mercoledì 4 novembre 2015

CUCINARE LENIN IN SALSA SOVRANISTA. SIGNORI, LA CIOFECA È SERVITA!


lenin-cat1Contrapporre Lenin, anche solo in guisa di mostruosa mummia crudelmente esposta nel noto mausoleo moscovita, alle «sinistre» in generale e alla Presidente della Camera Laura Boldrini in particolare è una bizzarra idea che poteva maturare solo nella dialettica testa di un autentico “marxista”, ancorché sedicente “ultimo”. Alludo forse al filosofo più telegenico d’Italia, nonché appunto «ultimo marxiano», come da rubrica, Diego Fusaro? Ovviamente! Leggiamo dunque una perla storico-dialettica di rara bellezza uscita dal suo fecondo cervello: «Nel tempo del sovrano disinteresse per la condizione del lavoro e per i diritti sociali, la sinistra pare essersi reinventata come sinistra arcobaleno dei diritti civili [rispetto a questa cianfrusaglia piccolo-borghese il Virile Vladimir Putin è cosa assai più seria!] e dell’Europa senza se e senza ma. Ma siamo davvero sicuri che l’idea degli Stati Uniti d’Europa sia emancipativa, progressiva e di sinistra? Proviamo a chiederlo a un autore che certo di destra non era e che sarebbe pure difficile liquidare come nazionalista o in odore di fascismo [excusatio non petita, accusatio manifesta?]. Alludo a Lenin, l’eroe della Rivoluzione bolscevica e del comunismo storico novecentesco» (1). Segue citazione leniniana tratta da un celebre (presso i cultori della materia, si capisce) scritto dell’agosto 1915: Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa (2). Ora, accostare l’uomo di Simbirsk alle «sinistre» (da Varoufakis a Laura Boldrini, da Lafontaine a Fassina, da Corbyn a… Fusaro), anche solo in forma strumentale, ossia per criticarne gli esponenti più illustri, ha un solo atomo di senso? A mio avviso ciò può avere un solo senso: quello di metterci nelle condizioni di comprendere l’idea di “sinistra” che hanno in testa Fusaro e gli intellettuali “marxisti” di analogo (pessimo!) conio politico-ideologico. Ma nel momento in cui perfino un Alfredo Reichlin può impunemente scrivere sul giornale fondato da Matteo Renzi (L’Unità) i passi che seguono: «Ebbene sì, Enrico Berlinguer era comunista. Ma c’è di peggio. C’è gente come me che non solo era comunista, lo è ancora»; se le cose stanno così, nessuno, nemmeno Vladimir Il’ic in persona, può impedire al personaggio non di rado preso di mira su questo modesto blog le corbellerie storico-politiche che ama propinare sul mercato delle ideologie.  Ma sì, arruoliamo pure l’internazionalista Lenin nella campagna antieuropeista a difesa dello Stato nazionale (borghese)!
Ma cosa scriveva nel pieno della Grande Guerra il capo bolscevico a proposito dell’ultrareazionaria parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa? Leggiamo qualche passo tratto dall’articolo citato sopra: «Gli Stati uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari. Il capitale è divenuto internazionale e monopolistico. […] In regime capitalistico non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo economico né delle singole aziende, né dei singoli Stati. In regime capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, all’infuori della crisi economica nell’industria, e della guerra nella politica. Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti europei… Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie usurpate, contro il Giappone e l’America che sono molto lesi dall’attuale spartizione delle colonie e che nell’ultimo cinquantennio si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell’Europa arretrata, monarchica, la quale incomincia a putrefarsi per senilità. In confronto agli Stati Uniti d’America, l’Europa, nel suo insieme, rappresenta la stasi economica. […] Gli Stati uniti del mondo (e non d’Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle nazioni, che per noi è legata al socialismo, fino a che la completa vittoria del comunismo non porterà alla spartizione definitiva di qualsiasi Stato, compresi quelli democratici» (313-314). Per Lenin, dunque, il progetto “europeista” si collocava interamente nella dimensione degli interessi del Capitalismo europeo giunto nella sua fase imperialista: conservare le colonie, difendere lo status quo politico-istituzionale del Vecchio Continente, schiacciare il proletariato rivoluzionario, rafforzarsi nei confronti degli imperialismi concorrenti: Stati Uniti d’America e Giappone, in primis.
Osservo en passant che in una nota scritta alla fine dell’agosto 1915 Lenin puntualizza nuovamente come «la parola d’ordine reazionaria» degli Stati Uniti d’Europa significasse «un’alleanza temporanea delle grandi potenze d’Europa per una più efficace oppressione delle colonie e per la rapina del Giappone e dell’America, che si sviluppano più rapidamente» (3). Ora, volendo ragionare al modo di tante mosche cocchiere “antimperialiste” che ancora oggi si basano sul famigerato principio maoista del Nemico Principale, dovremmo concludere che allora Lenin sostenesse politicamente, in chiave tattica, l’imperialismo nippo-americano («Nemico secondario») contro l’Europa («Nemico principale»). Cosa che naturalmente farebbe scompisciare dal ridere anche la mummia di Lenin.
Ovviamente il rivoluzionario russo non era così teoricamente sciocco e politicamente così sprovveduto da pensare che la rivoluzione sociale proletaria potesse avere immediatamente una dimensione mondiale; proprio a causa dell’ineguale sviluppo capitalistico, «una legge assoluta del capitalismo» che detta i tempi – e impone il ritmo – al processo sociale considerato nella sua dimensione planetaria rende impossibile «il trionfo del socialismo» in tutti i Paesi, o quantomeno nei più importanti Paesi del mondo, “in simultanea”, e nemmeno nel corso di un breve arco di tempo. Certo, se poi la cosa dovesse realizzarsi nessun comunista griderebbe allo scandalo, questo è sicuro! Ma è sempre meglio attrezzarsi per il peggio, come testimonia peraltro la stessa esperienza rivoluzionaria europea di inizio Novecento culminata nell’Ottobre Rosso – poi, con lo stalinismo, diventato Russo, anzi: Grande-Russo.
Qualche mese fa un lettere di un mio post sulla Cuba castrista mi domandava (fra l’altro): «Dunque per te la rivoluzione o è mondiale o non è?». Ecco la mia risposta:
Anche per me la rivoluzione sociale anticapitalistica non può prescindere dall’ambito nazionale, necessariamente, perché la dimensione nazionale è un dato di fatto. La simultaneità della presa del potere su scala planetaria è un’ipotesi affascinante e bellissima, ma credo abbastanza utopistica. Penso anche che se la dimensione nazionale di una rivoluzione riuscita non viene superata quanto prima (e solo la prassi può stabilire la misura di questo tempo) la «costruzione del socialismo in un solo Paese» sia non un’utopia, ma un’idea ultrareazionaria buona solo a mistificare la realtà della sconfitta. Ogni riferimento alla controrivoluzione stalinista è del tutto voluto. La natura proletaria e socialista del Grande Azzardo leniniano non consistette, a mio avviso, nelle misure economico-sociali prese dai bolscevichi dopo l’Ottobre, quasi tutte rubricabili come provvedimenti da economia di guerra (questo fu in pratica il “Comunismo di guerra” sul terreno economico-organizzativo, come confesserà lo stesso Lenin nel 1921, in sede di bilancio critico) (4), ma nella dimensione internazionale di quella rivoluzione, nel porsi essa come avanguardia di un processo sociale rivoluzionario di respiro mondiale, o quantomeno europeo. La Russia come anello debole della catena imperialistica; la Rivoluzione Russa come scintilla che incendia il mondo: su queste basi Lenin architettò nel corso di molti anni e implementò con geniale tempestività il Grande Azzardo. Com’è noto, il mondo non prese fuoco. Ma ciò, sempre a mio avviso, non depone contro la Grande Scommessa; dimostra piuttosto che la rivoluzione sociale è un’equazione con moltissime incognite (5).
Lo scritto di Lenin sugli stati Uniti d’Europa è stato spesse volte chiamato in causa dagli stalinisti, e dallo stesso Stalin nel dicembre del 1924, se ricordo bene, per dimostrare – contro Trotskij (6) – come la tesi del Socialismo in un solo Paese fosse stata elaborata, o quantomeno evocata, per la prima volta da Lenin, il quale scriveva: «È possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si porrebbe contro il resto del mondo capitalistico, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, infiammandole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati» (7). Ora, qualsiasi cosa avesse in testa Lenin nel 1915 a proposito dell’organizzazione della produzione socialista in un solo Paese (e certamente allora egli non stava pensando alla capitalisticamente arretrata Russia, ma semmai alla Germania e all’Inghilterra), rimane il fatto che alla fine della Guerra Civile il comunista russo sosterrà la vitale necessità di una dolorosa «ritirata strategica», da sostanziarsi soprattutto in una Nuova Politica Economica che mettesse il proletariato russo nelle condizioni materiali, oserei dire fisiologiche, di resistere al potere in alleanza con i contadini poveri, in attesa di un nuovo ciclo rivoluzionario in Europa e nel mondo. La Rivoluzione d’Ottobre può essere valutata correttamente solo da un punto di vista internazionale.  La scommessa, al limite dell’impossibile, non andò a buon fine, e al posto della rivoluzione mondiale chiamata a soccorrere l’affamata, isolata e accerchiata Russia dei Soviet sarebbe arrivata la marea controrivoluzionaria che porta il nome di Stalin. Ma questa è un’altra storia – il cui maligno retaggio però continua a intossicare non poche teste.
Il materialista storico-dialettico Fusaro mette nella testa di Vladimir (si parla di Il’ic Ul’janov, non di Putin!) il concetto di nazione che lui ha nella sua testolina di intellettuale borghese, e così fa del comunista russo un sostenitore, uno sponsor di «un impiego emancipativo del concetto di nazione, non regressivo e reazionario». In primo luogo, se Lenin non avesse concepito (già un secolo fa!) la nazione, almeno la nazione come si configurava storicamente e socialmente nei Paesi capitalisticamente avanzati del suo tempo (ma anche nella Russia zarista, per la sua funzione storica di avamposto controrivoluzionario), nei termini di un concetto regressivo e reazionario, un concetto contrario alla lotta di emancipazione delle classi subalterne e dell’intera umanità, egli non avrebbe certo definito come imperialista, da ogni lato del fronte, la natura della Grande Guerra. Lenin oppose alla reazionaria parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa l’internazionalismo proletario, non un «concetto di nazione non regressivo e reazionario». Scriveva sempre Lenin: «L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente davanti ai nostri occhi nell’Italia che opprime altri popoli, che depreda la Turchia e l’Austria, nell’Italia di una borghesia brutale, sudicia, reazionaria» (8).  Ecco come ragiona un autentico materialista storico: sul piano del progresso storico l’Imperialismo, in Italia e negli altri Paesi capitalisticamente sviluppati d’Europa e del mondo, attesta definitivamente, una volta per tutte, l’esaurimento della spinta propulsiva dell’epoca borghese, e ciò implica necessariamente che niente di storicamente progressivo (non diciamo di rivoluzionario) può più dare la borghesia nazionale nell’epoca del dominio totalitario (o globale) del Capitale sugli uomini e sulla natura. Altro che Nazione proletaria! Altro che Secondo Risorgimento! Altro che Nazionalismo di classe! Altro che Socialismo nazionale! Altro che… Benito Mussolini! Analogo discorso si può fare per la Seconda guerra mondiale.
In risposta al libro di T. Barboni Internazionalismo o nazionalismo di classe? (1915), Lenin scrisse che i veri socialisti «devono servirsi di ogni lotta allo scopo di smascherare e abbattere ogni governo, e in prima linea il proprio governo per mezzo dell’azione rivoluzionaria del proletariato internazionalmente solidale. Non c’è via di mezzo; in altre parole: il tentativo di prendere una posizione intermedia significa in realtà un passaggio camuffato dalla parte della borghesia imperialista» (9). Com’è noto, la mosca cocchiera (o «transfuga del partito operaio» secondo il Lenin del 1915) che si affermerà in guisa di Duce degli italiani all’inizio degli anni venti, alla fine del 1914 bollò la posizione internazionalista qui sintetizzata da Lenin (e sostenuta dall’estrema sinistra del PSI) come il frutto di un socialismo parolaio che non sapeva fare i conti con la storia, e che quindi era condannato al più impotente dei settarismi. Contro la «barbarie teutonica» l’ex massimalista di Predappio difendeva «un impiego emancipativo del concetto di nazione, non regressivo e reazionario».
In secondo luogo, la dimensione nazionale a cui alludeva Lenin nello scritto sull’Europa era quella segnata dalla rivoluzione proletaria vittoriosa, non la dimensione caratterizzata dal dominio capitalistico. Quando parla di nazione e di Stato nazionale Fusaro rimane sempre nel vago, usa formule ambigue (10) prese a prestito quasi sempre da Gramsci: non si capisce se sta parlando dello Stato nazione borghese, o dello Stato di nuovo conio che sorge in quanto «dittatura rivoluzionaria del proletariato», secondo la nota formulazione marxiana. Scrive Fusaro: «Come dirà Gramsci, nei Quaderni del carcere, la prospettiva deve certo essere internazionalista (l’emancipazione dell’umanità), ma il punto di partenza dev’essere nazionale». Su questo punto io cito l’internazionalista di Treviri: «Lassalle aveva considerato il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale, in contrasto con il Manifesto comunista e con tutto il socialismo precedente. Lo si segue in questo e proprio dopo l’attività dell’Internazionale! Si comprende da sé che per poter, in genere, combattere, la classe operaia deve necessariamente organizzarsi nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il teatro immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma per la sua “forma”. Ma l’ambito dell’odierno Stato nazionale, per esempio del Reich tedesco, si trova a sua volta, economicamente, nell’ambito del mercato mondiale, e politicamente “nell’ambito del sistema degli Stati”. […] L’intero programma , malgrado tutte le chiacchiere democratiche, è appestato completamente dalla fede del suddito, proprio della setta di Lassalle, verso lo Stato o, cosa non certo migliore, dalla fede democratica nei miracoli, oppure è piuttosto un compromesso tra queste due specie di fede nei miracoli, ugualmente lontane dal socialismo» (11). Avete capito adesso chi è il vero teorico dei socialsovranisti, da Stalin in poi? State forse pensando allo statalista Lassalle? Allora pensate bene! Il fatto che la stragrande maggioranza delle persone, di “destra” come di “sinistra”, associa il “socialismo” con il Capitalismo di Stato ci dà la misura del successo politico di Lassalle, camuffato con la barba del mangia crauti tedesco (12).
«Io non sto con i buoni. Io sto con i cattivi. Io non sto con gli Stati Uniti di Obama ma con la Russia di Putin, e anche l’Europa dovrebbe stare con il “cattivo” Putin. Il mondo ha bisogno di una Russia geopoliticamente forte e militarmente autonoma. L’Europa dovrebbe guardare alla Russia per contenere l’imperialismo americano, per appoggiare i Paesi che vi si oppongono, per frenare il dilagare dell’economia capitalistica di stampo americano. Ma l’Europa oggi non esiste nemmeno geograficamente; esiste solo l’euro» (13). Geopoliticamente parlando l’Europa non esiste: che peccato! Ma un momento: questo significa che degli Stati Uniti d’Europa cattivi, geopoliticamente forti e militarmente autonomi, ossia di stampo rigorosamente antiamericano, andrebbero bene a Fusaro? Giuro, non l’ho ancora capito! Per una mia congenita indigenza dialettica, probabilmente.
In effetti, l’intellettuale che dalla gabbia televisiva recita il ruolo del “rivoluzionario” duro e puro per una platea assetata di sangue “castale” e neoliberista sembra avere occhi solo per un imperialismo (quello statunitense/Occidentale), solo per un’economia sfruttatrice (quella di stampo anglosassone), solo per una cultura omologata e omologante (quella statunitense/Occidentale). Evidentemente egli ritiene più “umani” e “progressivi” l’imperialismo, il capitalismo e la cultura dei Paesi concorrenti degli Stati Uniti. Insomma, qui ci troviamo dinanzi al solito antiamericanismo camuffato da antimperialismo che sa fare politica e geopolitica, che è in grado di fare i conti con la realtà qual è, e non come taluni dottrinari vorrebbero che fosse. Peccato che sia una capacità politica messa interamente al servizio dell’imperialismo che contende agli Stati Uniti il dominio, o quantomeno l’egemonia sull’intero pianeta. L’operazione politica di non pochi putinisti di “sinistra” (perché ci sono anche quelli di “destra”) è oltremodo chiara: mettere l’internazionalista Lenin al servizio dell’imperialismo russo, assetato di rivincita dopo i disastri dell’Unione Sovietica. Cucinare Lenin in salsa putiniana: la ciofeca è servita!
«La vera prospettiva internazionale è quella che non annulla le specificità universali sotto il segno del capitale e della sua uniformazione planetaria: è, invece, quella che unifica mantenendo le specificità nazionali e culturali, facendo sì che i popoli siano fratelli e democratici, liberi e solidali. Per queste ragioni, oggi più che mai, con Lenin bisogna ripetere senza tema di smentita che “la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa è sbagliata”» (14). Almeno fino a quando essa non sarà lanciata contro gli Stati Uniti d’America: sbaglio? Che significa, poi, mantenere le «specificità nazionali e culturali»: di quali nazioni e di quale cultura si sta parlando? «Che i popoli siano fratelli e democratici, liberi e solidali»: qui poi siamo in piena retorica veterostalinista! Quando un Tizio dice di voler stare con la Russia di Putin (o con l’America di Obama, con la Germania della Merkel, con la Cina di Xi Jinping, con il Venezuela chavista, e così via), e magari difende le ragioni del noto macellaio di Damasco, e poi, come se niente fosse, mi parla di “socialismo”, di “libertà” e di “umanità”, beh io non posso fare a meno di tirare fuori la metaforica pistola: come diceva il compagno Totò, anche il mio limite ha una pazienza!
«Lenin», ci spiega ancora Fusaro, «sta dicendo che la lotta contro l’internazionalismo deve essere lotta all’interno dello Stato nazionale: non per santificare lo Stato nazionale, bensì per fare sì che da singoli Stati nazionali liberati dal capitale si passi gradualmente a un’universalizzazione del socialismo, mediante la lotta di questi Stati contro il regime del classismo planetario». Ecco, questo lo dice appunto Lenin, sempre al netto delle ambiguità fusariane intorno allo Stato nazionale. Ecco cosa invece dice Fusaro in quanto Fusaro: «È il culmine del dominio usurocratico del capitale, che con il debito impone la schiavitù e nuove radicali forme di classismo, delle quali la Grecia è un laboratorio a cielo aperto. È il sistema che distrugge il pur residuale [sic!] primato del politico sull’economico, primato garantito dalla forma Stato [borghese, aggiungo io per mera pignoleria]. Seguitando con Lenin [ci risiamo!], gli Stati Uniti d’Europa si sono realizzati, appunto, da Maastricht a Lisbona, “come accordo fra i capitalisti europei” con il tacito accordo di schiacciare non solo “il socialismo in Europa”, ma anche le residue forme di democrazia esistenti nel quadro del vecchio e certo perfettibile [all’infinito!] Stato sovrano nazionale» (borghese). Non è che citando Marx e Lenin nel contesto di una riflessione centrata sulla difesa dello Stato nazionale (borghese, lo Stato nazionale del XXI secolo, epoca del tardo imperialismo), questa riflessione diventa, chissà per quale strana magia, meno ultrareazionaria. Questo modo di fare può forse impressionare qualche intellettuale sinistrorso ossessionato dal «pensiero unico neoliberista» ma non certo chi si sforza – almeno ci tenta!  – di elaborare un’autentica posizione anticapitalistica, di praticare l’autonomia di classe come sa, tutte le volte che può, nei modi che la contingenza rende possibile.
A proposito, con «il socialismo in Europa» che sarebbe stato schiacciato dagli Stati Uniti d’Europa «da Maastricht a Lisbona» si allude forse al cosiddetto «Socialismo reale» di marca russa? Lo so, la domanda suona fortemente retorica, visto che Fusaro è fra i non pochi (compresi molti geopolitici occidentali) che rimpiangono il precedente assetto imperialistico del mondo chiamato Guerra Fredda (15).
«Quello che mi piace di Tsipras, diversamente da una certa sinistra nostrana, è la capacità d’intrecciare la lotta classica contro il capitale transnazionale finanziario per l’emancipazione a una lotta per la sovranità nazionale democratica» (16). Così parlava il nostro filosofo il 26 agosto scorso, cioè prima che il leader greco portasse a compimento il suo “tradimento” accettando (per pavidità? per opportunismo? per realpolitik?) gli ignobili diktat dei famigerati “poteri forti” transnazionali. In buona sostanza, per Fusaro Lenin e il Tsipras dell’ Oxi stanno, mutatis mutandis, sullo stesso terreno politico: quello della “vera sinistra”; i due personaggi condividerebbero, sempre mutatis mutandis,  la stessa prospettiva strategica: la rivoluzione sociale anticapitalistica in vista della comunità senza classi. Naturalmente nell’ambiente mediatico, culturale e politico che abitualmente frequenta il Nostro a nessuno verrà mai in mente di chiedergli: «Scusi, ma lei sostiene queste cose per scherzare, per farci ridere, per prenderci in giro oppure crede davvero in quel che dice?». Ci crede, ci crede, eccome se ci crede! Un’altra perla fusariana: «Sempre citando Lenin, in forma variata, oggigiorno solo lo Stato può essere rivoluzione, perché è il solo capace, potenzialmente, di imporre politiche di sviluppo e distributive senza dover chiedere il permesso alla Finanza internazionale». Più che «in forma variata», Fusaro cita Lenin in forma avariata. Infatti, lo Stato di cui egli parla è lo Stato attuale, lo Stato come Leviatano posto a difesa dei vigenti rapporti sociali; ciò che per lui rappresenta, almeno «oggigiorno», la «rivoluzione» è il Capitalismo di Stato (o «socialismo nazionale», socialnazionalismo, come si chiamava una volta). Mi stupisco? Mi indigno? Trasecolo? Mi arrabbio? Ma nemmeno un poco! È una vita che faccio i conti con stalinisti e statalisti d’ogni risma e colore.
Quando gli intellettuali “marxisti” cianciano di “rivoluzione”, di “lotta di classe”, di “comunità umana”, di “anticapitalismo” e quant’altro, per capire l’autentico significato del loro discorso bisogna fare la dovuta tara alle parole che usano, le quali normalmente celano una sostanza che chiamare escrementizia è ancora poco. Un ultimo esempio: «Credo nel primato della politica e dello Stato [borghese!] sull’economia. Un ritorno a una valuta nazionale sia in Grecia come in Italia sarebbe un modo per riaffermare il potere sovrano dello Stato» [borghese]. Solo dei raffinati dialettici possono afferrare la sostanza “internazionalista” e “umanista” in un discorso che prima facie appare grettamente e odiosamente nazionalista.
«Il sacro dogma degli Stati Uniti d’Europa», lamenta Fusaro, «da qualche tempo è diventato la nuova bandiera delle sinistre, un cliché indiscutibile, sottratto a ogni agire comunicativo habermasiano e a ogni dialogo socratico: di più, chi osi anche solo metterlo in discussione sarà puntualmente silenziato e diffamato con le categorie di reazionario e nazionalista» (17). Personalmente credo che si possa dare tranquillamente, e con un certo fondamento “scientifico”, del reazionario nazionalista al filosofo ingabbiato anche senza conoscere né l’«agire comunicativo habermasiano», qualunque significato si voglia attribuire a questa sofisticata  locuzione, né il dialogo socratico. Lo dico sapendo peraltro che con me il simpatico “ultimo marxiano” non corre il rischio né di essere silenziato né di essere diffamato: purtroppo non sono un assiduo frequentatore di talk show televisivi. Mannaggia!

(1) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.
(2) Lenin, Opere, XXI, p. 311, Editori Riuniti, 1966.
(3) Lenin, Opere, XXI, p. 315.
(4) Nell’ottobre del ’21, presentando al Partito La Nuova Politica Economica, Lenin ammise con la consueta franchezza la grande illusione nella quale i bolscevichi vissero durante tutto il periodo precedente: «In parte sotto l’influenza dei problemi militari e della situazione apparentemente disperata nella quale si trovava la repubblica noi commettemmo l’errore di voler passare direttamente alla produzione e alla distribuzione su basi comuniste. […] Non posso affermare che noi allora ci raffigurassimo questo piano con così grande precisione ed evidenza; comunque, agimmo press’a poco in questo senso. Disgraziatamente è così» (Lenin, La Nuova Politica Economica e i compiti dei centri di educazione politica, Opere, XXXIII, p. 48, opere, 1967). Scriveva  sempre Lenin in un opuscolo del 1918 (Sull’economia russa contemporanea ): «Nessun comunista, credo, ha più contestato che l’espressione “Repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei Soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici» (i passi saranno ripresi dallo stesso autore nell’importante discorso Sull’imposta in natura, 1921,  p. 310, Opere, XXXII, 1967).
Come ricorderà Lukács nel 1967, nella Postilla all’edizione italiana del suo saggio su Lenin del 1924, «Già prima dell’ottobre 1917 Lenin previde giustamente che nella Russia economicamente arretrata era indispensabile una forma di transizione del tipo della futura NEP. Tuttavia la guerra civile e gli interventi imposero ai soviet di ricorrere al cosiddetto “comunismo di guerra”. Lenin si piegò alla necessità dei fatti, senza però rinunciare alla sua convinzione teorica. Egli attuò al meglio tutto il “comunismo di guerra” che la situazione imponeva, ma, a differenza della maggior parte dei suoi contemporanei, senza riconoscere neppure per un istante nel comunismo di guerra la vera forma di transizione al socialismo; era fermamente deciso a tornare alla linea teoricamente giusta della NEP, appena la guerra civile e gli interventi [militari] fossero finiti. In entrambi i casi non si comportò né da empirista né da dogmatico, ma da teorico della prassi, da realizzatore della teoria» (G. Lukács, Lenin, Unità e coerenza del suo pensiero, p. 124, Einaudi, 1967).
(5) Nel caso di specie, la più grande incognita fu rappresentata dai contadini. «Non per niente i radicali russi chiamavano il contadino la sfinge della storia russa» (L. Trotskij, La rivoluzione permanente, 1929, p. 77, Einaudi, 1975 ). Sul ruolo ambivalente (contraddittorio) giocato nella Rivoluzione d’Ottobre dai contadini rinvio al mio studio Lo scoglio e il mare.
(6) «È utile ricordare qui la distinzione trotskiana tra Stato operaio e società socialista. Lo Stato operaio sorge non appena il potere politico è stato strappato alle vecchie classi dominanti, emerge dalla stessa vittoria della rivoluzione. la società socialista è lo stadio conclusivo di un processo, ed è appunto questo stadio che non può essere raggiunto se non infrangendo il quadro angusto degli Stati nazionali. E dalla proposizione teorica derivano implicazioni politiche concrete. Dall’affermazione della possibilità della costruzione del socialismo in un paese solo e, più tardi, dalla presunzione che l’obiettivo fosse stato raggiunto, discendeva che compito essenziale di tutto il movimento operaio e dell’Internazionale era la difesa dello Stato sovietico. Dalla tesi trotskiana discendeva, invece, che compito primario era lo sviluppo della rivoluzione su scala mondiale e che a questo fine la difesa degli interessi dello Stato sovietico doveva essere subordinata. A Trotskij l’utopia risibile di una rivoluzione contemporanea su scala mondiale o continentale non gli può essere in alcun modo attribuita» (L. Maitan, Introduzione a La rivoluzione permanente di Trotskij, pp. XIX-XX). In compenso, si può accusarlo di intelligenza con il Capitalismo mondiale, con l’imperialismo, con il fascismo, con il nazismo (salvo Patto Ribbentrop-Molotov, si capisce), e magari poi spettinargli i capelli con un bel colpo di piccozza, giusto per estirpare definitivamente dalla sua testa traditrice la mala pianta del… trotskismo.
(7) Lenin, Sulla parola d’ordine…, p. 314.
(8) Lenin, Imperialismo e socialismo in Italia, 1915, Opere, XXI, p. 327.
(9) Ibidem, p. 331.
(10) Del genere: «Il concetto di comunità umana deve esprimersi non attraverso l’internazionalismo [e questo è chiarissimo!], ma attraverso comunità locali specifiche» (e questo è meno chiaro, diciamo). Più che marxismo, più o meno (a)variato, qui parlerei di supercazzolismo comunitarista.
(11) K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875, pp. 45-56, Savelli, 1975.
(12) Scriveva E. Franceschini qualche giorno fa su Repubblica: «Nelle librerie d’Inghilterra c’è una nicchia che all’improvviso vende benissimo: quella specializzate in opere di Marx, saggi sull’anarchia, testi sulla storia del movimento operaio. Il Times lo descrive come un’esplosione di interesse per i libri di sinistra, collegando il fenomeno alla “Corbynmania”: il fervore per un progressismo più radicale e per i suoi valori tradizionali, alimentato dalla recente elezione di Jeremy Corbyn, per trent’anni inascoltata primula rossa del suo partito, a nuovo leader del Labour, a cui ha imposto una sterzata rispetto al riformismo di Tony Blair e anche alla linea dei suoi successori Gordon Brown e Ed Miliband. […] Nuovi clienti, in particolare giovani, richiedono autori che erano stati a lungo messi da parte; e le presentazioni di libri su questi argomenti registrano di colpo il tutto esaurito. […] Un simile revival potrebbe rendere orgoglioso Karl Marx [come no!], che a Londra morì e vi è sepolto. Ma proprio attorno alla sua tomba è scoppiata in questi giorni una polemica, riportava ieri l’edizione europea del Wall Street Journal. Il piccolo cimitero di Highgate dove giace il padre del comunismo è privato, non pubblico; e i gestori fanno pagare 4 sterline (circa 5 euro e mezzo) d’ingresso ai visitatori che vanno a scattare foto o deporre fiori sulla lapide con la scritta “proletari di tutto il mondo unitevi”. I responsabili sostengono che quei soldi servono a coprire le spese per tenere in ordine il cimitero, ma qualche associazione di sinistra contesta la procedura come un modo indebito di fare soldi sul marxismo [presto, datemi un martello!]. Sarebbe piaciuto al nemico del capitalismo, ironizza il quotidiano di Wall Street, un simile commercio sul suo sepolcro?». Ma la domanda che, anche qui, deve porsi chiunque abbia un minimo di sale in zucca è un’altra, questa: che cavolo ci azzecca l’ultrareazionario (e ultra scialbo) Corbyn con il comunista di Treviri? Che senso ha leggere Marx, o un altro rivoluzionario (anche borghese: un Robespierre, ad esempio), alla luce della “teoria” e della prassi di un Corbyn? Può avere un solo significato, quello di addomesticare lo Spettro, di ridurlo in guisa di vecchio leone da zoo: spelacchiato, sdentato, fiaccato dalla noia, incapace di ruggire mentre in compenso sbadiglia per tutto il giorno. Meglio, molto meglio, l’oblio!  Associare in qualche modo Marx al nuovo leader laburista inglese la dice lunga sul cattivo mondo in cui viviamo; un mondo totalmente incapace non solo di “fare” la rivoluzione sociale ma anche semplicemente di pensarla. E così all’ubriacone tedesco possiamo fargli recitare come se nulla fosse la parte del nonno degli ultrareazionari chiamati progressisti (o “socialisti”, o financo “marxisti”). Si, datemi un martello! «Che cosa ne vuoi fare?». Beh, per iniziare potrei distruggere il Santo Sepolcro di Londra, e poi magari fare una capatina a Mosca… Iconoclasta, sono!
(13) D. Fusaro, da La Gabbia, 16 settembre 2015.
(14) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.
(15) «La Russia in Siria ci riporta alla Guerra Fredda, per fortuna. Dalla dissoluzione dell’Urss, l’Onu e la cosiddetta comunità internazionale hanno sostenuto interventi “umanitari” contro i governi legittimi, con risultati disastrosi. La mossa di Putin può anticipare un sano ritorno al multilateralismo e alla tutela dello Stato sovrano» (C. Moffa, Limes, 26 ottobre 2015). Sì, compagni e amici, visto che oggi non possiamo fare la rivoluzione sociale mondiale simultanea, non ci rimane che lottare affinché il mondo abbia non un solo poliziotto, ma molti poliziotti; non un solo padrone, ma molti padroni. È la politica del “male minore” in vista di “equilibri sociali più avanzati”.
(16) Intervista di A. De Alberi a D. Fusaro, Lettera 43, 26 agosto 2015.
(17) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.

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