Contrapporre
Lenin, anche solo in guisa di mostruosa mummia crudelmente esposta nel
noto mausoleo moscovita, alle «sinistre» in generale e alla Presidente
della Camera Laura Boldrini in particolare è una bizzarra idea che
poteva maturare solo nella dialettica testa di un autentico “marxista”,
ancorché sedicente “ultimo”. Alludo forse al filosofo più telegenico
d’Italia, nonché appunto «ultimo marxiano», come da rubrica, Diego
Fusaro? Ovviamente! Leggiamo dunque una perla storico-dialettica di rara
bellezza uscita dal suo fecondo cervello: «Nel tempo del sovrano
disinteresse per la condizione del lavoro e per i diritti sociali, la
sinistra pare essersi reinventata come sinistra arcobaleno dei diritti
civili [rispetto a questa cianfrusaglia piccolo-borghese il Virile
Vladimir Putin è cosa assai più seria!] e dell’Europa senza se e senza
ma. Ma siamo davvero sicuri che l’idea degli Stati Uniti d’Europa sia
emancipativa, progressiva e di sinistra? Proviamo a chiederlo a un
autore che certo di destra non era e che sarebbe pure difficile
liquidare come nazionalista o in odore di fascismo [excusatio non petita, accusatio manifesta?].
Alludo a Lenin, l’eroe della Rivoluzione bolscevica e del comunismo
storico novecentesco» (1). Segue citazione leniniana tratta da un
celebre (presso i cultori della materia, si capisce) scritto dell’agosto
1915: Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa (2).
Ora, accostare l’uomo di Simbirsk alle «sinistre» (da Varoufakis a Laura
Boldrini, da Lafontaine a Fassina, da Corbyn a… Fusaro), anche solo in
forma strumentale, ossia per criticarne gli esponenti più illustri, ha
un solo atomo di senso? A mio avviso ciò può avere un solo senso: quello
di metterci nelle condizioni di comprendere l’idea di “sinistra” che
hanno in testa Fusaro e gli intellettuali “marxisti” di analogo
(pessimo!) conio politico-ideologico. Ma nel momento in cui perfino un
Alfredo Reichlin può impunemente scrivere sul giornale fondato da Matteo
Renzi (L’Unità) i passi che seguono: «Ebbene sì, Enrico
Berlinguer era comunista. Ma c’è di peggio. C’è gente come me che non
solo era comunista, lo è ancora»; se le cose stanno così, nessuno,
nemmeno Vladimir Il’ic in persona, può impedire al personaggio non di
rado preso di mira su questo modesto blog le corbellerie
storico-politiche che ama propinare sul mercato delle ideologie. Ma sì,
arruoliamo pure l’internazionalista Lenin nella campagna antieuropeista a difesa dello Stato nazionale (borghese)!
Ma cosa scriveva nel pieno della Grande Guerra il capo bolscevico a
proposito dell’ultrareazionaria parola d’ordine degli Stati Uniti
d’Europa? Leggiamo qualche passo tratto dall’articolo citato sopra: «Gli
Stati uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o
reazionari. Il capitale è divenuto internazionale e monopolistico. […]
In regime capitalistico non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo
economico né delle singole aziende, né dei singoli Stati. In regime
capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in
tanto l’equilibrio spezzato, all’infuori della crisi economica
nell’industria, e della guerra nella politica. Certo, fra i capitalisti e
fra le potenze sono possibili accordi temporanei. In tal senso sono
anche possibili gli Stati uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti
europei… Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme
il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie
usurpate, contro il Giappone e l’America che sono molto lesi
dall’attuale spartizione delle colonie e che nell’ultimo cinquantennio
si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell’Europa
arretrata, monarchica, la quale incomincia a putrefarsi per senilità. In
confronto agli Stati Uniti d’America, l’Europa, nel suo insieme,
rappresenta la stasi economica. […] Gli Stati uniti del mondo (e non
d’Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle
nazioni, che per noi è legata al socialismo, fino a che la completa
vittoria del comunismo non porterà alla spartizione definitiva di
qualsiasi Stato, compresi quelli democratici» (313-314). Per Lenin,
dunque, il progetto “europeista” si collocava interamente nella
dimensione degli interessi del Capitalismo europeo giunto nella sua fase
imperialista: conservare le colonie, difendere lo status quo
politico-istituzionale del Vecchio Continente, schiacciare il
proletariato rivoluzionario, rafforzarsi nei confronti degli
imperialismi concorrenti: Stati Uniti d’America e Giappone, in primis.
Osservo en passant che in una nota scritta alla fine
dell’agosto 1915 Lenin puntualizza nuovamente come «la parola d’ordine
reazionaria» degli Stati Uniti d’Europa significasse «un’alleanza
temporanea delle grandi potenze d’Europa per una più efficace
oppressione delle colonie e per la rapina del Giappone e dell’America,
che si sviluppano più rapidamente» (3). Ora, volendo ragionare al modo
di tante mosche cocchiere “antimperialiste” che ancora oggi si basano
sul famigerato principio maoista del Nemico Principale, dovremmo
concludere che allora Lenin sostenesse politicamente, in chiave tattica,
l’imperialismo nippo-americano («Nemico secondario») contro l’Europa
(«Nemico principale»). Cosa che naturalmente farebbe scompisciare dal
ridere anche la mummia di Lenin.
Ovviamente il rivoluzionario russo non era così teoricamente sciocco e
politicamente così sprovveduto da pensare che la rivoluzione sociale
proletaria potesse avere immediatamente una dimensione mondiale; proprio
a causa dell’ineguale sviluppo capitalistico, «una legge assoluta del
capitalismo» che detta i tempi – e impone il ritmo – al processo sociale
considerato nella sua dimensione planetaria rende impossibile «il
trionfo del socialismo» in tutti i Paesi, o quantomeno nei più
importanti Paesi del mondo, “in simultanea”, e nemmeno nel corso di un
breve arco di tempo. Certo, se poi la cosa dovesse realizzarsi nessun
comunista griderebbe allo scandalo, questo è sicuro! Ma è sempre meglio
attrezzarsi per il peggio, come testimonia peraltro la stessa esperienza
rivoluzionaria europea di inizio Novecento culminata nell’Ottobre Rosso
– poi, con lo stalinismo, diventato Russo, anzi: Grande-Russo.
Qualche mese fa un lettere di un mio post sulla Cuba castrista mi
domandava (fra l’altro): «Dunque per te la rivoluzione o è mondiale o
non è?». Ecco la mia risposta:
Anche per me la rivoluzione sociale anticapitalistica non può
prescindere dall’ambito nazionale, necessariamente, perché la dimensione
nazionale è un dato di fatto. La simultaneità della presa del potere su
scala planetaria è un’ipotesi affascinante e bellissima, ma credo
abbastanza utopistica. Penso anche che se la dimensione nazionale di una
rivoluzione riuscita non viene superata quanto prima (e solo la prassi
può stabilire la misura di questo tempo) la «costruzione del socialismo
in un solo Paese» sia non un’utopia, ma un’idea ultrareazionaria buona
solo a mistificare la realtà della sconfitta. Ogni riferimento alla
controrivoluzione stalinista è del tutto voluto. La natura proletaria e
socialista del Grande Azzardo leniniano non consistette, a mio avviso,
nelle misure economico-sociali prese dai bolscevichi dopo l’Ottobre,
quasi tutte rubricabili come provvedimenti da economia di guerra (questo
fu in pratica il “Comunismo di guerra” sul terreno
economico-organizzativo, come confesserà lo stesso Lenin nel 1921, in
sede di bilancio critico) (4), ma nella dimensione
internazionale di quella rivoluzione, nel porsi essa come avanguardia di
un processo sociale rivoluzionario di respiro mondiale, o quantomeno
europeo. La Russia come anello debole della catena imperialistica; la
Rivoluzione Russa come scintilla che incendia il mondo: su queste basi
Lenin architettò nel corso di molti anni e implementò con geniale
tempestività il Grande Azzardo. Com’è noto, il mondo non prese fuoco. Ma
ciò, sempre a mio avviso, non depone contro la Grande Scommessa;
dimostra piuttosto che la rivoluzione sociale è un’equazione con
moltissime incognite (5).
Lo scritto di Lenin sugli stati Uniti d’Europa è stato spesse volte
chiamato in causa dagli stalinisti, e dallo stesso Stalin nel dicembre
del 1924, se ricordo bene, per dimostrare – contro Trotskij (6) – come
la tesi del Socialismo in un solo Paese fosse stata elaborata, o
quantomeno evocata, per la prima volta da Lenin, il quale scriveva: «È
possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in
un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato
vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel
proprio paese la produzione socialista, si porrebbe contro il resto del
mondo capitalistico, attirando a sé le classi oppresse degli altri
paesi, infiammandole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in
caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi
sfruttatrici e i loro Stati» (7). Ora, qualsiasi cosa avesse in testa
Lenin nel 1915 a proposito dell’organizzazione della produzione
socialista in un solo Paese (e certamente allora egli non stava pensando
alla capitalisticamente arretrata Russia, ma semmai alla Germania e
all’Inghilterra), rimane il fatto che alla fine della Guerra Civile il
comunista russo sosterrà la vitale necessità di una dolorosa «ritirata
strategica», da sostanziarsi soprattutto in una Nuova Politica Economica
che mettesse il proletariato russo nelle condizioni materiali, oserei
dire fisiologiche, di resistere al potere in alleanza con i contadini poveri, in attesa di un nuovo ciclo rivoluzionario in Europa e nel mondo. La Rivoluzione d’Ottobre può essere valutata correttamente solo da un punto di vista internazionale.
La scommessa, al limite dell’impossibile, non andò a buon fine, e al
posto della rivoluzione mondiale chiamata a soccorrere l’affamata,
isolata e accerchiata Russia dei Soviet sarebbe arrivata la marea
controrivoluzionaria che porta il nome di Stalin. Ma questa è un’altra
storia – il cui maligno retaggio però continua a intossicare non poche
teste.
Il materialista storico-dialettico Fusaro mette nella testa di
Vladimir (si parla di Il’ic Ul’janov, non di Putin!) il concetto di
nazione che lui ha nella sua testolina di
intellettuale borghese, e così fa del comunista russo un sostenitore,
uno sponsor di «un impiego emancipativo del concetto di nazione, non
regressivo e reazionario». In primo luogo, se Lenin non avesse concepito
(già un secolo fa!) la nazione, almeno la nazione come si configurava
storicamente e socialmente nei Paesi capitalisticamente avanzati del suo
tempo (ma anche nella Russia zarista, per la sua funzione storica di
avamposto controrivoluzionario), nei termini di un concetto regressivo e
reazionario, un concetto contrario alla lotta di emancipazione delle
classi subalterne e dell’intera umanità, egli non avrebbe certo definito
come imperialista, da ogni lato del fronte, la natura della
Grande Guerra. Lenin oppose alla reazionaria parola d’ordine degli Stati
Uniti d’Europa l’internazionalismo proletario, non un
«concetto di nazione non regressivo e reazionario». Scriveva sempre
Lenin: «L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della
rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del
tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente davanti ai nostri occhi
nell’Italia che opprime altri popoli, che depreda la Turchia e
l’Austria, nell’Italia di una borghesia brutale, sudicia, reazionaria»
(8). Ecco come ragiona un autentico materialista storico: sul piano del
progresso storico l’Imperialismo, in Italia e negli altri Paesi
capitalisticamente sviluppati d’Europa e del mondo, attesta definitivamente,
una volta per tutte, l’esaurimento della spinta propulsiva dell’epoca
borghese, e ciò implica necessariamente che niente di storicamente
progressivo (non diciamo di rivoluzionario) può più dare la borghesia
nazionale nell’epoca del dominio totalitario (o globale) del Capitale
sugli uomini e sulla natura. Altro che Nazione proletaria! Altro che
Secondo Risorgimento! Altro che Nazionalismo di classe! Altro che
Socialismo nazionale! Altro che… Benito Mussolini! Analogo discorso si
può fare per la Seconda guerra mondiale.
In risposta al libro di T. Barboni Internazionalismo o nazionalismo di classe?
(1915), Lenin scrisse che i veri socialisti «devono servirsi di ogni
lotta allo scopo di smascherare e abbattere ogni governo, e in prima
linea il proprio governo per mezzo dell’azione rivoluzionaria
del proletariato internazionalmente solidale. Non c’è via di mezzo; in
altre parole: il tentativo di prendere una posizione intermedia
significa in realtà un passaggio camuffato dalla parte della borghesia
imperialista» (9). Com’è noto, la mosca cocchiera (o «transfuga del
partito operaio» secondo il Lenin del 1915) che si affermerà in guisa di
Duce degli italiani all’inizio degli anni venti, alla fine del 1914
bollò la posizione internazionalista qui sintetizzata da Lenin (e
sostenuta dall’estrema sinistra del PSI) come il frutto di un socialismo
parolaio che non sapeva fare i conti con la storia, e che quindi era
condannato al più impotente dei settarismi. Contro la «barbarie
teutonica» l’ex massimalista di Predappio difendeva «un impiego
emancipativo del concetto di nazione, non regressivo e reazionario».
In secondo luogo, la dimensione nazionale a cui alludeva Lenin nello
scritto sull’Europa era quella segnata dalla rivoluzione proletaria
vittoriosa, non la dimensione caratterizzata dal dominio capitalistico.
Quando parla di nazione e di Stato nazionale Fusaro rimane sempre nel
vago, usa formule ambigue (10) prese a prestito quasi sempre da Gramsci:
non si capisce se sta parlando dello Stato nazione borghese, o dello
Stato di nuovo conio che sorge in quanto «dittatura rivoluzionaria del
proletariato», secondo la nota formulazione marxiana. Scrive Fusaro:
«Come dirà Gramsci, nei Quaderni del carcere, la prospettiva deve certo
essere internazionalista (l’emancipazione dell’umanità), ma il punto di
partenza dev’essere nazionale». Su questo punto io cito
l’internazionalista di Treviri: «Lassalle aveva considerato il movimento
operaio dal più angusto punto di vista nazionale, in contrasto con il Manifesto comunista
e con tutto il socialismo precedente. Lo si segue in questo e proprio
dopo l’attività dell’Internazionale! Si comprende da sé che per poter,
in genere, combattere, la classe operaia deve necessariamente
organizzarsi nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che
l’interno di ogni paese è il teatro immediato della sua lotta. Per
questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista,
non per il contenuto, ma per la sua “forma”. Ma l’ambito dell’odierno
Stato nazionale, per esempio del Reich tedesco, si trova a sua volta,
economicamente, nell’ambito del mercato mondiale, e politicamente
“nell’ambito del sistema degli Stati”. […] L’intero programma , malgrado
tutte le chiacchiere democratiche, è appestato completamente dalla fede
del suddito, proprio della setta di Lassalle, verso lo Stato o, cosa
non certo migliore, dalla fede democratica nei miracoli, oppure è
piuttosto un compromesso tra queste due specie di fede nei miracoli,
ugualmente lontane dal socialismo» (11). Avete capito adesso chi è il
vero teorico dei socialsovranisti, da Stalin in poi? State forse
pensando allo statalista Lassalle? Allora pensate bene! Il fatto che la
stragrande maggioranza delle persone, di “destra” come di “sinistra”,
associa il “socialismo” con il Capitalismo di Stato ci dà la misura del
successo politico di Lassalle, camuffato con la barba del mangia crauti
tedesco (12).
«Io non sto con i buoni. Io sto con i cattivi. Io non sto con gli
Stati Uniti di Obama ma con la Russia di Putin, e anche l’Europa
dovrebbe stare con il “cattivo” Putin. Il mondo ha bisogno di una Russia
geopoliticamente forte e militarmente autonoma. L’Europa dovrebbe
guardare alla Russia per contenere l’imperialismo americano, per
appoggiare i Paesi che vi si oppongono, per frenare il dilagare
dell’economia capitalistica di stampo americano. Ma l’Europa oggi non
esiste nemmeno geograficamente; esiste solo l’euro» (13).
Geopoliticamente parlando l’Europa non esiste: che peccato! Ma un
momento: questo significa che degli Stati Uniti d’Europa cattivi,
geopoliticamente forti e militarmente autonomi, ossia di stampo
rigorosamente antiamericano, andrebbero bene a Fusaro? Giuro, non l’ho
ancora capito! Per una mia congenita indigenza dialettica,
probabilmente.
In effetti, l’intellettuale che dalla gabbia televisiva recita il
ruolo del “rivoluzionario” duro e puro per una platea assetata di sangue
“castale” e neoliberista sembra avere occhi solo per un imperialismo
(quello statunitense/Occidentale), solo per un’economia sfruttatrice
(quella di stampo anglosassone), solo per una cultura omologata e
omologante (quella statunitense/Occidentale). Evidentemente egli ritiene
più “umani” e “progressivi” l’imperialismo, il capitalismo e la cultura
dei Paesi concorrenti degli Stati Uniti. Insomma, qui ci troviamo
dinanzi al solito antiamericanismo camuffato da antimperialismo che sa
fare politica e geopolitica, che è in grado di fare i conti con la
realtà qual è, e non come taluni dottrinari vorrebbero che fosse.
Peccato che sia una capacità politica messa interamente al servizio
dell’imperialismo che contende agli Stati Uniti il dominio, o quantomeno
l’egemonia sull’intero pianeta. L’operazione politica di non pochi
putinisti di “sinistra” (perché ci sono anche quelli di “destra”) è
oltremodo chiara: mettere l’internazionalista Lenin al servizio
dell’imperialismo russo, assetato di rivincita dopo i disastri
dell’Unione Sovietica. Cucinare Lenin in salsa putiniana: la ciofeca è
servita!
«La vera prospettiva internazionale è quella che non annulla le
specificità universali sotto il segno del capitale e della sua
uniformazione planetaria: è, invece, quella che unifica mantenendo le
specificità nazionali e culturali, facendo sì che i popoli siano
fratelli e democratici, liberi e solidali. Per queste ragioni, oggi più
che mai, con Lenin bisogna ripetere senza tema di smentita che “la
parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa è sbagliata”» (14). Almeno
fino a quando essa non sarà lanciata contro gli Stati Uniti
d’America: sbaglio? Che significa, poi, mantenere le «specificità
nazionali e culturali»: di quali nazioni e di quale cultura si sta
parlando? «Che i popoli siano fratelli e democratici, liberi e
solidali»: qui poi siamo in piena retorica veterostalinista! Quando un
Tizio dice di voler stare con la Russia di Putin (o con l’America di
Obama, con la Germania della Merkel, con la Cina di Xi Jinping, con il
Venezuela chavista, e così via), e magari difende le ragioni del noto
macellaio di Damasco, e poi, come se niente fosse, mi parla di
“socialismo”, di “libertà” e di “umanità”, beh io non posso fare a meno
di tirare fuori la metaforica pistola: come diceva il compagno Totò,
anche il mio limite ha una pazienza!
«Lenin», ci spiega ancora Fusaro, «sta dicendo che la lotta contro
l’internazionalismo deve essere lotta all’interno dello Stato nazionale:
non per santificare lo Stato nazionale, bensì per fare sì che da
singoli Stati nazionali liberati dal capitale si passi gradualmente a
un’universalizzazione del socialismo, mediante la lotta di questi Stati
contro il regime del classismo planetario». Ecco, questo lo dice appunto
Lenin, sempre al netto delle ambiguità fusariane intorno allo Stato
nazionale. Ecco cosa invece dice Fusaro in quanto Fusaro: «È il culmine
del dominio usurocratico del capitale, che con il debito impone la
schiavitù e nuove radicali forme di classismo, delle quali la Grecia è
un laboratorio a cielo aperto. È il sistema che distrugge il pur
residuale [sic!] primato del politico sull’economico, primato garantito
dalla forma Stato [borghese, aggiungo io per mera pignoleria].
Seguitando con Lenin [ci risiamo!], gli Stati Uniti d’Europa si sono
realizzati, appunto, da Maastricht a Lisbona, “come accordo fra i
capitalisti europei” con il tacito accordo di schiacciare non solo “il
socialismo in Europa”, ma anche le residue forme di democrazia esistenti
nel quadro del vecchio e certo perfettibile [all’infinito!] Stato
sovrano nazionale» (borghese). Non è che citando Marx e Lenin nel
contesto di una riflessione centrata sulla difesa dello Stato nazionale
(borghese, lo Stato nazionale del XXI secolo, epoca del tardo
imperialismo), questa riflessione diventa, chissà per quale strana
magia, meno ultrareazionaria. Questo modo di fare può forse
impressionare qualche intellettuale sinistrorso ossessionato dal
«pensiero unico neoliberista» ma non certo chi si sforza – almeno ci
tenta! – di elaborare un’autentica posizione anticapitalistica, di
praticare l’autonomia di classe come sa, tutte le volte che può, nei modi che la contingenza rende possibile.
A proposito, con «il socialismo in Europa» che sarebbe stato
schiacciato dagli Stati Uniti d’Europa «da Maastricht a Lisbona» si
allude forse al cosiddetto «Socialismo reale» di marca russa? Lo so, la
domanda suona fortemente retorica, visto che Fusaro è fra i non pochi
(compresi molti geopolitici occidentali) che rimpiangono il precedente
assetto imperialistico del mondo chiamato Guerra Fredda (15).
«Quello che mi piace di Tsipras, diversamente da una certa sinistra
nostrana, è la capacità d’intrecciare la lotta classica contro il
capitale transnazionale finanziario per l’emancipazione a una lotta per
la sovranità nazionale democratica» (16). Così parlava il nostro
filosofo il 26 agosto scorso, cioè prima che il leader greco portasse a
compimento il suo “tradimento” accettando (per pavidità? per
opportunismo? per realpolitik?) gli ignobili diktat dei famigerati
“poteri forti” transnazionali. In buona sostanza, per Fusaro Lenin e il
Tsipras dell’ Oxi stanno, mutatis mutandis, sullo stesso terreno politico: quello della “vera sinistra”; i due personaggi condividerebbero, sempre mutatis mutandis,
la stessa prospettiva strategica: la rivoluzione sociale
anticapitalistica in vista della comunità senza classi. Naturalmente
nell’ambiente mediatico, culturale e politico che abitualmente frequenta
il Nostro a nessuno verrà mai in mente di chiedergli: «Scusi, ma lei
sostiene queste cose per scherzare, per farci ridere, per prenderci in
giro oppure crede davvero in quel che dice?». Ci crede, ci crede, eccome
se ci crede! Un’altra perla fusariana: «Sempre citando Lenin, in forma
variata, oggigiorno solo lo Stato può essere rivoluzione, perché è il
solo capace, potenzialmente, di imporre politiche di sviluppo e
distributive senza dover chiedere il permesso alla Finanza
internazionale». Più che «in forma variata», Fusaro cita Lenin in forma avariata. Infatti, lo Stato di cui egli parla è lo Stato attuale,
lo Stato come Leviatano posto a difesa dei vigenti rapporti sociali;
ciò che per lui rappresenta, almeno «oggigiorno», la «rivoluzione» è il
Capitalismo di Stato (o «socialismo nazionale», socialnazionalismo,
come si chiamava una volta). Mi stupisco? Mi indigno? Trasecolo? Mi
arrabbio? Ma nemmeno un poco! È una vita che faccio i conti con
stalinisti e statalisti d’ogni risma e colore.
Quando gli intellettuali “marxisti” cianciano di “rivoluzione”, di
“lotta di classe”, di “comunità umana”, di “anticapitalismo” e
quant’altro, per capire l’autentico significato del loro discorso
bisogna fare la dovuta tara alle parole che usano, le quali normalmente
celano una sostanza che chiamare escrementizia è ancora poco.
Un ultimo esempio: «Credo nel primato della politica e dello Stato
[borghese!] sull’economia. Un ritorno a una valuta nazionale sia in
Grecia come in Italia sarebbe un modo per riaffermare il potere sovrano
dello Stato» [borghese]. Solo dei raffinati dialettici possono afferrare
la sostanza “internazionalista” e “umanista” in un discorso che prima facie appare grettamente e odiosamente nazionalista.
«Il sacro dogma degli Stati Uniti d’Europa», lamenta Fusaro, «da
qualche tempo è diventato la nuova bandiera delle sinistre, un cliché
indiscutibile, sottratto a ogni agire comunicativo habermasiano e a ogni
dialogo socratico: di più, chi osi anche solo metterlo in discussione
sarà puntualmente silenziato e diffamato con le categorie di reazionario
e nazionalista» (17). Personalmente credo che si possa dare
tranquillamente, e con un certo fondamento “scientifico”, del reazionario nazionalista
al filosofo ingabbiato anche senza conoscere né l’«agire comunicativo
habermasiano», qualunque significato si voglia attribuire a questa
sofisticata locuzione, né il dialogo socratico. Lo dico sapendo
peraltro che con me il simpatico “ultimo marxiano” non corre il rischio
né di essere silenziato né di essere diffamato: purtroppo non sono un
assiduo frequentatore di talk show televisivi. Mannaggia!
(1) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.
(2) Lenin, Opere, XXI, p. 311, Editori Riuniti, 1966.
(3) Lenin, Opere, XXI, p. 315.
(4) Nell’ottobre del ’21, presentando al Partito La Nuova Politica Economica, Lenin ammise con la consueta franchezza la grande illusione nella quale i bolscevichi vissero durante tutto il periodo precedente: «In parte sotto l’influenza dei problemi militari e della situazione apparentemente disperata nella quale si trovava la repubblica noi commettemmo l’errore di voler passare direttamente alla produzione e alla distribuzione su basi comuniste. […] Non posso affermare che noi allora ci raffigurassimo questo piano con così grande precisione ed evidenza; comunque, agimmo press’a poco in questo senso. Disgraziatamente è così» (Lenin, La Nuova Politica Economica e i compiti dei centri di educazione politica, Opere, XXXIII, p. 48, opere, 1967). Scriveva sempre Lenin in un opuscolo del 1918 (Sull’economia russa contemporanea ): «Nessun comunista, credo, ha più contestato che l’espressione “Repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei Soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici» (i passi saranno ripresi dallo stesso autore nell’importante discorso Sull’imposta in natura, 1921, p. 310, Opere, XXXII, 1967).
Come ricorderà Lukács nel 1967, nella Postilla all’edizione italiana del suo saggio su Lenin del 1924, «Già prima dell’ottobre 1917 Lenin previde giustamente che nella Russia economicamente arretrata era indispensabile una forma di transizione del tipo della futura NEP. Tuttavia la guerra civile e gli interventi imposero ai soviet di ricorrere al cosiddetto “comunismo di guerra”. Lenin si piegò alla necessità dei fatti, senza però rinunciare alla sua convinzione teorica. Egli attuò al meglio tutto il “comunismo di guerra” che la situazione imponeva, ma, a differenza della maggior parte dei suoi contemporanei, senza riconoscere neppure per un istante nel comunismo di guerra la vera forma di transizione al socialismo; era fermamente deciso a tornare alla linea teoricamente giusta della NEP, appena la guerra civile e gli interventi [militari] fossero finiti. In entrambi i casi non si comportò né da empirista né da dogmatico, ma da teorico della prassi, da realizzatore della teoria» (G. Lukács, Lenin, Unità e coerenza del suo pensiero, p. 124, Einaudi, 1967).
(5) Nel caso di specie, la più grande incognita fu rappresentata dai contadini. «Non per niente i radicali russi chiamavano il contadino la sfinge della storia russa» (L. Trotskij, La rivoluzione permanente, 1929, p. 77, Einaudi, 1975 ). Sul ruolo ambivalente (contraddittorio) giocato nella Rivoluzione d’Ottobre dai contadini rinvio al mio studio Lo scoglio e il mare.
(6) «È utile ricordare qui la distinzione trotskiana tra Stato operaio e società socialista. Lo Stato operaio sorge non appena il potere politico è stato strappato alle vecchie classi dominanti, emerge dalla stessa vittoria della rivoluzione. la società socialista è lo stadio conclusivo di un processo, ed è appunto questo stadio che non può essere raggiunto se non infrangendo il quadro angusto degli Stati nazionali. E dalla proposizione teorica derivano implicazioni politiche concrete. Dall’affermazione della possibilità della costruzione del socialismo in un paese solo e, più tardi, dalla presunzione che l’obiettivo fosse stato raggiunto, discendeva che compito essenziale di tutto il movimento operaio e dell’Internazionale era la difesa dello Stato sovietico. Dalla tesi trotskiana discendeva, invece, che compito primario era lo sviluppo della rivoluzione su scala mondiale e che a questo fine la difesa degli interessi dello Stato sovietico doveva essere subordinata. A Trotskij l’utopia risibile di una rivoluzione contemporanea su scala mondiale o continentale non gli può essere in alcun modo attribuita» (L. Maitan, Introduzione a La rivoluzione permanente di Trotskij, pp. XIX-XX). In compenso, si può accusarlo di intelligenza con il Capitalismo mondiale, con l’imperialismo, con il fascismo, con il nazismo (salvo Patto Ribbentrop-Molotov, si capisce), e magari poi spettinargli i capelli con un bel colpo di piccozza, giusto per estirpare definitivamente dalla sua testa traditrice la mala pianta del… trotskismo.
(7) Lenin, Sulla parola d’ordine…, p. 314.
(8) Lenin, Imperialismo e socialismo in Italia, 1915, Opere, XXI, p. 327.
(9) Ibidem, p. 331.
(10) Del genere: «Il concetto di comunità umana deve esprimersi non attraverso l’internazionalismo [e questo è chiarissimo!], ma attraverso comunità locali specifiche» (e questo è meno chiaro, diciamo). Più che marxismo, più o meno (a)variato, qui parlerei di supercazzolismo comunitarista.
(11) K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875, pp. 45-56, Savelli, 1975.
(12) Scriveva E. Franceschini qualche giorno fa su Repubblica: «Nelle librerie d’Inghilterra c’è una nicchia che all’improvviso vende benissimo: quella specializzate in opere di Marx, saggi sull’anarchia, testi sulla storia del movimento operaio. Il Times lo descrive come un’esplosione di interesse per i libri di sinistra, collegando il fenomeno alla “Corbynmania”: il fervore per un progressismo più radicale e per i suoi valori tradizionali, alimentato dalla recente elezione di Jeremy Corbyn, per trent’anni inascoltata primula rossa del suo partito, a nuovo leader del Labour, a cui ha imposto una sterzata rispetto al riformismo di Tony Blair e anche alla linea dei suoi successori Gordon Brown e Ed Miliband. […] Nuovi clienti, in particolare giovani, richiedono autori che erano stati a lungo messi da parte; e le presentazioni di libri su questi argomenti registrano di colpo il tutto esaurito. […] Un simile revival potrebbe rendere orgoglioso Karl Marx [come no!], che a Londra morì e vi è sepolto. Ma proprio attorno alla sua tomba è scoppiata in questi giorni una polemica, riportava ieri l’edizione europea del Wall Street Journal. Il piccolo cimitero di Highgate dove giace il padre del comunismo è privato, non pubblico; e i gestori fanno pagare 4 sterline (circa 5 euro e mezzo) d’ingresso ai visitatori che vanno a scattare foto o deporre fiori sulla lapide con la scritta “proletari di tutto il mondo unitevi”. I responsabili sostengono che quei soldi servono a coprire le spese per tenere in ordine il cimitero, ma qualche associazione di sinistra contesta la procedura come un modo indebito di fare soldi sul marxismo [presto, datemi un martello!]. Sarebbe piaciuto al nemico del capitalismo, ironizza il quotidiano di Wall Street, un simile commercio sul suo sepolcro?». Ma la domanda che, anche qui, deve porsi chiunque abbia un minimo di sale in zucca è un’altra, questa: che cavolo ci azzecca l’ultrareazionario (e ultra scialbo) Corbyn con il comunista di Treviri? Che senso ha leggere Marx, o un altro rivoluzionario (anche borghese: un Robespierre, ad esempio), alla luce della “teoria” e della prassi di un Corbyn? Può avere un solo significato, quello di addomesticare lo Spettro, di ridurlo in guisa di vecchio leone da zoo: spelacchiato, sdentato, fiaccato dalla noia, incapace di ruggire mentre in compenso sbadiglia per tutto il giorno. Meglio, molto meglio, l’oblio! Associare in qualche modo Marx al nuovo leader laburista inglese la dice lunga sul cattivo mondo in cui viviamo; un mondo totalmente incapace non solo di “fare” la rivoluzione sociale ma anche semplicemente di pensarla. E così all’ubriacone tedesco possiamo fargli recitare come se nulla fosse la parte del nonno degli ultrareazionari chiamati progressisti (o “socialisti”, o financo “marxisti”). Si, datemi un martello! «Che cosa ne vuoi fare?». Beh, per iniziare potrei distruggere il Santo Sepolcro di Londra, e poi magari fare una capatina a Mosca… Iconoclasta, sono!
(13) D. Fusaro, da La Gabbia, 16 settembre 2015.
(14) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.
(15) «La Russia in Siria ci riporta alla Guerra Fredda, per fortuna. Dalla dissoluzione dell’Urss, l’Onu e la cosiddetta comunità internazionale hanno sostenuto interventi “umanitari” contro i governi legittimi, con risultati disastrosi. La mossa di Putin può anticipare un sano ritorno al multilateralismo e alla tutela dello Stato sovrano» (C. Moffa, Limes, 26 ottobre 2015). Sì, compagni e amici, visto che oggi non possiamo fare la rivoluzione sociale mondiale simultanea, non ci rimane che lottare affinché il mondo abbia non un solo poliziotto, ma molti poliziotti; non un solo padrone, ma molti padroni. È la politica del “male minore” in vista di “equilibri sociali più avanzati”.
(16) Intervista di A. De Alberi a D. Fusaro, Lettera 43, 26 agosto 2015.
(17) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.
(2) Lenin, Opere, XXI, p. 311, Editori Riuniti, 1966.
(3) Lenin, Opere, XXI, p. 315.
(4) Nell’ottobre del ’21, presentando al Partito La Nuova Politica Economica, Lenin ammise con la consueta franchezza la grande illusione nella quale i bolscevichi vissero durante tutto il periodo precedente: «In parte sotto l’influenza dei problemi militari e della situazione apparentemente disperata nella quale si trovava la repubblica noi commettemmo l’errore di voler passare direttamente alla produzione e alla distribuzione su basi comuniste. […] Non posso affermare che noi allora ci raffigurassimo questo piano con così grande precisione ed evidenza; comunque, agimmo press’a poco in questo senso. Disgraziatamente è così» (Lenin, La Nuova Politica Economica e i compiti dei centri di educazione politica, Opere, XXXIII, p. 48, opere, 1967). Scriveva sempre Lenin in un opuscolo del 1918 (Sull’economia russa contemporanea ): «Nessun comunista, credo, ha più contestato che l’espressione “Repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei Soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici» (i passi saranno ripresi dallo stesso autore nell’importante discorso Sull’imposta in natura, 1921, p. 310, Opere, XXXII, 1967).
Come ricorderà Lukács nel 1967, nella Postilla all’edizione italiana del suo saggio su Lenin del 1924, «Già prima dell’ottobre 1917 Lenin previde giustamente che nella Russia economicamente arretrata era indispensabile una forma di transizione del tipo della futura NEP. Tuttavia la guerra civile e gli interventi imposero ai soviet di ricorrere al cosiddetto “comunismo di guerra”. Lenin si piegò alla necessità dei fatti, senza però rinunciare alla sua convinzione teorica. Egli attuò al meglio tutto il “comunismo di guerra” che la situazione imponeva, ma, a differenza della maggior parte dei suoi contemporanei, senza riconoscere neppure per un istante nel comunismo di guerra la vera forma di transizione al socialismo; era fermamente deciso a tornare alla linea teoricamente giusta della NEP, appena la guerra civile e gli interventi [militari] fossero finiti. In entrambi i casi non si comportò né da empirista né da dogmatico, ma da teorico della prassi, da realizzatore della teoria» (G. Lukács, Lenin, Unità e coerenza del suo pensiero, p. 124, Einaudi, 1967).
(5) Nel caso di specie, la più grande incognita fu rappresentata dai contadini. «Non per niente i radicali russi chiamavano il contadino la sfinge della storia russa» (L. Trotskij, La rivoluzione permanente, 1929, p. 77, Einaudi, 1975 ). Sul ruolo ambivalente (contraddittorio) giocato nella Rivoluzione d’Ottobre dai contadini rinvio al mio studio Lo scoglio e il mare.
(6) «È utile ricordare qui la distinzione trotskiana tra Stato operaio e società socialista. Lo Stato operaio sorge non appena il potere politico è stato strappato alle vecchie classi dominanti, emerge dalla stessa vittoria della rivoluzione. la società socialista è lo stadio conclusivo di un processo, ed è appunto questo stadio che non può essere raggiunto se non infrangendo il quadro angusto degli Stati nazionali. E dalla proposizione teorica derivano implicazioni politiche concrete. Dall’affermazione della possibilità della costruzione del socialismo in un paese solo e, più tardi, dalla presunzione che l’obiettivo fosse stato raggiunto, discendeva che compito essenziale di tutto il movimento operaio e dell’Internazionale era la difesa dello Stato sovietico. Dalla tesi trotskiana discendeva, invece, che compito primario era lo sviluppo della rivoluzione su scala mondiale e che a questo fine la difesa degli interessi dello Stato sovietico doveva essere subordinata. A Trotskij l’utopia risibile di una rivoluzione contemporanea su scala mondiale o continentale non gli può essere in alcun modo attribuita» (L. Maitan, Introduzione a La rivoluzione permanente di Trotskij, pp. XIX-XX). In compenso, si può accusarlo di intelligenza con il Capitalismo mondiale, con l’imperialismo, con il fascismo, con il nazismo (salvo Patto Ribbentrop-Molotov, si capisce), e magari poi spettinargli i capelli con un bel colpo di piccozza, giusto per estirpare definitivamente dalla sua testa traditrice la mala pianta del… trotskismo.
(7) Lenin, Sulla parola d’ordine…, p. 314.
(8) Lenin, Imperialismo e socialismo in Italia, 1915, Opere, XXI, p. 327.
(9) Ibidem, p. 331.
(10) Del genere: «Il concetto di comunità umana deve esprimersi non attraverso l’internazionalismo [e questo è chiarissimo!], ma attraverso comunità locali specifiche» (e questo è meno chiaro, diciamo). Più che marxismo, più o meno (a)variato, qui parlerei di supercazzolismo comunitarista.
(11) K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875, pp. 45-56, Savelli, 1975.
(12) Scriveva E. Franceschini qualche giorno fa su Repubblica: «Nelle librerie d’Inghilterra c’è una nicchia che all’improvviso vende benissimo: quella specializzate in opere di Marx, saggi sull’anarchia, testi sulla storia del movimento operaio. Il Times lo descrive come un’esplosione di interesse per i libri di sinistra, collegando il fenomeno alla “Corbynmania”: il fervore per un progressismo più radicale e per i suoi valori tradizionali, alimentato dalla recente elezione di Jeremy Corbyn, per trent’anni inascoltata primula rossa del suo partito, a nuovo leader del Labour, a cui ha imposto una sterzata rispetto al riformismo di Tony Blair e anche alla linea dei suoi successori Gordon Brown e Ed Miliband. […] Nuovi clienti, in particolare giovani, richiedono autori che erano stati a lungo messi da parte; e le presentazioni di libri su questi argomenti registrano di colpo il tutto esaurito. […] Un simile revival potrebbe rendere orgoglioso Karl Marx [come no!], che a Londra morì e vi è sepolto. Ma proprio attorno alla sua tomba è scoppiata in questi giorni una polemica, riportava ieri l’edizione europea del Wall Street Journal. Il piccolo cimitero di Highgate dove giace il padre del comunismo è privato, non pubblico; e i gestori fanno pagare 4 sterline (circa 5 euro e mezzo) d’ingresso ai visitatori che vanno a scattare foto o deporre fiori sulla lapide con la scritta “proletari di tutto il mondo unitevi”. I responsabili sostengono che quei soldi servono a coprire le spese per tenere in ordine il cimitero, ma qualche associazione di sinistra contesta la procedura come un modo indebito di fare soldi sul marxismo [presto, datemi un martello!]. Sarebbe piaciuto al nemico del capitalismo, ironizza il quotidiano di Wall Street, un simile commercio sul suo sepolcro?». Ma la domanda che, anche qui, deve porsi chiunque abbia un minimo di sale in zucca è un’altra, questa: che cavolo ci azzecca l’ultrareazionario (e ultra scialbo) Corbyn con il comunista di Treviri? Che senso ha leggere Marx, o un altro rivoluzionario (anche borghese: un Robespierre, ad esempio), alla luce della “teoria” e della prassi di un Corbyn? Può avere un solo significato, quello di addomesticare lo Spettro, di ridurlo in guisa di vecchio leone da zoo: spelacchiato, sdentato, fiaccato dalla noia, incapace di ruggire mentre in compenso sbadiglia per tutto il giorno. Meglio, molto meglio, l’oblio! Associare in qualche modo Marx al nuovo leader laburista inglese la dice lunga sul cattivo mondo in cui viviamo; un mondo totalmente incapace non solo di “fare” la rivoluzione sociale ma anche semplicemente di pensarla. E così all’ubriacone tedesco possiamo fargli recitare come se nulla fosse la parte del nonno degli ultrareazionari chiamati progressisti (o “socialisti”, o financo “marxisti”). Si, datemi un martello! «Che cosa ne vuoi fare?». Beh, per iniziare potrei distruggere il Santo Sepolcro di Londra, e poi magari fare una capatina a Mosca… Iconoclasta, sono!
(13) D. Fusaro, da La Gabbia, 16 settembre 2015.
(14) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.
(15) «La Russia in Siria ci riporta alla Guerra Fredda, per fortuna. Dalla dissoluzione dell’Urss, l’Onu e la cosiddetta comunità internazionale hanno sostenuto interventi “umanitari” contro i governi legittimi, con risultati disastrosi. La mossa di Putin può anticipare un sano ritorno al multilateralismo e alla tutela dello Stato sovrano» (C. Moffa, Limes, 26 ottobre 2015). Sì, compagni e amici, visto che oggi non possiamo fare la rivoluzione sociale mondiale simultanea, non ci rimane che lottare affinché il mondo abbia non un solo poliziotto, ma molti poliziotti; non un solo padrone, ma molti padroni. È la politica del “male minore” in vista di “equilibri sociali più avanzati”.
(16) Intervista di A. De Alberi a D. Fusaro, Lettera 43, 26 agosto 2015.
(17) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.