L’editoriale del volume 1/2015 di Limes, “Dopo Parigi che guerra fa“, uscito dopo l’attacco a Charlie Hebdo del 7 gennaio.
1. AL FARMACISTA FRANCESE ÉMILE COUÉ DE LA CHÂTERAIGNE (1857-1926)
dobbiamo la teoria per cui è l’immaginazione a determinare le nostre
azioni. Per conseguenza, Coué consigliava ai pazienti una tecnica di
autosuggestione cosciente come terapia di base contro ogni malattia. Si
guarisce perché si crede di poter guarire. Tesi talmente popolare in
Francia da scivolare nel linguaggio comune: la méthode Coué
trasforma l’idea fissa in realtà. Il generale de Gaulle ne fornì una
dimostrazione geopolitica quando, a forza di ripetere a se stesso e al
mondo che la Francia aveva vinto la seconda guerra mondiale, finì per
convincerne il suo popolo e financo qualche vincitore effettivo. Di
recente, la psicologa Joanne V. Wood ha però spiegato che il placebo non
funziona se manchi di autostima: in tal caso, sottoporti all’autoipnosi
eccitante ti fa sentire subito peggio.
La disputa a distanza
Coué-Wood ci serve a illuminare la crisi di senso che agita noi europei,
di cui le reazioni alla strage del 7 gennaio nella redazione di Charlie Hebdo
a Parigi sono il sintomo estremo. Soffriamo di un deficit di
narrazione. Uno spaesamento. In senso stretto: non sappiamo bene chi
siamo né dove siamo, ma temiamo di sapere che le cose vadano male e
andranno peggio. I tentativi di rassicurazione di autorità statali e
intellettuali sempre meno autorevoli – siamo uniti nella difesa dei
nostri valori (quali?), il terrorismo non passerà – contano sull’effetto
Coué. Ma trascurano la critica di Wood: applicandosi a popolazioni
impaurite e depresse, quasi dimentiche del proprio relativo benessere,
producono effetti opposti. Dei quali il più devastante è la paura
dell’islam. Peggio: la convinzione che la religione musulmana, forte di
oltre un miliardo e mezzo di fedeli, ci abbia dichiarato guerra.
L’ultimo grido dello «scontro di civiltà». Mondo islamico contro
Occidente.
Narrazione forte, non
c’è dubbio. Peccato abbia un difetto: non si fonda su dati di realtà. Il
«mondo islamico» non esiste perché dalla morte di Maometto in avanti i
musulmani non hanno più una sola guida. Diversi «mondi musulmani» sono
oggi in competizione quando non in guerra fra loro, assai più che contro
di noi. Quanto all’Occidente, è dal crollo dell’Unione Sovietica che
l’Atlantico non cessa di allargarsi, mentre introversione e
neonazionalismi danno il tono al dibattito pubblico in Europa. La
tentazione di immaginarci in guerra con l’islam rischia perciò di
irrigidirci in posture irrealistiche. A erigere per compulsione barriere
e fortezze contro nemici immaginari, finendo per crearne di reali
mentre ingabbiamo noi stessi. Dal placebo al nocebo.
Contro lo spaesamento la
geopolitica può forse più della psicoterapia. Per cercare di intendere
radici e conseguenze degli attacchi terroristici di Parigi conviene
situarli nel contesto delle crisi misurabili o percepite. Senza
pretendere di scoprirne la chiave universale – esercizio che lasciamo
volentieri ai maîtres à penser e ai detentori delle certezze
ultime. E consci di quanto arduo sia tentarlo ancora a caldo, mentre
retoriche e controretoriche battono il tempo della cronaca e minacciano
di soffocare ogni sforzo di analisi.
2. Dal nostro punto di
osservazione italiano, disegniamo in questo volume un perimetro di
conflitti incrociati, da ciò che resta della Libia a ciò che resta
dell’Ucraina passando per Golfo e Mar Nero, salvo rientrare via Parigi
nel cuore dell’Europa. Ne osserveremo interdipendenze ma anche
irriducibili specificità locali, proiettandole sullo sfondo della
competizione geopolitica per eccellenza, quella fra Stati Uniti e Cina
per il primato mondiale. Partiamo di qui. Per tesi.
A) La cifra della
geopolitica planetaria è oggi il disordine. Come in ogni fase di caos
sistemico, si forma una domanda di ordine. Stati Uniti e Cina sono i
massimi soggetti in competizione per intercettarla, legittimarsi come
(co?)fondatori del nuovo ordine e affermarsi quali egemoni globali.
Rispetto ad altre coppie storiche in lotta per il primato, quella
sino-americana si segnala per la reciproca ignoranza. Non perché
cinesi e americani non dispongano di informazioni, semmai perché ne
hanno troppe – su se stessi e sul resto del mondo – ma non sanno come
interpretarle. Per difetto di abitudine i cinesi, per scarsa curiosità
gli americani. A entrambi manca la stele di Rosetta che consenta di
decrittare una lingua ignota grazie a un idioma noto. Ciò rende la
partita piuttosto imprevedibile, perché ognuno gioca il suo gioco e
legge le mosse altrui secondo codici propri.
B) Per vincere, Stati
Uniti e Cina hanno bisogno di soci. Non di alleati. Sui soci puoi
scaricare parte dei costi della competizione, in cambio di status e di
molto relativa protezione. Gli alleati invece pretendono di mettere
bocca sulla tua strategia. Anatema tanto per Washington che per Pechino.
Forse un giorno i due contendenti stabiliranno che il migliore degli
ordini mondiali possibili per entrambi è riscrivere insieme le regole
del gioco. Di recente, il vicepremier cinese Wang Yang è andato oltre:
«L’America è la guida del mondo e ha il sistema dominante con le sue
regole. La Cina vuole unirsi al sistema e rispettarne le regole» 1.
Desiderio, probabilmente. Orizzonte, forse. Non certo strategia. Xi
Jinping continua a percorrere strade parallele a quelle di Obama,
evitando lo scontro. Di qui a una convergenza paritaria o addirittura
un’adesione cinese al «sistema americano», ne corre.
Nell’attesa,
l’imperativo geopolitico è rafforzare e allargare la propria zona
d’influenza o almeno indebolire e restringere l’altrui. È sotto questa
luce che Stati Uniti e Cina scrutano l’area su cui si concentra il
nostro interesse – Europa, Russia e Grande Medio Oriente. Più che
serbatoio di potenziali soci, labirinto presidiato da nemici o sedicenti
amici pronti a colpirti alle spalle, come capitò agli Stati Uniti l’11
settembre. Gli americani, in delirio da autosufficienza non solo
energetica, tendono a sorvolare questa vasta regione – all’occorrenza
bombardandola nelle marche mediorientali a titolo di «guerra globale al
terrore» – perché secondaria rispetto al pivot asiatico. Rivelatrice
l’assenza di un qualsiasi esponente del governo Usa alla «marcia
repubblicana» dell’11 gennaio a Parigi. I cinesi s’ingegnano invece a
estrarne materie prime e ad allestirvi immaginifiche reti commerciali
ribattezzate «nuove vie della seta».
C) La partita
geopolitica globale si gioca sempre più sul fronte geoeconomico. Qui si
intersecano tre grandi crisi. Su tutte, quella dell’ordine di
Bretton Woods (il «sistema americano» di Wang Yang) fondato sulla triade
Fondo monetario internazionale–Banca mondiale–Banca per lo sviluppo
asiatico, che in ultima analisi mette in questione la primazia del
dollaro come moneta degli scambi internazionali. Di riflesso, riguarda
la capacità della Cina di costruire o meno un’alternativa al «sistema
americano» d’intesa con altre potenze emergenti, di cui la Banca per lo
sviluppo dei Brics e la Banca per gli investimenti nelle infrastrutture
asiatiche – insieme al discreto ma fattivo sostegno di Pechino al rublo
finito nel mirino americano – parrebbero prodromi.
In secondo luogo, il
crollo del prezzo del petrolio, con i suoi riflessi sia sui bilanci e
dunque sulla stabilità degli Stati produttori prigionieri della rendita
da idrocarburi, sia sui conti delle Big Oil e dei meno strutturati
«indipendenti» americani che hanno puntato sullo shale
finanziandosi con strumenti di dubbia consistenza, parametrati su valori
del greggio doppi rispetto ai correnti. Di qui le possibili
ripercussioni sul sistema finanziario internazionale e specificamente
occidentale, vista la consistente esposizione (oltre 500 miliardi di
dollari) di alcune banche americane sul fronte energetico, che rischia
di riprodurre una reazione a catena stile subprime, sia pure di proporzioni minori.
Infine, la permanente
incertezza sul futuro dell’Eurozona, ormai in deflazione. La
disfunzionale architettura della nostra area monetaria interagisce con
l’instabilità geopolitica e con l’esasperazione delle tensioni
sociopolitiche nell’Unione Europea, dove l’emergenza antijihadista
genera pulsioni xenofobe, chiusure nazionalistiche, latente
protezionismo. Così acuendo il nostro spaesamento.
Queste dinamiche
condizionano i rapporti di forza su scala mondiale, e molto
specificamente il perimetro geopolitico di nostro interesse, al centro
del quale si trova l’Italia. Fissati i parametri generali, addentriamoci
all’interno di questi spazi in tempesta, risalendo da sud a nord.
3. «Non c’è nulla oggi
nella nostra vita privata o pubblica che non sia direttamente o
indirettamente influenzato da qualche movimento umano proveniente da
questa zona» 2.
Così nel 1915 il tenente colonnello Sir Mark Sykes, autore l’anno dopo con il diplomatico francese François
Georges-Picot della partizione segreta del Levante e della Mesopotamia
ottomana, segnalava l’importanza delle province asiatiche del
sultano-califfo. Quella Siria e quell’Iraq oggi fusi nella sigla «Siraq»
di moda nei laboratori strategici occidentali, a echeggiare forse
inconsciamente i trionfali proclami del sedicente «califfo» al-Baġdādī, che ama offrirsi alla umma da eversore di quel patto fra «crociati» francobritannici.
A un secolo di distanza,
l’osservazione di Sykes non potrebbe parere più attuale. La strage di
Parigi e la febbrile emergenza anti-jihadista che ne è scaturita sono
anche – certo non solo – riflesso delle guerre che insanguinano quei
territori già soggetti alla dinastia ottomana di Istanbul. Guerre
anzitutto tra musulmani, le cui vittime sono quasi tutte musulmane. Dove
la religione, contrariamente a quanto diffuso dalla vulgata nostrana,
non è il movente. È strumento di legittimazione. Una maschera, di norma
indossata in ottima fede, dal formidabile impatto propagandistico,
destinata a nobilitare conflitti di potere fra soggetti regionali o
locali. Nei quali noi occidentali restiamo periodicamente impigliati:
partiamo manipolatori, finiamo manipolati.
A quattro anni dal breve
fiorire delle «primavere arabe», sette mesi dopo la proclamazione del
«califfato» e il contemporaneo inizio del crollo del prezzo del greggio –
coincidenza su cui i complottisti vorranno esercitarsi – il nostro
fronte sud è in pronunciata disintegrazione. Dal Nordafrica al Golfo e
all’Asia centrale, non un solo conflitto appare avviato a soluzione,
mentre proliferano nuovi incendi. I principali attori, regionali ed
esterni, sono indeboliti, frustrati, tentati dalla manutenzione della
tensione piuttosto che dalla ricerca del compromesso. Ciò vale anzitutto
per Arabia Saudita e Iran, la cui rivalità esistenziale per l’egemonia
nella regione del Golfo ha oggi il suo epicentro nel Siraq ma alimenta
focolai di conflitto a migliaia di chilometri da quel sanguinoso teatro,
dall’Afghanistan alla Libia, dallo Yemen al Sahel ex francese. Spazi di
decomposizione di ogni forma di Stato, che sconsiderate incursioni
militari occidentali all’insegna del «bombarda e fuggi» hanno
contribuito a svuotare dei poteri formali, invitandovi bande e predoni
solo interessati alla gestione dei traffici criminali e alla spartizione
delle ricchezze locali. Sempre per la maggior gloria di Dio.
A Riyad è in corso la bagarre fra principi di sangue per la successione al morente sovrano, il novantunenne ‘Abdullāh. Probabilmente entro
quest’anno l’Arabia Saudita avrà il nuovo re, la cui legittimità
rischia peraltro di essere contestata dai perdenti. I due massimi
pretendenti, l’ottantenne Salmān e il settantenne
Muqrin, non sembrano possedere lo slancio né il carisma necessari ad
aprire una stagione di urgenti riforme economiche e politiche,
inevitabili per salvare la monarchia saudita. Le distrazioni connesse
alle congiure di palazzo hanno contribuito alla deriva di alcune
avventure geostrategiche già in origine mal pianificate. Sul fronte
della competizione con l’Iran e la sua costellazione sciita, ramificata
fin dentro le ricche province petrolifere della Penisola Arabica e dello
stesso regno saudita, Riyad ha intrapreso due campagne, una geopolitica
l’altra geoenergetica.
La prima punta al rovesciamento del principale riferimento di Teheran in campo arabo e suo sbocco sul Mediterraneo: la Siria di Baššār
al-Asad. Dopo tre anni di massacri, il regime di Damasco resiste nella
sua congrua porzione di territorio. I gruppi jihadisti scagliati contro
al-Asad da Riyad e dai suoi satelliti del Golfo – oltre che dalla
Turchia, dagli Stati Uniti e dai franco-britannici in patetica vena
neocoloniale – non solo non hanno compiuto la missione assegnata ma sono
sfuggiti alla presa saudita e perseguono proprie agende. A cominciare
dallo Stato Islamico, che grazie alla brillante strategia comunicativa e
all’enfasi dei media occidentali si offre come soggetto autonomo,
catalizzatore della galassia jihadista, e dichiara la sua (improbabile)
ambizione di rovesciare la casa di Sa‘ūd per intitolarsi la custodia dei luoghi santi di Mecca e Medina.
La seconda mira a
cavalcare la caduta del prezzo del barile con la sorprendente decisione
di non tagliare la propria produzione nell’attuale congiuntura
energetica. La mossa saudita parrebbe indirizzata a punire il rivale
Iran, oltre alla Russia finita nel mirino del sempre meno affidabile
alleato statunitense. E insieme a mettere fuori gioco i produttori
americani di idrocarburi non convenzionali, non più in grado di
sostenere un business conveniente solo a prezzi del barile superiori ai
60 dollari. Anche su questo versante Riyad comincia a fare i conti con
gli effetti non voluti di tanta astuzia. Come e più degli altri rentier States,
l’Arabia Saudita fonda il suo bilancio pubblico (leggi: di famiglia)
per i nove decimi sull’export del tesoro fossile. Se questo perde di
valore, bisogna ridurre le uscite dello Stato, dunque il welfare.
Secondo uno studio della banca Citi, quest’anno la contrazione della spesa sarà del 18% 3.
Dopo la distribuzione di liquidità a pioggia degli ultimi anni,
funzione della necessità di stroncare sul nascere eventuali suggestioni
«primaverili» sul suolo saudita, l’impatto della riduzione dei servizi
può accentuare la fibrillazione nell’instabile scenario domestico, già
infragilito dalle tensioni regionali (carta 1).
L’Arabia Saudita resta
invece all’offensiva sul fronte geostrategico parallelo, diretto a
sradicare una volta per tutte la mala pianta dei Fratelli musulmani. In
questa partita interna al campo arabo-sunnita, condotta insieme alle
affini petromonarchie del Golfo (meno l’ambiguo Qatar, che pure sembra
orientato a rientrare sotto l’ala del grande fratello saudita), Riyad si
è concentrata sull’Egitto. Qui ha sponsorizzato con successo il colpo
di Stato del generale al-Sisi, infliggendo ai Fratelli musulmani una
tremenda sconfitta sul terreno di casa. Ora i sauditi incitano il
nuovo/vecchio regime del Cairo a cancellare ogni traccia dei Fratelli e
delle aspirazioni a un islam politico agitate nelle «primavere arabe».
Mentre sollecitano al-Sīsī a estendere l’epurazione alla
Libia ormai decomposta nel caos della guerra per bande, incassando di
passaggio la Cirenaica con i suoi tesori energetici.
Teheran non può troppo
profittare degli appannamenti sauditi. La Repubblica Islamica combatte
su più fronti, caldi e freddi. Difende con i suoi pasdaran sia il socio
siriano che quello iracheno. Insieme a Damasco, a Baghdad e ai curdi,
affronta su terra le milizie dello Stato Islamico. Qui si trova in
alleanza di fatto con il «Grande Satana» a stelle e strisce, che
martella dal cielo i jihadisti di al-Baġdādī. A un primo
sguardo, parrebbe che in Siraq i pasdaran siano la fanteria degli Stati
Uniti – o l’Air Force sia l’aviazione di Teheran. Ma sul dossier
decisivo, quello relativo al nucleare iraniano, dunque alla
reintegrazione a pieno titolo di Teheran nella scena internazionale, lo
stallo si prolunga. Obama lascia intendere di volere l’intesa con
l’Iran, salvo venire richiamato all’ordine dal Congresso, da Israele e
dall’Arabia Saudita. Nel lungo autunno obamiano, a Washington nessuno
sembra in grado di assumere decisioni strategiche. Ne soffre in Iran il
partito della trattativa, guidato dal presidente Hassan Rohani, oggetto
di attacchi e minacce da parte dei «falchi».
Nemmeno il terzo grande attore regionale, la Turchia, vive una stagione di successi. Erdoğan
ha dovuto abdicare alle ambizioni neoottomane coltivate all’alba delle
«primavere arabe», nella fase ascendente del breve ciclo di governo
della Fratellanza musulmana, bloccato dal fuoco di sbarramento dei
controrivoluzionari del Golfo – oltre che dalla radicata diffidenza
araba verso il turco. Fallita anche la guerra lampo per riportare
Damasco nella sua sfera d’influenza, per la quale aveva trasformato le
frontiere con Siria e Iraq nel retrovia logistico dei jihadisti
anti-Asad, ora Erdo ğ an sembra accontentarsi di scavare
d’intesa con i curdi di Barzani un corridoio nel Nord siriano, centrato
su Aleppo, per affermare l’asse Ankara-Arbīl. Curioso
fidanzamento d’interesse turco-curdo, dalle promettenti prospettive
geoenergetiche. Nello stesso ambito si colloca il patto stretto con
Putin per imperniare sulla Turchia la peraltro futuribile alternativa al
gasdotto South Stream, elevando così il suo paese a decisivo snodo
energetico fra Russia ed Europa. Unito alla refrattarietà a combattere
sul serio lo Stato Islamico, tuttora utile nella mischia siriana,
l’attivismo geoenergetico di Erdoğan in coppia con Putin
provoca l’indignazione di Washington. Alla Casa Bianca e al Congresso
si discute senza tabù di come punire la Turchia. I più irruenti
vorrebbero cacciare Ankara dalla Nato. Per un regalo così Putin sarebbe
forse disposto a convertirsi all’islam.
E lo Stato Islamico (Dā‘iš nell’acronimo
arabo, Is in quello inglese)? Qualcuno prevede che il «califfato» sia
destinato a completare la sua crescita da milizia locale a potenza
regionale. Da servo di troppi padroni, ciascuno sicuro di poterlo
eterodirigere ai propri fini – non sempre convergenti con quelli degli
altri aspiranti burattinai – a soggetto autonomo, capace di condizionare
i suoi sponsor se non di rovesciarne i regimi. Si cita la sua
espansione in Siria, dove secondo alcuni analisti americani
controllerebbe un terzo del territorio, anche se nel Nord-Ovest iracheno
la strana coalizione curdo-irano-americana sembra averne contenuto lo
slancio. Si elencano le autoproclamate affiliazioni all’Is di vari
gruppi jihadisti, dalla cirenaica Derna al Sinai, dal Maghreb al Sahel,
trascurando che si tratta più dello sfruttamento di un marchio di
successo che dell’integrazione in una rete unica gestita dal fantomatico
«califfo». Si osserva lo sforzo di impiantare nei territori conquistati
un embrione di Stato, con i suoi servizi alla popolazione, alimentati da traffici d’ogni genere, dal petrolio ai reperti archeologici (carta a colori 1).
La banda di al-Baġdādī
non sparirà presto. Ma immaginarne l’evoluzione a soggetto regionale
appare quanto meno prematuro, anche perché ciò potrebbe avvenire solo a
scapito delle potenze stabilite. Turchi, sauditi, sceiccati del Golfo
non sono disposti a lasciar spazio alle distopie geopolitiche dello
Stato Islamico. A loro il «califfo» va bene se resta entro gli attuali
steccati. Se continua a sembrare un fattore rivoluzionario, un grande
sparigliatore delle partite regionali, mentre esercita la funzione
opposta, di strumento per la conservazione dei regimi vigenti. È così
che serve ai suoi sponsor. E allo stesso al-Asad, in via di
rilegittimazione quale bersaglio dichiarato dell’Is. Regimi e jihadisti
si sostengono a vicenda, combattendosi o fingendo di combattersi.
Spirale micidiale, che la «primavera araba» sembrò poter spezzare, ma
che oggi, nell’indifferenza o talvolta con il supporto dell’Occidente,
torna ad avvitarsi, quasi a reiterare all’infinito le frustrazioni e le
dinamiche belliche che garantiscono la riproduzione dei vecchi poteri.
4. Nuova invece, e di
pregnanza strategica superiore, è la partita che abbiamo ingaggiato con
la Russia. Per indagarla, conviene ripartire dalla Siria. Sarà la
«maledizione di Sykes» inscritta nella sua centenaria profezia, saranno
il rango escatologico di quella terra nella teologia islamica e la
memoria storica della Damasco capitale del califfato omayyade che
ispirano la propaganda dell’Is. Fatto è che dalla Siria si è sprigionata
la scintilla dello scontro Russia-America, con annessi satelliti Nato. E
sarà forse ripartendo da un compromesso sulla Siria che sarà possibile
avviare la ricucitura dello strappo fra Mosca e Washington. A partire
dalla rinuncia di Obama a chiedere la testa di al-Asad come
precondizione dei negoziati di pace.
Lo scontro fra russi e
atlantici in Ucraina ha infatti un’origine siriana. Ne fu causa
occasionale la mossa scacchistica con cui nel settembre 2013 Putin
risparmiò al riluttante Obama di finire nella trappola della guerra
diretta contro al-Asad – peraltro costruita con le sue stesse mani
annunciando al mondo che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato
l’impiego (presunto) di gas venefici da parte del regime di Damasco
nella battaglia con i ribelli. Il presidente russo propose di porre
sotto controllo internazionale, per poi distruggerlo, l’arsenale chimico del
dittatore alauita. Obama e gli altri leader delle potenze che contano
aderirono, fra il sollievo per la scampata guerra e la sorpresa per
l’iniziativa russa. Notevole successo di immagine per Putin, che si
preparava a celebrare il ritorno della Russia al centro del palcoscenico
mondiale nei Giochi di So č i.
Quella mossa del
cavallo, che elevava Putin a plausibile candidato al premio Nobel per la
pace (per meriti acquisiti e non sulla parola, come era capitato a
Obama), non fu digerita a Washington. Ancor meno lo furono la
provocatoria lettera di Putin al New York Times nel dodicesimo a nniversario dell’11 settembre 4, che metteva alla berlina l’egemonismo
a stelle e strisce, e la decisione di ospitare a Mosca il disertore
Edward Snowden, in fuga con i suoi segreti. Anziché ringraziare il
leader del Cremlino per la mediazione in Siria, Obama si preoccupò di
come rimetterlo al suo posto: quello di capo di una potenza regionale
non nemica, ma nemmeno affidabile. Gli Stati Uniti non avevano sconfitto
l’Unione Sovietica per consentire all’impero russo di recuperare il
rango di potenza globale. Né intendevano tollerare che Mosca
strutturasse con Berlino e con la «Vecchia Europa» un’intesa a tutto
tondo, che da energetica evolvesse in geopolitica. Quando nell’autunno
2013 l’Unione Europea, spinta dalla «Nuova Europa»
anglo-baltico-polacca, aprì la crisi ucraina, presto evoluta in protesta
di piazza, poi nel colpo di Stato che spazzò via ogni traccia di
controllo russo su Kiev, Obama decise di cavalcarla fino in fondo.
L’Ucraina sarebbe diventata per la Russia ciò che fu l’Afghanistan per
l’Unione Sovietica: una ferita non suturabile, che costringerà Putin a
ridimensionarsi, se non ne provocherà addirittura la caduta.
Per ora, l’offensiva
americana miete successi. Il grosso dell’Ucraina è sottratto per il
tempo prevedibile alla presa di Mosca, che intanto si dissangua nel
supporto ai ribelli dell’Est. Paradossalmente, Putin rischia di passare
alla storia come il fondatore dello Stato nazionale ucraino, avendone
eccitato la passione patriottica, storicamente russofoba, con
l’annessione della Crimea e l’intervento a sostegno delle repubblichette
filorusse del Donbas. Quanto ai vincoli euro-russi, paiono seriamente
danneggiati, anche se tedeschi, italiani e perfino alcuni ex satelliti
dell’Urss s’ingegnano a riannodare i fili del negoziato per uscire
dall’incubo delle sanzioni che colpiscono chi le promuove quasi quanto
chi le subisce. Soprattutto, le rappresaglie commerciali – che a
Washington si vorrebbero financo più aspre – e il crollo del prezzo del
petrolio stanno mettendo in ginocchio l’economia russa, con il rublo
dimezzato, l’inflazione vicina al 20% e la perdita prevista per
quest’anno di almeno 3 punti di pil.
Respinta a occidente dalla Nato (carta 2), la Russia reagisce improvvisando un’Ostpolitik
imperniata sull’intesa con la Cina: caso di manipolazione reciproca nel
quale è però Pechino a scandire la cadenza. Intesa asimmetrica, in
funzione di bilanciamento dell’America. La stessa logica governa
l’apertura del Cremlino alla Turchia. Con la quale Putin si riaffaccia
sulla scena del delitto, la Siria in macerie. Il presidente russo sa che
una delle poche carte a disposizione per attenuare gli effetti della
guerra in Ucraina sulla sua economia e sulle relazioni con americani ed
europei è la sua influenza in Siria. Il regime di al-Asad è cliente
fisso di Mosca. Ma alla fine Putin non esiterebbe a sacrificarlo se ne
ricavasse solidi vantaggi sul fronte della guerra economica con
l’Occidente. Nello stesso contesto, la Russia può contribuire a
sbloccare il negoziato con l’Iran – altro nemico storico, dopo cinesi e
turchi, con cui sempre in chiave antiamericana Mosca ha stabilito
relazioni speciali. Infine, sui media russi non si cessa di enfatizzare
la minaccia jihadista, ricordando la breve ma intensa fase di
collaborazione con gli Stati Uniti in Afghanistan, subito dopo l’11
settembre. Lo Stato Islamico è dipinto come pericoloso tentacolo della
piovra islamista che dalla Penisola Arabica si riconnette ai confratelli
caucasici, alle frange estremiste dell’irredentismo tataro in Crimea
appena integrato nella Federazione Russa, allo stesso Tatarstan e alle
marche centroasiatiche ex sovietiche, a ridosso dell’Afghanistan.
Fra i più ragionevoli
esponenti dell’élite russa si evoca l’idea di una santa alleanza
antijihadista con americani ed europei per sottrarsi alla morsa delle
sanzioni e ristabilire un rapporto meno squilibrato con la galassia
atlantica. Quanto di realistico c’è in questa speranza? Poco o nulla, se
l’interlocutore è Washington. Qualcosa di più, forse, in ambito
europeo, dove lo shock della strage di Parigi potrebbe finalmente
favorire un approccio più coerente e concreto nella battaglia contro il
terrorismo islamista.
5. La strage compiuta da due cittadini francesi nella redazione di Charlie Hebdo, sincronizzata con quella successiva, di matrice antisemita, compiuta da un altro francese in un supermercato kosher
di Parigi, obbliga a riflettere su che cosa significhi oggi essere
cittadino di Francia. In base alla religione repubblicana della laicità,
fondata sulla legge del 1905 che separa Stato e Chiesa e sul principio
costituzionale dell’uguaglianza di tutti i citoyens,
indipendentemente dal culto, dalla razza o dal paese di origine,
potremmo classificare quei delitti come crimini comuni. Siamo o non
siamo nella patria della méthode Coué? Sta scritto nei codici,
dunque è così. Ma nei fatti così non è. Quelle stragi compiute da
francesi contro altri francesi esprimono la ferocia di un islamismo
autoprodotto, fermentato in menti criminali, che colpisce all’occasione
altri musulmani, sempre francesi, come il poliziotto Ahmed Merabet,
freddato dai fratelli Kouachi in fuga. Terrorismo a chilometro zero, che
non ci dice molto di nuovo sulle derive del jihadismo, ma dovrebbe
invitarci a riflettere su di noi – francesi, italiani e altri europei –
sui (non) rapporti che abbiamo stabilito con i musulmani di casa e sui
modi di reagire alla sfida terroristica.
Il caso francese è
insieme peculiare e paradigmatico. Peculiare perché segnato dalla
parabola coloniale della Francia in Africa e in Asia, nell’ambito della
«missione civilizzatrice» che ha portato l’Esagono a contatto con
popolazioni di varia impronta islamica. Paradigmatico perché è il paese
europeo a più forte presenza musulmana, pur se le cifre correnti sono
talmente poco verificabili che lo stesso ministro dell’Interno francese,
nel 2011, non seppe andare oltre una stima di «5-10 milioni» di anime.
Sicché la sua esperienza deve servire da riferimento critico per noi e
per gli altri Stati dell’Ue a crescente insediamento islamico (carta 3).
Ma è corretto parlare di
«comunità islamica», in Francia e in Europa? Ed è giusto classificare
Amedy Coulibaly e i fratelli Saïd e Chérif Kouachi quali portavoce di
tale comunità? Due volte no.
Quanto alla comunità. I
musulmani non appartengono a una Chiesa. Professano una religione del
Libro nella quale il credente intende comunicare direttamente con Dio.
Ogni musulmano può coltivare una sua idea dell’islam, senza che alcuna
autorità umana abbia il potere di «scomunicarlo». Sul piano pratico,
poi, in Francia come altrove, le differenze etniche e culturali fanno
spesso aggio sulla fede comune.
Tanto che singoli Stati
islamici, in competizione fra loro, tentano di organizzare i rispettivi
fedeli nelle moschee di riferimento, per farne uno strumento di
influenza nel paese ospite. Non esistono peraltro partiti musulmani in
Francia, in Italia o in Germania. È invece palese, anche sull’onda degli
attentati di Parigi, lo sforzo di alcuni imprenditori politici
«cristiani» di esibirsi come alfieri dell’anti-islam, quasi il
terrorismo fosse consustanziale a quella religione (grafico e tabella).
È poi curioso che il termine «comunità islamica» venga utilizzato dalle
autorità pubbliche per legittimare l’impresa di inquadrare i musulmani
nei nostri ordinamenti giuridici come un’associazione fra le altre. È il
caso del Consiglio francese del culto musulmano (oggetto di pallidi
tentativi d’imitazione in Italia), che ambisce a rappresentare – ossia
controllare – tutti i seguaci di Allah d’intesa con i governi dei paesi
di origine. Queste sfortunate prove di gerarchizzazione della galassia
islamica sul modello di una qualsiasi Chiesa cristiana testimoniano
della pulsione europea a proiettare sull’«altro» modelli propri,
percepiti velleitari, se non intrusivi, dai destinatari. Imporre un
centro a una religione senza centro, per di più nel contesto della
laicità come religione di Stato, è fatica di Sisifo che potremmo evitare
di infliggerci.
Quanto ai terroristi di
Parigi e ai loro emuli in Europa, concepirli avanguardie criminali dei
musulmani di casa nostra significa ignorarne la storia. Tipica la breve
traiettoria esistenziale dei fratelli Kouachi, avviata nel poco
praticante ambiente di un piccolo villaggio – «non li ho mai visti
pregare, la loro religione era Parigi», racconta un amico 5 – fino alla socializzazione nel XIXe arrondissement, dove sono
i maghrebini a dare il tono. Qui, a contatto con alcuni predicatori
radicali d’origine algerina, comincia la marcia di avvicinamento al
jihadismo. La cui matrice classica consiste nel rifiuto del quietismo di
padri e nonni, nell’incontro con le dottrine salafite in Rete o in
precarie moschee periferiche, nell’addestramento alla violenza anche
attraverso la piccola criminalità di quartiere, cui segue spesso il
carcere, luogo ideale per il reclutamento dei «guerrieri di Dio». A
seguire, l’avventurosa anabasi verso i teatri del jihād e l’eventuale ritorno in una patria che non è più tale, pronti a colpire «crociati», ebrei, apostati e quanti altri complottino contro la vera fede.
Nella sintesi di Olivier
Roy, studioso dell’islam: «I giovani radicalizzati, per quanto si
appoggino a un immaginario politico musulmano (la umma dei primi
tempi) sono in deliberata rottura sia con l’islam dei loro genitori che
con le culture delle società musulmane. (…) Si muovono nella cultura
occidentale della comunicazione, della messa in scena e della violenza,
incarnano una rottura generazionale (ormai i genitori chiamano la
polizia quando i figli partono per la Siria), non sono inseriti nelle
comunità religiose locali (moschee di quartiere), praticano
l’autoradicalizzazione su Internet, cercano un jihād globale e non si interessano alle lotte concrete del mondo musulmano (Palestina). Dunque non si occupano di islamizzare la società, ma di realizzare il loro fantasmatico eroismo malsano» 6.
Da questo abbozzo di
diagnosi possiamo trarre qualche indicazione terapeutica. A partire
dall’imperativo di non cedere alla retorica dello scontro di civiltà,
alla tentazione di sparare nel mucchio e di promuovere nuove crociate
nelle terre islamiche – proprio quanto serve ai jihadisti per
confermarsi nelle proprie certezze e reclutare altri fanatici. Al di là
dell’affinamento degli strumenti di prevenzione e repressione – dotando
intelligence e polizie occidentali dei mezzi materiali indispensabili a
fare il proprio mestiere e invitandole a dedicare parte delle energie
impiegate a spiarsi fra loro alla lotta contro il terrorismo – due
direttrici d’intervento parrebbero consigliabili.
La prima è d’ordine
geopolitico e parte dalla constatazione di un apparente paradosso. Nei
conflitti africani e mediorientali noi stiamo con i regimi arabi sunniti
che alimentano il jihadismo, a partire dall’Arabia Saudita. Inoltre,
siamo alleati della Turchia, porta girevole dei foreign fighters nei viaggi di andata e ritorno dalle palestre del jihād (carta a colori 2). Ove non bastasse, ci siamo innamorati – l’Italia più di altri paesi europei – dell’Egitto del dittatore al-Sīsī,
protagonista della mattanza contro i Fratelli musulmani che colpisce
l’unico diaframma fra l’islam politico, per quanto ambiguo, e il
terrorismo nel nome di Allah. Siamo invece avversari dell’Iran, l’unico
Stato – islamico o meno – che mandi i suoi soldati a combattere davvero
lo Stato Islamico, mentre non si conosce un solo terrorista di matrice
persiano-sciita che abbia preso di mira l’Europa. Per non farci mancar
nulla, ci dedichiamo contemporaneamente allo scontro con la Russia, che a
sua volta è in guerra permanente con i terroristi nel Caucaso, alcuni
dei quali sono accorsi a rafforzare le file del «califfo» al-Baġdādī. Infine, non abbiamo il coraggio di confessare a noi stessi che qualche foreign fighter non
è affatto sfuggito alle nostre maglie di sicurezza, ma è finito in
Siria su mandato delle intelligence occidentali impegnate a supportare
la battaglia contro al-Asad, colpevole di eccessiva prossimità all’Iran e
alla Russia. Tutto logico, tutto normale? O non è il caso di rivedere
il nostro approccio ai conflitti da cui trae alibi e nutrimento il
jihadismo domestico (carta a colori 3)?
La seconda riguarda
tutti e ognuno di noi. Se è vero, come icasticamente sostiene l’analista
geopolitico Manlio Graziano nel suo Guerra santa e santa alleanza, che «il terrorismo è la continuazione della disperazione politica con altri mezzi» 7,
non dobbiamo illuderci di sconfiggerlo una volta per tutte. Questa
modalità di guerra particolarmente perversa troverà sempre adepti. Se
così non fosse, qualche regime o Stato inventerebbe all’occorrenza il
suo mostro provvidenziale, illudendosi di manovrarlo. Ma proprio perché
il terrorismo è un pericolo permanente, dobbiamo sfuggire
all’ingranaggio della paura che ci spinge a enfatizzare l’attacco, ad
arroccarci in spazi recintati ma mai impenetrabili, a scambiare i
migranti per orde nemiche che starebbero invadendo il Bel Paese, tra le
cui pieghe s’infiltrerebbero squadre di attentatori (carta a colori 4).
Salvo poi lanciarci, accecati dal terrore autoprodotto, in campagne
militari destinate a scavare nuove buche nella sabbia, da cui
scaturiranno nemici più agguerriti e numerosi di quelli che avremo
eliminato. La lotta al terrorismo implica determinazione fredda,
paziente. Intelligenza, non furia vendicativa.
Nella testata, Charlie Hebdo
si qualifica «giornale irresponsabile». Ha il diritto di farlo e noi
abbiamo il dovere di difenderlo. Ne va del principio fondamentale della
libertà d’espressione, oltre che del sacrosanto gusto per l’irriverenza,
del quale nel libero Occidente andiamo assai fieri. Esiste però un
principio altrettanto basilare, quello di responsabilità, secondo il
quale dobbiamo considerare le conseguenze dei nostri atti. È giusto
pubblicare a ripetizione vignette «irresponsabili» su Maometto, quando
si sa, o si dovrebbe sapere, che nel miliardo e mezzo di musulmani ce ne
saranno molti non abbastanza spiritosi da apprezzarne il presunto
umorismo? E che fra questi potrà trovarsi qualcuno disposto a vendicarsi
a modo suo, tagliando gole «crociate» o massacrando ebrei nel nome del
suo personalissimo dio e del «califfo» di turno? Fra i princìpi di un
sano laicismo non dovrebbero trovar posto anche senso della misura e
coscienza del limite? A ciascuno la sua risposta.
1. Cfr. F. SISCI, «China’s New International Mindset?», 4/1/2015, www.gatestoneinstitute.org/5004/china-us-leadership
2. Cfr. M. SYKES, The Caliph’s Last Heritage. A Short History of the Turkish Empire,
Reading 2002, Garnet, p. 1. È la ristampa anastatica dell’edizione
originale, apparsa nel 1915 a Londra presso Mc-Millan and Co.
3. Cfr. S. KERR, «Crude Slide Poised to Hit Saudi State Spending», Financial Times, 17/1/2015.
4. V. V. PUTIN, «A Plea for Caution from Russia», The New York Times, 11/9/2013, www.nytimes.com/2013/09/12/opinion/putin-plea-for-caution-from-russia-on-syria.html?pagewanted=all
5. Cfr. R. CALLIMACHI, J. YARDLEY, «From Scared Amateur to Slaughterer», The New York Times, 17/1/2015.
6. O. ROY, «L’islam face au terrorisme», Le Monde, 10/1/2015.
7. M. GRAZIANO, Guerra santa e santa alleanza, Bologna 2014, il Mulino, p. 205.
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