mercoledì 18 novembre 2015

Lezioni tedesche per la sinistra italiana

 di Vladimiro Giacché

Il nuovo libro di Alessandro Somma - “L’altra faccia della Germania. Sinistra e democrazia economica nelle maglie del neoliberalismo”, DeriveApprodi, Roma, 2015, pp. 192, 13 euro - appartiene al genere decisamente raro dei libri che mantengono più di quanto promettano.

Stando al titolo, si potrebbe pensare a un testo dedicato esclusivamente alla sinistra tedesca. E questo tema nel libro, come vedremo, è approfondito a dovere. Ma, al tempo stesso, c’è un’analisi molto precisa dell’evoluzione della Germania neoliberale dai tempi di Schröder in poi. E ci sono, infine, gli insegnamenti che l’autore ritiene la sinistra italiana farebbe bene a trarre dalle vicende di quella tedesca.

Cercherò di dar conto di tutti e tre questi aspetti del libro di Somma. Partendo dal secondo, che rappresenta in verità lo sfondo da cui si stacca l’evoluzione della sinistra tedesca, politica e sindacale, negli ultimi 15 anni. Il punto di partenza di questa storia è rappresentato dalla decisione del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder – teorizzata nel manifesto per la “terza via” da lui firmato nel 1999 assieme a Tony Blair – di abbracciare le politiche neoliberali, mandando in soffitta come superata e viziata da "presupposti ideologici" l'idea, tipica della tradizione socialdemocratica, che lo Stato debba correggere i “fallimenti del mercato". Anche la priorità tradizionalmente attribuita alla "giustizia sociale" deve cedere il passo alla necessità di "creare le condizioni per la prosperità delle imprese". I lavoratori, per parte loro, sono chiamati ad abbandonare la tradizionale conflittualità (a dire il vero mai troppo accentuata nella Germania Ovest del dopoguerra), accettando la "cooperazione con il datore di lavoro", e soprattutto mettendo da parte il mito del posto fisso. La traduzione pratica di queste posizioni fu evidente in particolare con le cosiddette riforme Hartz I-IV promosse dal secondo esecutivo guidato da Schröder.

Le pagine dedicate da Somma a queste riforme e alle loro conseguenze sono tra le migliori pubblicate in Italia su questo argomento, del quale dalle nostre parti troppo spesso si parla a vanvera. L'autore ci mostra con grande precisione come estensione del lavoro interinale, minijob (lavori a tempo parziale pagati 400 euro al mese), riforma dell'agenzia federale del lavoro e riduzione sostanziale del sussidio di disoccupazione rappresentassero un insieme organico di misure. E come esse abbiano contribuito in modo decisivo alla diminuzione della quota-lavoro all'interno del pil tedesco e, per converso, al rilancio dei profitti d'impresa (rilancio che Schröder favori anche riducendo in misura sostanziale le tasse alle imprese e alla parte più ricca della popolazione).

È nelle “riforme” Hartz che va in gran parte rintracciata l’origine non soltanto della crescita delle disuguaglianze e della precarizzazione del lavoro in Germania, ma della vera e propria deflazione salariale che si è avuta in quel Paese. Una situazione che emerge con chiarezza dal confronto tra andamento della produttività e andamento dei salari: confronto da cui risulta che degli aumenti di produttività realizzati dalle imprese tedesche tra il 1999 e il 2012 (+14%) nulla è stato trasferito ai salari (che infatti nello stesso arco di tempo sono addirittura scesi in termini reali: -1%). È una storia che riguarda da vicino anche noi, perché questo processo – avvenuto in un contesto in cui la moneta unica impedisce recuperi di competitività legati a riaggiustamenti del cambio - rappresenta uno dei motivi fondamentali per cui la divergenza economica tra centro e periferia in Europa si è accresciuta sino a condurre a una vera e propria deindustrializzazione di quest'ultima.
 
Essa ha però riguardato in primo luogo i lavoratori tedeschi, una parte dei quali ha cominciato a voltare le spalle alla SPD e a cercare di costruire forme di rappresentanza al di fuori di essa. Somma segue passo passo il conseguente processo di aggregazione: un processo in cui movimenti sociali e quadri sindacali prima si uniscono ad Ovest nel raggruppamento "Alternativa elettorale lavoro e giustizia sociale" (WASG, 2004), poi, nel 2007, si fondono con il Partito del socialismo democratico (PDS), nato dalle ceneri della SED (l'ex "partito-guida" della Germania Est) e radicato nell'Est della Germania. Il risultato è la Linke: il partito che - anche grazie alla capacità dei suoi due esponenti di maggior spicco (Oskar Lafontaine e Gregor Gysi) - ha dato rappresentanza parlamentare, per la prima volta dall'illegalizzazione del partito comunista tedesco nel 1956 (una delle pagine buie della Germania Ovest postbellica), a quella parte dell’opinione pubblica a sinistra della SPD più sensibile ai problemi del lavoro.

Oggi il partito della Linke gode del consenso di circa un decimo dei votanti (e in un Land dell'est, la Turingia, sfiora il 30 per cento dei voti ed esprime il presidente di regione), anche se periodicamente è attraversato da conflitti interni che oppongono una destra interna, che considera una priorità strategica il conseguimento di accordi con SPD e Verdi per governare, a una sinistra che ritiene pregiudiziale a ogni accordo il veto a interventi militari all’estero e lo smantellamento dell’impianto economico neoliberale costruito negli ultimi anni, a cominciare proprio dalle “riforme” Hartz. 

Nel raccontare le vicende di questo raggruppamento politico, Somma entra nel merito anche delle sue molteplici componenti, offrendo in tal modo al lettore italiano lo sguardo più completo oggi disponibile sull’argomento (l'unico contributo in qualche modo paragonabile risale al 2010 ed è un lungo saggio di Costantino Avanzi uscito sulla rivista "Marxismo oggi"). Lo sguardo di Somma sulle vicende della Linke non è mai apologetico. Al contrario, l’autore ritiene che lo stesso costituirsi in partito della Linke abbia in parte deviato dal percorso ipotizzato inizialmente, quando si pensava più a dar voce ai movimenti sociali e forza alle componenti più avanzate del sindacato che a creare un vero e proprio partito politico.

L’autore ritiene che una “coalizione sociale” aperta ai movimenti, ma al tempo in grado di giovarsi della continuità di azione e della forza organizzativa dei sindacati, sia una forma politica più avanzata dei partiti tradizionali. La rappresentanza, questa la tesi di fondo, va costruita nei territori e nei luoghi di lavoro, e non inseguita a partire dalle assemblee elettive (Bundestag, Länder e Comuni). Da questo punto di vista anche l’esperienza della Linke tedesca ha manifestato limiti evidenti, a cominciare da un’attività politica troppo incentrata sulle scadenze elettorali.

Detto questo, va aggiunto che si tratta pur sempre di una situazione molto più avanzata di quella in cui si trova oggi la sinistra italiana. E non si può negare che le parole d’ordine della Linke siano state in qualche caso in grado di condizionare la stessa agenda politica dell’attuale governo di Grande Coalizione. Valga per tutti il caso del salario minimo: una proposta originariamente formulata dalla Linke, e successivamente entrata nel programma del governo per iniziativa della SPD (anche se fissandone la cifra a un livello inferiore rispetto a quello originariamente proposto). 

Il migliore insegnamento che in Italia si può trarre dalle recenti vicende della sinistra tedesca consiste secondo Alessandro Somma nel concetto di “mosaico della sinistra”, espressione coniata nel 2008 da Hans-Jürgen Urban, dirigente della IG-Metall (la Fiom tedesca). Essa sta a indicare un “attore collettivo eterogeneo”, ossia la coalizione di un insieme di forze di orientamento antiliberistico tra loro diverse: parte dei sindacati, movimenti no global, organizzazioni non governative, parte delle chiese, organizzazioni mutualistiche, militanti e intellettuali. Perché il termine “mosaico”? Perché, spiega Somma, “le forze chiamate a comporlo avrebbero conservato la loro identità, come le tessere di un mosaico appunto, ma avrebbero nel contempo concorso a definire un disegno comune e a determinarne la possibilità di successo”. Nell’ipotesi di Urban, la stessa Linke avrebbe dovuto porsi al servizio di questa coalizione di forze, evitando così di farsi assorbire dalla logica autoreferenziale dei parlamenti.

Il giudizio di Somma al riguardo appare ambivalente: da un lato la Linke ha saputo effettivamente giovarsi di un rapporto sia con i movimenti, sia col sindacato, dall’altro la sua stessa struttura di partito l’ha fatta cadere in logiche parlamentaristiche e le ha impedito di cogliere appieno le sue stesse potenzialità di espansione. Si tratta di un giudizio forse un po’ troppo severo: chiunque abbia partecipato ai congressi della Linke (a chi scrive è capitato in due occasioni: a Erfurt nel 2011 e a Dresda nel 2013) ha potuto osservare un apporto reale di associazioni di base e delle varie componenti del partito alla stessa costruzione del programma; il dibattito interno è autentico, spesso aspro, ci si confronta apertamente e si vota sui vari punti del programma e sui relativi emendamenti.

Il tema del “mosaico della sinistra” è stato recentemente ripreso da Somma in un contributo di grande interesse uscito in relazione a Sinistra Italiana e ai lavori in corso per costruire la cosiddetta “cosa rossa”. In questo testo, di cui consiglio la lettura, Somma insiste in particolare sulla “pari dignità” che deve essere attribuita alla diverse tessere del mosaico, e il carattere di “coordinamento delle forze di opposizione al neoliberalismo” che la “cosa rossa” dovrebbe assumere, ma con il vincolo che essa non dovrebbe essere un partito.

Qui il mio punto di vista differisce da quello dell’autore. Sono convinto che il concetto del “mosaico” sia molto utile a chi voglia oggi creare una coalizione di forze di sinistra (a sinistra del PD, per intendersi), e che in particolare la tutela delle identità specifiche, sia pure all’interno di una coalizione il più possibile ampia di realtà, sia assolutamente indispensabile in una fase come l’attuale, in cui le macerie stesse che ingombrano il campo della sinistra impediscono una ricomposizione semplice e rapida delle forze.

Credo però che il tema essenziale qui sia non tanto la forma (coalizione di movimenti contro partito organizzato), quanto il contenuto: ossia gli obiettivi che ci si prefigge. Da questo punto di vista preoccupa la compresenza, all’interno della “cosa rossa” in formazione, di opinioni seriamente critiche nei confronti degli assetti attuali dell’Unione Europea, e della stessa unione monetaria, come quelle ormai proprie di Fassina e D’Attorre, e di posizioni di europeismo sostanzialmente acritico, presenti soprattutto in Sel (si pensi alla presidente della Camera, Laura Boldrini, che ritiene addirittura desiderabili gli Stati Uniti d’Europa).

Tra questi due orientamenti si dovrà scegliere, e in fretta, pena la perdita di credibilità dello stesso progetto. Del resto, dopo le vicende greche, la riflessione sulla riformabilità o meno dell’Unione Europea e sulla concreta praticabilità di politiche di sinistra entro l’angusto perimetro tracciato dai trattati europei, sta attraversando l’intera sinistra europea, non esclusa la Linke. Sciogliere, e nel modo giusto, questo nodo è di vitale importanza per non lasciare fuori dal mosaico tasselli essenziali e per restituire un futuro alla sinistra in Italia. Come si vede, la lettura del libro di Somma ci riporta dalla Germania all’Italia. Non è il suo pregio minore.
 

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