contrario, una radicale e definitiva rinuncia alla prospettiva della
«totalità» quale chiave di volta di ogni prospettiva di ontologia ed
epistemologia storica.
Se totalità nella prospettiva del marxismo di frequentazione dialettica aveva significato la possibilità di pensare la molteplicità dei piani del reale nel loro rimando strutturale a un dominante vettore di sintesi e di unificazione, se
cioè la migliore tradizione dialettica aveva significato poter pensare
la «differenza» e il «divenire» senza rinunziare al valore
irrinunciabile dell’«identità» e della «permanenza», in Althusser la
teoria della molteplicità delle pratiche, ciascuna con uno statuto
proprio, apriva a una dissoluzione di qualsivoglia configurazione
sociale unitaria, cui la categoria della «surdeterminazione», presa in
prestito dalla psicoanalisi, non bastava a garantire un grado
sufficiente di sintesi e sistematicità. Trasportata di sana pianta dai
giochi dell’inconscio freudiano, per i quali un sintomo o un sogno
rimanderebbero a più catene ideative e causali, nell’ambito del gioco
sociale la categoria della surdeterminazione rimandava infatti in
Althusser solo a una genericissima teoria della correlazione dei
diversi ambiti, al ritrovar cioè in ciascuno degli spazi del reale
l’effetto della causalità dei molti altri: insomma all’annacquamento
delle problematiche dialettiche dell’uno e dei molti, del nesso dei
distinti e degli opposti, della connessione e dissimulazione di essenza
ed apparenza, in una generalizzata e semplificata teoria della
compresenza e della reciprocità.
Del resto non a caso tale strutturale insensibilità del pensiero di Althusser verso il valore della sintesi, e di ogni vertice teorico prominente e determinante,
si riproponeva quando aveva da riflettere sulla natura e la funzione
della soggettività individuale. Perché anche qui il soggetto, con il
meccanismo dello specchio preso a prestito da Lacan, veniva teorizzato
come impossibilità strutturale di ogni riconoscimento autonomo ed
identitario, in quanto in effetti solo relazione all’altro ed
esteriorità a se stesso: ossia dipendenza dall’Altro che lo riconosce
solo in quanto lo pervade e lo assoggetta con la sua legge e il suo
dispositivo simbolico. Cosicché gli «Apparati Ideologici di Stato», che
tanta prossimità si è detto mostrassero con il funzionamento
dell’ideologia in Gramsci, rimandano in effetti a una funzione
antropologica e sociale profondamente diversa da quella assegnata dal
comunista sardo alle sovrastrutture ideologiche. Perché mentre in questi
l’ideologico, nel verso positivo, è ciò che sottrae una classe o un
gruppo sociale all’ideologico in senso negativo, ossia
all’identificazione-introiezione con l’altro da sé costituito da
un’altra classe o gruppo sociale, in una conquista terapeutica e
progressiva del proprio, in Althusser mi sembra che non sia
affatto questione di «proprio». Giacché nel pensatore francese
interviene l’Altro in quanto tale, nella sua assolutezza di funzione
antropogenetica, a dar vita all’essere umano in quanto tale. Per cui non
è questione di colonizzazione di classe ma di genesi alla vita sociale
in quanto tale. Ed è a muovere da tale scelta iniziale a favore del
composito strutturalistico e del multiversum che Althusser ha
poi concluso coerentemente il percorso del suo pensare con l’esaltazione
del cosiddetto «materialismo aleatorio».
L’althusserismo, coniugando l’ispirazione di
fondo di tutto lo strutturalismo, radicalizza dunque in Italia il
convincimento di coloro che ormai pensano che la dialettica sia sinonimo
solo di mediazione e sintesi: sia insomma solo strumento di
conservazione e di legittimazione dell’esistente, sia sul piano
filosofico che su quello politico. Cosicché l’althusserismo, con una
lettura incredibilmente miope e semplificatrice della filosofia di
Hegel, diventa la testa di ponte dell’accoglimento di un pensiero
francese della differenza, o come si dirà più tardi della differance, nel quale ogni concezione di fondamenti primi della realtà, come di una possibile tassonomia gerarchica dei suoi diversi ambiti, viene criticata e data per superata.
Dal Desiderio come legge a sé stesso al sapere-potere
In tale prospettiva sono Deleuze e Foucault a
essere accolti come i più seduttivi protagonisti di una rivoluzione del
desiderio che possa affermarsi contro la norma repressiva di ogni
principio di realtà e di ogni sistema istituzionale. Perché se Nietzsche
era stato l’eroe eponimo del differenzialismo moderno – avendo posto a
principio della sua decostruzione dei valori dell’Occidente la
valorizzazione estremistica del corpo, come unica fonte del senso, quale
luogo di confronto e di polemos, costantemente nuovo, di
pulsioni e desideri – Deleuze, raccogliendone l’eredità, insieme a
quella del creazionismo vitale di Bergson, si era fatto massimo
protagonista di una cultura rizomatica che vedeva nelle strutture e
nelle legalità della permanenza il massimo del disvalore e della
inautenticità. Né a caso accadeva che la vittima più celebre di tale
estenuazione della differenza fosse proprio, con l’Antiedipo di
Deleuze e Guattari, la psicoanalisi di Freud. Perché anch’essa
criticata e denunciata come affetta dall’esigenza della «mediazione»:
della mediazione tra ordine degli affetti e ordine simbolico, tra
pulsione e linguaggio, tra i tre ordini del rappresentare, emozionale,
di cosa e di parola, tra lo spazio intrapsichico e intrasoggettivo e quello sociale e intersoggettivo.
Laddove appunto la pretesa deleuziana che il desiderio fosse, di per
sé, legge a se stesso e fattore totale di senso denunciava l’intera
impresa freudiana di essere, sia come teoria che come clinica, parte di
un generale impianto repressivo e conformista. Aprendo in tal modo la
strada a quella svalutazione della psicoanalisi freudiana, o meglio a
quel passaggio di vertice teorico da Vienna a Parigi, che non poco ha
contribuito poi a fare di quel dandy8
surrealista della psicoanalisi e impareggiabile sofista, che è stato
Jacques Lacan, l’unico supposto teorico in grado di coniugare
psicoanalisi e innovazione teorica, inconscio e apparati sociali e
simbolici.
Con Michael Foucault, alla valorizzazione
deleuziana del moltiplicarsi vitale dei rizomi di contro ad ogni
autoritarismo unitario, si è assommata la messa in scena di una
microfisica del potere che, attraverso uno studio originale e inedito di
universi disciplinari mai sufficientemente considerati, ha
ulteriormente radicalizzato un paradigma dissolutorio di ogni cornice di
sintesi e di logica sistemica. Nel solco della svolta linguistica che
ha connotato larga parte del pensiero del Novecento e nell’orizzonte
immediatamente futuro di un postmoderno pronto a risolvere ogni livello
dell’Essere nel linguaggio, Foucault ha rifiutato infatti ogni referente
extralinguistico dei logoi, teorizzando che i discorsi né
partono dalle intenzioni di esseri umani né rimandano a piani del
significato altri dal segno linguistico: perché i logoi sono
invece pratiche autosufficienti che producono esse medesime i propri
oggetti e i propri significati, senza far ricorso ad alcuna causalità
esterna, presuntivamente mossa o da un supposto soggetto umano, mai
realmente esistito, o da presunti fattori economici e storico-sociali,
assunti come fonte primarie. Perché muovendo dal principio che, come
scrive in Le parole e le cose, «solamente entro il vuoto
dell’uomo scomparso» si possa oggi realmente pensare che «chi parla non è
propriamente l’uomo, ma è la parola stessa», Foucault assolutizzava
l’unico paradigma della relazione oppositiva, secondo la quale ogni
pratica discorsiva, ogni forma del sapere, è attraversata e costituita
da rapporti di potere, di affermazione del vero contro il falso, del
superiore contro l’inferiore, di forze dominanti le contrarie.
Concludendo che sapere e potere sono intrinsecamente connessi e che le
relazioni di forza che generano il sapere-potere sono distribuite
localmente, secondo una microfisica che non è mai riducibile ad una
logica unitaria.
Tecnica heideggeriana e tecnologia marxiana
È dunque il pensiero francese, da Althusser a Foucault, a spostare il vertice del pensare dalla dialettica alla differenza,
sottraendo centralità al concetto marxiano di prassi e moltiplicandone
il senso in una congerie di pratiche eterogenee. Ed è in tale
radicalizzarsi di una concettualizzazione antidialettica che si svolge
l’ultimo episodio del marxismo italiano teorico-politico che qui
vogliamo considerare, qual è il traghettamento di buona parte
dell’intellettualità italiana di massa alla metafisica della differenza
ontologica di Martin Heidegger, compiuta dagli enfantes terribles dell’operaismo italiano.
A me sembra che l’ispirazione dell’operaismo
italiano, fin dalla prima versione di Mario Tronti e Antonio Negri, sia
sempre stata assai più prossima alla filosofia dell’atto e della
primazia del soggetto sull’oggetto di Giovanni Gentile che non alla
dialettica hegelo-marxiana della totalizzazione e del nesso
essenza-apparenza. Tanto da concepire la modernità capitalistica come
inaugurata e scandita, di volta in volta, dall’iniziativa della
soggettività operaia, cui il capitale avrebbe fatto sempre seguito,
adattandovisi e rispondendo con le diverse fasi di razionalizzazione
tecnologica e burocratico-politica: in una anticipazione di prassi
sovversiva e rivoluzionaria che esprimerebbe il primato strutturale
della composizione politica di classe sulla composizione organica del
capitale. Ora quello che qui preme più sottolineare, riguardo al nostro
tema, è che da tale esaltazione ed estremizzazione fichtiana dell’Io sul
Non-Io, lontana dalla lezione hegeliana della ragione dialettica come
mediazione di opposti, da tale irrazionalismo volto a valorizzare in
modo univoco un estremo contro l’altro, da tale retorica e
assolutizzazione della negazione, era quasi obbligato che derivasse, in
un proposito più o meno inconscio di abbandonare qualsiasi dialogo con
il marxismo delle tradizioni, una glorificazione del pensiero maledetto e
negativo: cioè di quei pensatori, primi fra tutti Heidegger, che il
Lukács ortodosso e in obbligo di obbedienza al materialismo di Stato, il
Lukács della Distruzione della ragione aveva condannato, come pensatori dell’oscurantismo e dell’irrazionale. Così molti degli operaisti – Massimo Cacciari in primis come
filosofo di spicco – e poi, tra gli altri, Agamben e altri – non hanno
avuto troppe perplessità nel lasciare un Marx, forse mai troppo
profondamente frequentato, per assumere il pensatore della Foresta Nera
come massimo interprete della modernità e come nuovo vertice teorico a
cui fedelmente ispirarsi per interpretare e trasformare autenticamente
la realtà. Qui non è certamente il luogo per aprire un discorso su
Heidegger e sull’arcaismo criptoreligioso del suo filosofare legato alla
riproposizione di una categoria vieta e superata come quella di
«Essere»: per altro, va detto, genialmente riutilizzata dal pensatore di
Messkirch per una critica reazionaria e misteriosofica della modernità.
È solo da sottolineare che con il traghettamento da Marx ad Heidegger
ciò che s’è venuto perdendo è stata sopratutto la serietà e la
complessità della lezione marxiana sulla «tecnologia» e sul processo
capitalistico di produzione a favore di una leggendaria e mitologica
teoria della «tecnica», che il filosofo dell’Essere, del tutto estraneo
ad una teoria del Capitale, ha avuto l’abilità di dedurre
dall’estremizzazione etimologica dei suoi filosofemi. Giacché proprio in
questo transito dal paradigma marxiano della critica dell’economia
politica al paradigma heideggeriano della critica della tecnica s’è
consumato, io credo, il passaggio decisivo dell’intellighenzia radicale degli anni ’70 ad una discontinuità, non più componibile, con l’orizzonte del marxismo novecentesco.
In Marx la tecnologia non è riducibile a tecnica, nel significato di un complesso di strumenti e dispositivi a disposizione dell’essere umano, perché l’Altro del processo produttivo è il processo di valorizzazione del Capitale,
con l’obbligo da parte della ricchezza astratta in accumulazione di
esercitare comando e dominio sulla forza-lavoro in un sistema
macchina-forza lavoro che produce lavoro astratto9. Ed è appunto quel nesso, di volta in volta tecnologicamente diverso, tra macchina e forza lavoro ad articolare con le sue esigenze specifiche le diverse età della società moderna.
Laddove in Heidegger l’Altro che alberga nella
tecnica, e che non consente di ridurla a una definizione antropologica e
strumentale, è l’Essere, quale principio ontologico che si
sottrae ad ogni identità, e che si manifesta, di epoca in epoca, secondo
i modi diversi del disvelamento, dell’alétheia. Per cui
l’essere umano sarebbe governato nella storia, di volta in volta, non
dalle configurazioni dei rapporti di classe, ma dalle diverse modalità e
destini del disvelamento. Riguardo alla disvelatezza, entro cui l’Essere di
volta in volta si mostra sottraendosi, l’uomo infatti non ha alcun
potere. Così la tecnica moderna non «è un operare puramente umano»,
perché la sua caratteristica è quella di un «disvelare impiegante», che
risponde alla modalità specifica del disvelamento come provocazione:
cioè come un continuo pretendere dalla natura che essa, come fondo,
fornisca energia da accumulare e da impiegare. E la tecnica moderna come
Gestell, come imposizione, è la risposta attraverso la quale
l’essere umano risponde alla provocazione di mettere allo scoperto le
energie della natura. La differenza dei due paradigmi, quello marxiano e
quello heideggeriano, non potrebbe essere stata più radicale, con la
ben diversa identità assegnata nelle due diverse visioni al Grande Altro
che governa e comanda l’umano – la categoria metafisica dell’Essere nel
pensatore della Foresta Nera e il Capitale con la sua
accumulazione nella concettualizzazione del Moro – ed è stato, a mio
avviso, appunto lo slittamento dal paradigma della critica marxiana
della tecnologia capitalistica al paradigma heideggeriano sulla tecnica
come invio destinale dell’Essere a valere come porta girevole, come
commutatore teorico di maggior effetto nel produrre l’abbandono
definitivo della visione di Marx del moderno come società del Capitale strutturata
su relazioni di classi e vederla invece come conseguenza ultima di un
abissale oblio dell’Essere che avrebbe investito l’umanità europea a
partire dalla Grecia classica di Socrate e Platone.
Ma era anche una nuova teorizzazione della
totalità che ora subentrava nella mente dell’intellettualità radicale
tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 con la
sovrapposizione e sostituzione della tecnica di Martin Heidegger alla
critica della tecnologia capitalistica di Karl Marx. Era infatti
l’adozione di un nuovo vertice teorico alla luce del quale ridisegnare
una nuova metafisica, una nuova e integrale concezione della realtà: con
l’esito paradossale di aprire l’accesso alle nuove ideologie del
postmoderno attraverso la riproposizione anacronistica di una categoria
vieta ed arcaica come quella di Essere. Una totalizzazione del reale
cioè, definitivamente lontana dalle categorie e dalle opposizioni della
dialettica, e fondata invece sulla differenza, sulla differenza abissale
ed ontologica tra Essere ed Esserci, e sulla fondazione sfondata, senza
fondamento dell’Essere, il cui sottrarsi ad ogni definizione
identificante, consegna il reale al pensiero debole, a proporsi cioè
come un mondo di epifanie e segni da interpretare, in un’ermeneutica
semiologica infinita, attraverso segni.
La metafisica heideggeriana della tecnica appare
così configurare l’atto finale dell’autoestenuazione dei marxismi
durante gli anni ’70. A partire dalla tecnica come Gestell infatti
non si potrà più comprendere adeguatamente la nuova era tecnologica del
capitalismo fondata sulla macchina informatica nel suo nesso con il
lavoro mentale, né il passaggio epocale dalla tipologia rigida e
fordista dell’accumulazione all’accumulazione flessibile e globalizzata.
Ma in particolare non si potrà per nulla mettere a tema e comprendere
la dialettica di essenza ed apparenza che costituirà il cuore di questa
nuova fase del capitalismo per la quale la subordinazione del lavoro
mentale alla macchina dell’informazione, con la riduzione delle
prestazioni lavorative a competenze solo linguistico-combinatorie,
apparirà alla superficie della vita sociale come esaltazione, invece, e
valorizzazione di una presunta autonomia e creatività di un’umanità
intellettiva e comunicativa, ormai affrancata dalla servitù del lavoro
manuale e capace, per tale affrancamento, di essere imprenditrice
flessibile di se medesima.
Per concludere, io vorrei dire che al
totalitarismo della vita sociale promossa e unificata dal capitalismo
globalizzato dei nostri giorni può opporsi solo un’ideologia parimenti
“totalitaria”, nel senso gramsciano di cui si diceva all’inizio. Aver
disatteso quell’imperativo è stata la mancanza più grave delle
generazioni, pure generose e radicali, degli anni ’70 e in particolare
dei loro maîtres à penser. Ma la lezione della storia non concede mai remissioni o perdoni.
Così, se è vero che alla fine degli anni ’80 gli
intellettuali italiani hanno preso definitivamente congedo dal marxismo,
la mutazione genetica che ne è seguita è andata assai più verso
un’antropologia dell’anaffettività culturale e del vuoto esistenziale
che non verso una rinnovata stagione delle passioni e delle idee.
La rivoluzione passiva di cui quegli
intellettuali sono stati, prima per affetto suicidario e poi per ilare e
trasformistica compensazione, paradossalmente e insieme oggetto e
soggetto, attende – ormai per estenuazione di fronte alla forza dell’Universale Economico che
da ogni luogo ci pervade –o di produrre, a mio avviso, una nuova
frequentazione degli universali dell’emancipazione, e, con essi, una
rinnovata ideologia totalitaria.
* Comunicazione al seminario
promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci e dalla Scuola Normale di Pisa su La
crisi del soggetto. Marxismo e filosofia negli anni Settanta e Ottanta,
Roma 26-28 novembre 2014.
1) D. Ferreri, L’ideologia
italiana, in La ragione possibile, 1990, n. 1, p. 11.
2) Cfr. P. Voza, Rivoluzionepassiva,
inDizionariogramsciano 1926-1937, a cura di G. Liguori e P. Voza, Roma,
Carocci, 2009, pp. 724-728.
3) Cfr. A. Honneth,A
utorealizzazioneorganizzata.Paradossi dell’individuazione, trad. it. di V.
Santoro, in post filosofie, 2005, n. 1, pp. 27-44.
4) Mi permetto di rinviare
ai miei due saggi, AntonioLabriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema
della «prassi», in A. Burgio (a cura di), Antonio Labriola nella storia
e nella cultura della nuova Italia, Macerata, Quodlibet, 2005, pp. 329-341;
Antonio Gramsci. La rifondazione di un marxismo «senza corpo», in P. P.
Poggio (a cura di), L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico,
Milano, Jaca Book, 2010, vol. 1, pp. 321-334.
5) «Solo un sistema di
ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura
e rappresenta l’esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della
prassi. Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per l’ideologia, ciò
significa che esistono al 100% le premesse per questo rovesciamento, cioè che
il “razionale” è reale attuosamente e attualmente» (A. Gramsci, Quaderni del
carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 2007, Quaderno
8, p. 1051).
6) «È preferibile “pensare”
senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale […] o è
preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e
criticamente? […] Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre
uomini-massa […] Criticare la propria concezione del mondo significa dunque
renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto in cui è giunto il
pensiero mondiale più progredito pensare coerentemente e in modo unitario»
(Ivi, Quaderno 11, pp. 1375-1376).
7) A proposito della
meccanizzazione fordista Gramsci può scrivere: «Quando il processo di
adattamento è avvenuto si verifica in realtà che il cervello dell’operaio,
invece di mummificarsi, ha raggiunto uno stato di completa libertà» (Ivi, Quaderno
22, p. 2170).
8) Cfr. S. Benvenuto, A.
Leucci, Lacan, oggi, Milano, Mimesis, 2014, p. 28.
9) Anche qui mi permetto di
rinviare al mio Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con
Hegel, Milano, Jaca Book, 2014, pp. 173-200. Sulla distinzione, concettuale
e storico-filologica, tra tecnica e tecnologia, è imprescindibile tener conto
della riflessione che ormai da molti anni svolge su questa tematica G. Frison.
Della sua ampia produzione qui basti citare Linnaeus, Beckmann, Marx and the
foundation of Technology. Between natural and social sciences: a hypothesis of
an ideal type. First Part: Linnaeus and Beckmann, Cameralism, Oeconomia
and Technologie, in History and Technology, 1993, vol. 10, pp.
139-160, Second and Third Parts, Beckmann, Marx, Technology and Classical
Economics, in History and Technology, 1993, vol. 10, pp. 161-173. Ma
si guardi dello stesso autore anche Technical and technological innovation
in Marx, in History and Technology, 1988, vol. 6, pp. 299-324.
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