Pubblichiamo questo articolo
di Piero Bevilacqua uscito sul quotidiano il manifesto e su Eddyburg che
è molto in sintonia con le questioni che andiamo ponendo con la
campagna #isoldicisono. Ne raccomandiamo la lettura.
Il capitalismo ha un grande e tenace
nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente:
l’abbondanza. Oggi l’abbondanza che lo minaccia è, come sempre, quella
delle merci, ma in una misura che non ha precedenti. Ad essa, negli
ultimi decenni, se ne è aggiunta un’altra, assolutamente inedita,
che coinvolge un vasto e crescente ambito di servizi. Per alcuni beni
la saturazione del mercato capitalistico è visibile a occhio
nudo ormai da tempo. I capi d’abbigliamento si comprano ancora nei
negozi, a prezzi che generano un certo profitto a chi li produce e a
chi li vende. Ma per il vestiario esiste un mercato parallelo così
esteso e abbondante che ormai sfiora la gratuità. Si può dire che
nelle nostre società più nessuno ormai, nemmeno il più misero degli
individui, ha il problema di vestirsi. Non dissimile fenomeno
possiamo osservare nell’ambito dei servizi più avanzati: l’accesso
all’informazione, alla cultura, all’arte, alla musica. Certo, occorre
almeno possedere un cellulare, pagare un contratto a un gestore. Ma
è evidente che siamo invasi anche qui – insieme, certo, al ciarpame –
da un’abbondanza di offerta, a prezzi decrescenti che tendono
a creare uno spazio di fruizione fuori mercato. Sappiamo che il
capitale anche da tali beni riesce a trarre ancora profitti, ma oggi
è sotto i nostri occhi uno scenario di abbondanza di servizi e beni
culturali, di umana emancipazione, potenziale e di fatto, che non
ha precedenti. Solo 50 anni fa tutto questo era lontano dalla nostra
immaginazione. Occorre sempre gettare un occhio al passato, per
evitare di scorgere nel presente solo un cumulo di sconfitte.
Com’è noto, il capitale combatte la
caduta tendenziale del saggio di profitto inventando nuovi beni
e nuovi bisogni, dilatando il suo dominio sulla natura per
trasformare il vivente in merci brevettabili, strappando al
controllo pubblico servizi che un tempo erano dei comuni e dello
stato. Ma il capitale, aiutato da circostanze storiche
fortunatissime – la crisi e poi il crollo del socialismo reale, la
burocratizzazione dei partiti democratici di massa e dei
sindacati, la rivoluzione informatica – ha sventato la più grande
minaccia da abbondanza che gli sia parata dinnanzi nella sua
storia: quella degli ultimi decenni del XX secolo. Un oceano di merci
stava per riversarsi nel mercato dei Paesi avanzati che avrebbe
costretto imprenditori e governi a innalzare i salari e soprattutto
a ridurre drasticamente l’orario di lavoro. Si sarebbe arrivati
a quel passaggio epocale previsto da Lord Keynes nel saggio
Possibilità economiche per i nostri nipoti, che, con la crescita
della produttività a «a un ritmo superiore all’1% annuo» avrebbe
spinto le società industriali, nel giro di un secolo, a istituire una
durata del lavoro a 15 ore settimanali.
Poveri e indebitati
In realtà, la crescita della
produttività mondiale è stata superiore alle stesse previsioni di
Keynes, con risultati però opposti rispetto alle sue aspettative.
In un saggio prezioso per rilevanza documentaria e nitore
espositivo, Abbondanza, per tutti (Donzelli) Nicola Costantino ha
ricordato che il tasso di crescita annuo della produttività
a livello mondiale, nel corso del XX secolo, ha oscillato tra il 2 e
il 3%. Negli Usa, tra il 1950 e il 2000 è stato in media, del 2,5%; in
Francia, nel solo settore industriale, tra il 1978 e il 1998, del
3,7%. Il che ha significato che la produttività oraria del
singolo lavoratore, a un tasso di crescita del 2% annuo,
è aumentata di ben 7 volte, molto di più delle 2,7 volte ipotizzate
da Keynes e su cui egli fondava la previsione delle 15 ore
settimanali. Ma la giornata lavorativa non è stata accorciata, se
non in Francia, in maniera contrastata e oggi rimessa in
discussione. Ovunque, specie negli ultimi anni, la durata del lavoro
quotidiano è cresciuta a dismisura. Negli Stati Uniti, già prima
della crisi era diventato generale il fenomeno del workaholic,
l’alcolismo del lavoro, mentre oggi sempre di più gli americani
lamentano la mancanza di tempo, il time squeeze, time pressure, time
poverty (Bartolini, Manifesto per la felicità, Donzelli).
Lavorano tutto il giorno come dannati: ma almeno guadagnano bene?
Niente affatto, essi sono in grandissimo numero poveri e indebitati.
Come ha ricordato Maxime Robin su Le Monde diplomatique-Il Manifesto
(Stati Uniti, l’arte di ricattare i poveri, settembre 2015) oggi in
Usa i check casher, piccole banche per prestiti veloci, dilagano nei
quartieri poveri più dei McDonald’s. Ma in genere tutti gli
americani della middle class sono indebitati. «Uno statunitense
nella norma è un cittadino indebitato che paga le rate in tempo».
E le cose non sono certo migliorate con la ripresa santificata dai
media. Il 95% dei redditi aggiuntivi che si sono creati dopo la crisi –
ricordava The Economist nel settembre 2013 – è andato all’1% delle
persone più ricche. Al restante 99% sono andate le briciole del 5%.
Che cosa dunque è accaduto? Perché
dal mondo dell’abbondanza a portata di mano siamo precipitati nel
regno della scarsità? La risposta essenziale è molto semplice.
Perché il capitalismo dei paesi dominanti (Usa e Europa in
primis), ricercando nuovi mercati e occasioni di profitto nei paesi
poveri (la cosiddetta globalizzazione), innalzando la
produttività del lavoro, ristrutturando e innovando le imprese,
non incontrando resistenze in sindacati e partiti avversi, hanno
generato un’arma strategica formidabile: la Grande Scarsità, la
scarsità del lavoro. Il lavoro inteso come occupazione, come job.
I dati recenti sono impressionanti. Tra il 1991 e il 2011 – ricorda
Costantino – mentre il Pil reale planetario è cresciuto del 66%,
il tasso globale di occupazione è diminuito dell’1,1%. In 20 anni un
quarto di beni in più con meno lavoro.
Logiche sistemiche
Ma una vasta e ben controllata
disoccupazione è oggi un arma politica, non solo un effetto delle
trasformazioni economiche. Tale scarsità, diventata permanente
e sistematica, ha reso i rapporti tra capitale e lavoro, economia
e politica, poteri finanziari e cittadini, drammaticamente
asimmetrici e sbilanciati. Tutti invocano lavoro come gli affamati
un tempo chiedevano il pane, fornendo al capitale una
legittimazione mai goduta in tutta la sua storia. L’intera
struttura dello stato di diritto ne risente, gli istituti della
democrazia vengono progressivamente svuotati. Sindacati
e partiti, funzionari del presente, invocano la «ripresa» come se
il futuro possa «riprendere» le fattezze del passato.
E tuttavia tale artificiale
scarsità non può durare a lungo. Non solo perché le innovazioni
produttive in arrivo (stampanti 3D, intelligenza artificiale)
stanno per rovesciarci interi continenti di merci e servizi,
sostituendo perfino lavoro intellettuale con macchine. Ma anche
perché l’abbondanza del capitale che la Grande Scarsità del lavoro
oggi genera è una forma di obesità, una malattia sistemica. C’è
troppo danaro in giro, masse smisurate di risorse finanziarie,
rispetto alle necessità della produzione. Patrimoni concentrati in
gruppi ristretti che non corrono il rischio dell’investimento
produttivo in società ormai sature di beni e con una domanda debole,
mentre la grande massa dei lavoratori è tenuta a basso salario
perché i loro padroni devono poter competere a livello globale.
Questo quadro che non teme smentite –
poggia su una vasta e solida letteratura — ha una grande
importanza per la sinistra. In esso è possibile scorgere che una
vita di gran lunga migliore sarebbe possibile per tutti e che solo
i rapporti di forza dominanti la ostacolano, facendo regredire la
società nel suo insieme. Non c’è una crisi, intesa come un evento
naturale. È stato il cedimento storico dei partiti della sinistra,
dei sindacati, dei governi a favorire la vittoria della scarsità
sull’abbondanza. Una grande battaglia perduta, ma da cui ci si può
riprendere.
La piramide della ricchezza
Da questa lezione si può comprendere
come niente di naturale è rinvenibile nella situazione presente:
è tutto dipendente da scelte politiche, da puri rapporti di forza.
Si può così smascherare l’idea di una scarsità a cui occorre
piegarsi come all’antico Fato. Cosi come l’idea di una «ripresa»
affidata alle riforme del mercato del lavoro, alla flessibilità dei
lavoratori, senza toccare la piramide delle ricchezze
accumulate. Non ci sono i soldi, recita la litania dei politici e di
gran parte degli economisti mainstream. È la più grande menzogna
della nostra epoca. I soldi non ci sono per pensioni dignitose, per il
reddito di cittadinanza, non ci sono per le borse di studio agli
studenti, che disertano gli studi universitari, non ci sono per
i nostri ricercatori e per la gioventù intellettuale, costretta
a migrare all’estero. Ma ci sono in misura crescente e cumulativa nei
patrimoni privati: in un solo anno, tra il 2011 e 2012, mentre
infuriava la crisi, il numero degli individui con un patrimonio
superiore a un milione di dollari è cresciuto nel mondo del 6%, in
Italia del 10% . I soldi ci sono in quantità senza precedenti per le
banche. E le centinaia di miliardi di euro che la Bce sta
profondendo a piene mani, semplicemente stampandoli?
Dunque, una grande abbondanza
(auspichiamo, di beni e servizi avanzati, frutto di una generale
riconversione ecologica, di riduzione del lavoro ) è alla nostra
portata. E bisogna infondere nella società italiana tutta intera
questa grande pretesa. La pretesa della prosperità e del ben vivere
per tutti. È una prospettiva di nuovi bisogni, che non solo
è possibile soddisfare, ma coincide con una tendenza storica
inarrestabile e che capitale e ceto politico possono solo
ritardare, con danno generale. La redistribuzione dei redditi
e del lavoro e la lotta alle disuguaglianze incarnano come mai nel
passato l’interesse generale, una necessità indifferibile
e universale. Oggi possiamo far sentire a tutti, anche agli
scoraggiati e ai perplessi, che nelle nostre vele può tornare
a soffiare il vento della storia.
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