«Ecco
perché ho cambiato idea sull’uscita dall’euro. L’unica soluzione è
democratizzare l’Europa dall’interno». Intervista di Alex Sakalis del
sito openDemocracy all’ex ministro delle Finanze greco.
Intervista di Alex Sakalis del sito openDemocracy all’ex ministro delle Finanze greco.
Sono molto interessato a questo movimento transnazionale,
paneuropeo che ti stai preparando a lanciare, sui cui dettagli ci hai
ingolosito…
Non vi sto ingolosendo. È solo che vuole tempo per crearlo.
Quali forze speri di unire in questo movimento pan-europeo?
È cominciato con un’idea dopo la repressione di quella che chiamo “la
primavera di Atene”, avvenuta quest’estate. È divenuto abbondantemente
chiaro che al livello di Stato-nazione non si possono neppure mettere
sul tavolo proposte che riguardano il proprio paese, per non parlare di
proposte per l’eurozona nel suo complesso. Ho fatto esperienza
dell’eurozona molto da vicino ed è stato evidente che non si trattava di
una sede in cui discutere come stabilizzare l’economia sociale europea,
o come democratizzarla. Questo è semplicemente impossibile; non si può
fare. Così, sai, quando il nostro governo di fatto si è auto-rovesciato,
poiché è questo che abbiamo fatto, ci siamo auto-rovesciati…
Un auto-colpo di Stato?
Sì, ma naturalmente quella era precisamente l’intenzione della
troika. È questo che amano davvero fare. Non solo farci rinnegare tutto
quello che avevamo detto, ma anche costringerci a mettere in atto
esattamente il programma contro cui ci battevamo e che eravamo stati
eletti che contrastare. A quel punto mi sono chiesto: valeva la pena
avviare un nuovo processo politico in Grecia? Tentare una seconda
opportunità? E la mia conclusione è stata che no, non ne valeva la pena.
Che senso avrebbe avuto avviare una nuova campagna per due anni – è il
tempo che ci sarebbe voluto – solo per tornare al punto da cui ero
partito, uno contro diciotto?
Se la mia diagnosi è corretta, ciò che sta succedendo in Grecia è
semplicemente un riflesso, un’eco, di una crisi molto più profonda in
tutta l’eurozona, che non può essere risolta a livello nazionale o di
singolo Stato membro. L’ovvia conclusione che si deve ricavare da questo
è che o si sostiene lo scioglimento dell’unione monetaria, e poi si può
tornare a parlare di politica nazionale, o si deve puntare ad un
movimento paneuropeo per il cambiamento dell’eurozona nel suo complesso.
O una cosa o l’altra.
Oggi la prima soluzione affascina molti. E questo è un dibattito in
corso anche in Gran Bretagna, fuori dall’unione monetaria, ma
all’interno dell’Unione europea. A me non piace. Non perché io coltivi
una qualche illusione riguardo a Bruxelles, a Francoforte e all’Unione
europea. Le mie in merito sono note. Tuttavia una cosa è criticare un
insieme di istituzioni come l’Unione europea, criticare il modo in cui è
stata costruita e il modo in cui funziona. Tutt’altra cosa è sostenere
che andrebbe smantellata. È ciò che in matematica chiamiamo isteresi. Il
percorso che si è scelto per arrivare da qualche parte, una volta
arrivati, non esiste più. Non possiamo semplicemente ripercorrere il
percorso all’indietro e ritrovarci al punto di partenza. Dunque dobbiamo
percorrere la via dell’unione, per quanto tossica possa essere; se
cerchiamo di fare marcia indietro, finiremo giù in un burrone.
Questa è la mia idea. È esattamente ciò che accadde negli anni Venti.
C’era un’unione all’epoca. Non era formalizzata ma era molto forte: il
gold standard. La sua frammentazione portò a perdite umane apocalittiche
e io temo che la stessa cosa si verificherebbe oggi. Per questo sono
arrivato alla logica conclusione che la sola soluzione è un movimento
paneuropeo. Suona utopico, lo so, ma questa idea mi si è cementata nella
mente in agosto, quando ho cominciato a girare per l’Europa e mi sono
reso conto che dovunque andassi c’era una gran sete di un’idea come
questa.
Venivano ad ascoltarmi a migliaia, e non perché volessero manifestare
solidarietà alla Grecia o a me, bensì perché l’esperienza del negoziato
tra la Grecia e la troika aveva toccato un nervo scoperto. E le persone
che vengono ad ascoltarmi e a discutere con me e con i miei colleghi
sono preoccupate per sé stesse, per i loro paesi, per l’Europa. Così ho
fatto due più due e sono arrivato alla conclusione che la sola cosa per
cui vale la pena battersi è questa aggregazione a livello europeo
attorno ad un’idea molto semplice, ma radicale: democraticizzare
l’Europa.
Qualcuno potrebbe dire: «Ma l’Europa è già democratica». No, non lo
è. Non è per nulla democratica. Perciò democraticizzarla è in realtà
un’idea molto radicale che va contro ogni fibra del corpo e dell’anima
dei burocrati di Bruxelles.
Dicci un po’ di più chi speri di far aderire a questa piattaforma.
Questo è un motivo, secondo me, per cui questo dovrebbe essere un
movimento, e non un partito né una élite. Non si tratta di presentare
una lista, un elenco di politici. Se è un movimento deve essere un
movimento di base. Sono appena tornato da Coimbra in Portogallo. Prima
ero a Barcellona con il nuovo magnifico sindaco, Ada Colau, che
collabora con me su questo. In Francia c’è un mucchio di persone, una
vasta gamma di persone interessate: accademici, attivisti, sindacalisti,
politici. Arnaud Montebourg è dei nostri. Abbiamo persone della Linke, del partito socialdemocratico tedesco e persone molto in gamba del Kreisky Forum in Austria. Come ho detto prima, non sto cercando di ingolosirvi am ci vuole tempo per lanciare un movimento come questo.
Alcune di queste persone sarebbero a favore di uscire dalla UE?
Includeresti nel tuo movimento persone che sono arrivate a tale
conclusione?
Beh, io non credo in un partito di tipo leninista, in cui si decidono
in anticipo i parametri e poi si accolgono le persone affinché si
mettano al servizio della causa. Non penso che chi voglia uscire dalla
UE sarebbe attratto da questo movimento, perché questo sarà un movimento
per la democratizzazione dell’Europa. Ci saranno senz’altro molti
dibattito sulla moneta, su cosa fare quando si verificherà una
ripetizione dell’esperienza che ho avuto io, quando mi sono sentito dire
che o accettavo l’ordine stabilito delle cose oppure potevo anche
andarmene. Non ci sarà alcuna posizione precostituita sulla moneta,
salvo che non ci sarà neppure alcuna posizione precostituita a favore
dell’uscita dall’eurozona.
La mia idea personale, e continuo a ripeterlo, è che è politicamente e
finanziariamente un errore porsi lo scioglimento dell’eurozona come
obiettivo strategico. Allo stesso tempo, non dovremmo essere spaventati
dalla minaccia di essere cacciati dall’eurozona, ma questa è un’altra
storia.
Quindi Jeremy Corbyn sarebbe il benvenuto nel vostro movimento?
Assolutamente. Ma è importante fissare questo punto: questa non sarà
una coalizione di partiti. Vuole essere una coalizione di cittadini, che
a loro volta possono appartenere a qualsiasi partito vogliano. Non
saranno ammessi partiti. Non è un partito né un’alleanza di partiti.
L’idea è quella di creare un movimento di base in tutta Europa di
cittadini europei interessati a democratizzare l’Europa. Ovviamente
saranno coinvolti in altre campagne nelle loro comunità locali, nei loro
Stati membri, nelle loro nazioni. Forse avremo persone di partiti
diversi dello stesso paese. Questo mi piacerebbe. Perché se l’idea è
quella di non replicare le politiche nazionali, perché no? Ma
personalmente conto molto sui seguaci di Corbyn.
State stilando un manifesto?
Sì, ci stiamo lavorando.
Chi lo sta scrivendo?
Non voglio fare nomi e non lo firmeremo quando lo lanceremo. Sarà un testo fluttuante.
Puoi darci una data stimata di pubblicazione?
Sarà prima di Natale.
Nel Regno Unito si avvicina il referendum sull’UE. Su
openDemocracy abbiamo discusso di come esse sarà probabilmente
presentato sui media nei seguenti termini: «Ci piacciono gli affari più di quanto odiamo gli immigrati o odiamo gli immigrati più di quanto amiamo gli affari?».
È un modo interessante di presentare la cosa.
Ma non è questo il dibattito che dovremmo avere sull’Europa. Si
tratta di una scelta incredibile, epocale che il Regno Unito ha di
fronte. Come ti piacerebbe vedere inquadrato il dibattito sul nostro
rapporto con l’Europa e che cosa dovremmo pretendere dall’Europa?
«Vogliamo un’Europa democratica o no?». Torniamo a quanto detto in
precedenza. L’Europa e l’Unione europea non sono la stessa cosa. Il
problema con la UE è che ha tutta le connotazioni di uno Stato
sovranazionale, senza esserlo. Non è solo che formalmente non è uno
Stato. Il suo DNA, la sua storia, il modo in cui è stata assemblata sono
completamente diversi da quelli di uno Stato. Uno Stato emerge come
risultato della necessità politica di un meccanismo, un meccanismo
d’azione collettivo, che armonizzi i conflitti di classe e di gruppo.
Prendiamo gli Stati Uniti o il Regno Unito. Lo Stato inglese è emerso
per la necessità di trovare un equilibrio tra i diversi signori e
baroni. La Magna Carta fu il risultato di uno scontro tra
l’autorità centrale del re e quella dei baroni, e successivamente si
ebbe lo scontro tra l’aristocrazia terriera e i mercanti. Poi tra gli
industriali e la classe operaia. Gruppi diversi che si scontrano
ferocemente per il controllo. E lo Stato emerge attraverso lo scontro di
queste placche tettoniche, e lo Stato diventa un insieme di istituzioni
che gode più o meno della legittimità di tutta la popolazione, al fine
di generare un equilibrio di potere.
È così che si forma lo Stato. Per definizione lo Stato, anche se non è
democratico, come per esempio la Cina, è un processo politico che ha lo
scopo di stabilizzare i conflitti sociali. Ora l’Europa, Bruxelles, non
è emersa così. L’Europa è emersa come un cartello dell’industria
pesante. È cominciata con il carbone e con l’acciaio, e poi ha cooptato i
coltivatori, poi i banchieri, poi l’industria automobilistica,
l’industria dei servizi, e via di seguito. È stato un tentativo di
creare prezzi stabili e di limitare la concorrenza, l’opposto della
ragion d’essere dello Stato britannico e ovviamente dello Stato
statunitense. L’idea era quella di stabilizzare i prezzi e porre fine
allo scontro tra l’industria tedesca, francese, italiana, olandese, e
così via.
C’è una differenza enorme tra uno Stato che emerge come mezzo
politico per stabilizzare i conflitti di classe e il personale
amministrativo di un cartello. L’industria britannica non ha mai fatto
parte del cartello ed è per questo che la Gran Bretagna è entrata così
tardi nel Mercato europeo comune. La Gran Bretagna vi è entrata per
sostituire un impero perduto avendo accesso a questi mercati. Ma i
mercati erano già monopolizzati dal cartello dell’Europa centrale.
Dunque il motivo per cui l’establishment britannico non è mai stato
innamorato dell’Unione europea è perché non ha mai fatto parte del
processo di creazione del cartello che ha fatto ascendere Bruxelles. Non
è una cattiva cosa. Ma sto cercando di spiegare perché in Germania,
Olanda, Belgio, ecc. l’establishment, le élite, non mettono mai in
discussione l’Unione europea, mentre in Gran Bretagna sì.
Dunque si è venuta a creare una situazione in cui la UE, in Gran
Bretagna, non piace a nessuno. Non piace alla classe lavoratrice, perché
la UE non ha in mente gli interessi della classe lavoratrice
britannica. Ma al tempo stesso neanche l’industria britannica – a parte
la City e qualche settore specifico – ha particolari simpatie per essa.
L’unione monetaria ha dovuto sviluppare una moneta comune perché se stai
costruendo un cartello devi avere dei prezzi stabili. Per i primi
vent’anni la stabilità dei prezzi è stata garantita da Bretton Woods.
Dopo il 1971 l’Europa ha cercato di creare il proprio gold standard alla
Bretton Woods, che è divenuto l’Euro. Dunque la Gran Bretagna è in una
situazione precaria nei confronti della UE. La Gran Bretagna continua a
dire al mondo che vuole il mercato unico ma non Bruxelles. Ma questo non
è possibile.
Solitamente viene citato il caso della Norvegia o della Svizzera.
Beh, la Norvegia e la Svizzera si sono già rimesse a Bruxelles. Volete questo?
Solitamente il dibattito non arriva fin lì.
Beh, dovrebbe arrivarci. Il punto è che, anche se uscite dall’Unione,
gli standard del lavoro, dell’ambiente alla fine saranno dettati a
livello europeo.
Perché le nostre economie sono semplicemente troppo globalizzate e troppo interconnesse?
Pensa al TPP, al TTIP, ecc. Non si tratta più di dazi e di quote; si
tratta di standard. Si tratta di standard industriali, ambientali, del
lavoro, e di brevetti. Chi le scrive queste regole? Non sarà un
negoziato tra la Gran Bretagna e l’UE a determinare queste regole. Sarà a
Bruxelles che queste regole saranno scritte. E la Gran Bretagna, fuori
dall’UE, non avrà altra scelta che prenderle o lasciarle.
La mia opinione è che i problemi della UE nascono dal fatto che è
nata come “zona a democrazia limitata”. O meglio, inesistente. La Gran
Bretagna no. Dal mio punto di vista i progressisti britannici non hanno
altra scelta che rimanere nella UE e unirsi a noi nel tentare di
democratizzarla. Se non riusciamo da democratizzare la UE non farà
davvero molta differenza se staremo dentro o fuori. A meno che,
naturalmente, la Gran Bretagna non trovi un modo per sostituire il 60
per cento del suo commercio, che è con la UE. Non sarà in grado di
farlo.
Owen Jones sta sollecitando quella che chiama la Lexit,
un’uscita della sinistra dall’Europa. Che cosa diresti a chi è
d’accordo con tutto quello che dici ma vuole comunque lasciare l’UE?
Beh, mi trovo spesso ad affrontare questo genere di discorsi nel mio
paese con i miei ex compagni di governo che hanno lasciato il partito
per formare Unità Popolare. Loro dicono la stessa cosa: non possiamo
avere un vero dialogo con l’Eurogruppo, perciò l’uscita è l’unica
soluzione. La mia tesi è che non ci sono soluzioni facili. Mi piacerebbe
che potessimo creare un universo alternativo in cui fosse possibile
avere un certo grado di autonomia, di autarchia, che consenta di
ripulire le stalle di Augia. Ma non è possibile. L’idea di tornare ad
una vita agricola pastorale è assurda. Oggi persino le mietitrebbie sono
governate da componenti elettronici che i nostri paesi non producono.
Non ci si può ritirare dal mercato globalizzato e specialmente dal
mercato europeizzato. Dunque se si esce senza avere alcuna capacità di
partecipare alla democratizzazione di tale mercato allora si sarebbe
sempre soggetti ad un mercato amministrato da tecnocrati e si avrà un
grado di libertà ancora minore di quello che si ha ora.
Penso sia importante non cadere nella trappola nazionalista di
pensare che si possa ritornare nel bozzolo dello Stato-nazione. Ciò non
significa che dovremmo assecondare Bruxelles. Credo, al contrario, nel
rimanere per rovesciare le regole, anche ricorrendo, se necessario, a
strumenti di disobbedienza civile. Questa per me deve essere la
strategia della sinistra, non la Lexit.
Quanto potere hanno i governi nazionali sulla politica economica?
Quando eri ministro delle Finanze, ti sentivi davvero al comando del
destino del tuo paese?
No. Beh, dipende. La Gran Bretagna è molto diversa dalla Grecia. Non
solo perché è un’economia più vasta e considerevole, ma anche perché non
è nell’eurozona. Se non si è nell’eurozona si ha un certo grado di
libertà, non ci sono dubbi al riguardo. Vorrei che non fossimo mai
entrati nell’eurozona, ma non è la stessa cosa di dire che dovremmo
uscirne. C’è una grande differenza. Nell’eurozona il proprio grado di
libertà è minimo, se non addirittura inesistente. La sola cosa che
abbiamo potuto fare è stata rinegoziare l’intero pacchetto, per ottenere
un certo grado di libertà. Dunque una delle cose che questo movimento
proporrà sono dei modi in cui possiamo combinare una maggior
europeizzazione di particolari settori – come la gestione del debito, il
settore bancario, gli investimenti aggregati, la lotta alla povertà,
ecc. – con un maggiore decentramento, per dare maggiore autonomia alle
regioni, alle città e ovviamente alle nazioni in termini di politiche
sociali ed economiche. Io credo che questo sia possibile. Sembra una
contraddizione, ma credo che sia possibile guadagnare maggiore libertà
ed autonomia se europeizziamo alcuni dei grandi problemi.
Questa opposizione economica di sinistra all’ordoliberalismo dovrebbe andare oltre Keynes?
Oltre il Keynes dei manuali, senz’altro. Ma questa sarebbe una nuova
varietà di keynesismo adattata alla situazione dell’Europa. Da anni
ormai con i miei amici James Galbraith e Stuart Holland, ex parlamentare
laburista, siamo andati assemblando quella che chiamiamo una “modesta
proposta”, appropriandoci del titolo di Jonathan Swift, che contiene una
serie di proposte keynesiane da applicare al livello dell’eurozona e
non degli Stati nazionali. In essa spieghiamo come le istituzioni
esistenti – la banca centrale, il Meccanismo europeo di stabilità, la
Banca europea per gli investimenti – possono essere utilizzate al fine
di creare un nuovo patto europeo. Un nuovo patto verde per l’Europa
guidato dagli investimenti, con la banca per gli investimenti che svolga
il ruolo che sotto il New Deal di Roosevelt svolse il Tesoro federale,
emettendo buoni del tesoro al fine di raccogliere il risparmio in
eccesso per canalizzarlo verso gli investimenti, anziché mediante le
politiche di quantitative easing. Ci sono modi che si possono immaginare
per intervenire immediatamente oggi per stabilizzare il capitalismo
europeo al fine di creare le condizioni per la sua democratizzazione. La
scelta è tra questo e la barbarie.
O lo status quo?
Lo status quo non è più una scelta, perché si sta sbriciolando. Non
credo che lo status quo sia sostenibile, e penso che tutti lo sappiano.
Prendiamo l’Italia. L’Italia è un paese che ha un avanzo di partite
correnti. La maggior del suo debito pubblico è interno, il che è un
bene. Ma la situazione non è sostenibile. Ha registrato un avanzo
primario superiore al 2 per cento negli ultimi anni eppure il suo
rapporto debito-PIL sta aumentando esponenzialmente. Quando un paese
sofisticato come l’Italia, che produce di tutto, da Armani alla Ferrari
alla Fiat, registra due avanzi – un avanzo commerciale e un avanzo nei
conti pubblici – e nonostante questo è sommerso dai debiti, sappiamo che
c’è qualcosa di profondamente sbagliato. Renzi l’altro giorno ha detto
qualcosa di importante. Ha detto che se Bruxelles respingerà il suo
bilancio, lui glielo ri-sottoporrà tale e quale. È una sfida aperta al
patto fiscale dell’Unione europea. Perché lo sta facendo? È un
rivoluzionario? No. Perché sa che se segue le regole il suo paese finirà
in un buco nero. Lo stesso vale per la Francia o per la Spagna, che
presentano anch’esse situazioni insostenibili. E questo Schäuble lo sa.
Sa che l’eurozona non è in grado di subire e di assorbire un’altra onda
d’urto nell’economia internazionale, il tipo di onda d’urto che si sta
formando ora. Dunque non penso che lo status quo sia un’opzione.
Puoi spiegare in linguaggio per profani che cosa implicava il tuo piano B?
In realtà lo chiamavo piano X – giusto per essere precisi – ed era
composto da due parti. Uno riguardava come gestire la situazione se
fossimo stati cacciati dall’euro. Perché c’erano queste minacce e anche
se io non le ritenevo credibili e pensavo che non l’avrebbero mai fatto,
anche se volevano farlo, ciononostante come ministro delle Finanze
avevo l’obbligo di redigere dei piani d’emergenza nel caso fossero
riusciti a farci uscire. E questo è – era – principalmente il piano X.
Più pensavo a come avrebbe potuto avere luogo questa ridenominazione
della moneta, più la cosa mi sembrava complicata. La mia squadra
lavorava giorno e notte per cercare di immaginare tutti gli scenari
possibili. E naturalmente la difficoltà in questo era che doveva essere
una squadra piccola, altrimenti sarebbe stata una profezia che si
autoavverava. Dunque questo era il piano X.
Ma c’era un altro piano: non un piano d’emergenza bensì un insieme di
reazioni che stavo preparando da parecchio tempo, da almeno un anno,
per restare nell’euro dopo che ci avessero chiuso le banche. Sapevo che
ci avrebbero minacciato con le banche e lo sapevo da molto prima che
fossimo eletti. E i tre passi che raccomandavo come ritorsione erano,
innanzitutto, quello di annunciare la creazione di un sistema parallelo
di pagamenti, un sistema elettronico denominato in euro; in secondo
luogo un taglio o una dilazione di trent’anni del rimborso dei titoli
del debito greco detenuti dalla BCE, per un totale di 27 miliardi.
Sarebbe stata una grossa arma da usare, perché l’intero programma QE
della BCE avrebbe avuto grosse difficoltà se lo avessimo fatto. E,
terzo, cambiare la legge che regola il funzionamento della banca
centrale greca. Tutto questo per restare nell’euro con le banche chiuse,
dopo una mossa aggressiva della BCE.
Era questo il piano che ritenevo cruciale, non il piano X. Il piano X
era nel caso fossimo stati cacciati dall’euro. Non pensavo che ciò
fosse credibile ma dovevo averlo. Ma il piano per rispondere alla
chiusura delle banche, quella era, per me, la vera partita. Era un piano
per restare nell’euro e riuscire a sopravvivere al suo interno, con le
banche chiuse, mentre i negoziati producevano l’esito appropriato. Ho
sempre saputo che a meno che non avessimo dimostrato la capacità di non
arrenderci dopo che le banche fossero state chiuse per una settimana o
due, saremmo stati ridotti sul lastrico.
E tu pensi che un paese piccolo, alla bancarotta, senza alleati nell’eurozona avrebbe potuto fare tutto ciò?
Sì, assolutamente. Guarda a come Mario Draghi tiene insieme l’euro.
Senza QE non ci sarebbe euro. Il QE è in un equilibrio molto precario da
un punto di vista legale perché Draghi affronta molte contestazioni da
parte della Bundesbank e la contestazione maggiore è che i suoi acquisti
di attivi potrebbero subire un taglio nominale e la risposta consueta
della banca centrale è che essa non tollererà alcun taglio nominale. Se
io annuncio un taglio in reazione ad una mossa molto aggressiva di
chiusura delle nostre banche, allora l’interno programma di quantitative
easing ne sarebbe compromesso. Dunque avevamo un’arma, ma mi è stato
impedito di usarla.
Qui a openDemocracy siamo ossessionati dal TTIP. Un ministro di
SYRIZA con cui ho parlato recentemente ha detto di ritenere che un
governo di SYRIZA non dovrebbe approvare il TTIP. Ci sono mai state
discussioni sul TTIP mentre tu eri al governo?
No, mai. Sono sicuro che questo sia un sentimento genuino. Ma allora,
di nuovo, lascia che ti ricordi, Alex, che abbiamo continuato a dire
per anni e durante i mesi del negoziato, ogni giorno, che non avremmo
mai firmato un terzo memorandum.
Dunque pensi che la pressione sarebbe troppo forte se si arrivasse a quel punto?
Ti ho già risposto.
La mia ultima domanda riguarda i media. Come gestirai il rapporto
del tuo movimento con essi. Potrebbero non essere carini nei tuoi
confronti…
Oh, non preoccuparti. Sono allenato…
Dunque hai appreso delle lezioni…
La singola lezione più importante che ho appreso è che non contano.
Perché se il messaggio è forte, considerata la necessità di un movimento
che esprima questa brama di un minimo di controllo democratico sulle
fonti del potere in Europa, io credo che sarà l’onda della gente, come è
stato in Grecia, a trasportarci. Abbiamo conquistato il 61,3 per cento
dei voti contro ogni singola televisione, stazione radiofonica e
giornale del paese. Tutti facevano campagna per il sì. Abbiamo potuto
farlo in Grecia, potremmo farlo in Europa. In ultima analisi, è come ci
ha insegnato Omero: non è tanto il viaggio che conta, quanto la
destinazione. È una lotta giusta e dobbiamo combatterla.
Articolo pubblico su openDemocracy il 25 ottobre 2015. Traduzione di Thomas Fazi.
Nessun commento:
Posta un commento