A distanza di quattro anni, all’interno di una fase di temperie inedita
che la sinistra italiana sta attraversando priva com’è di una adeguata
rappresentanza politica tale da permetterle di affrontare i rischi di
guerra globale, l’inasprimento delle contraddizioni sociali, la crisi
verticale della democrazia: tutti gli elementi, cioè, che caratterizzano
questa fase politica costruendo un vero e proprio “ritorno
all’indietro”
Al momento della scomparsa di Magri si è posto il problema di come
continuare a far vivere il suo lavoro in una forma che potesse produrre
elementi di riflessione e di dibattito, partendo da un giudizio sulla
sua collocazione politica: Magri è sempre stato un eterodosso (un errore
del quale occorre fare autocritica quello di definirlo “eretico”)
perché ha sempre cercato, nel suo operato culturale e politico, di
“innovare la tradizione” presentando un alto livello di progettualità
politica e sociale.
In questo senso un riferimento utile rimane il testo “Alla ricerca di
un altro comunismo” che contiene un’antologia dei suo scritti
principali, curato da Aldo Garzia, Famiano Crucianelli, Luciana
Castellina.
In particolare, scorrendo i testi contenuti nel volume e al riguardo
dei quali è stata compiuta dai curatori una scelta molto accurata tra i
tanti lavori che pure avrebbero potuto essere considerati fondamentali,
sono stati privilegiati i temi della critica al sistema sovietico (uno
dei punti sulla base dei quali, nel 1969, il gruppo del “Manifesto” fu
radiato dal PCI) e l’originalità (in allora!) del cosiddetto “caso
italiano”, considerando proprio gli elementi di diversità e di
originalità nella riflessione teorica già presenti in Gramsci e
Togliatti.
Una “diversità” da utilizzare per costruire una grande esperienza politica e sociale rivolta a cambiare la società italiana.
Magri, nell’ultima fase della sua vita prima della “decisione fredda”
di allontanarsi definitivamente, aveva visto con chiarezza il degrado
cui stava andando incontro la nostra vita politica e la difficoltà della
sinistra a riunificarsi in un soggetto posto all’altezza delle
contraddizioni del presente.
Su questi temi era così nata una lunga conversazione, riportata nel
volume e che ne rappresenta uno dei punti salienti, che presenta nel suo
scorrersi spunti di grande interesse, anche sul piano dell’autocritica:
in particolare rispetto alla fase di scioglimento del PCI (con il
seminario di Arco di Trento, nel corso del quale Magri tenne la
relazione “In nome delle cose”) alla conclusione della quale entrambi i
soggetti determinati da quel frangente, PDS e Rifondazione Comunista,
risultarono del tutto insufficienti a rappresentare la complessità di
quella parte della società italiana che aspirava e ambiva a una
trasformazione radicale del Paese.
Un accenno al percorso politico di Magri: dagli esordi nel movimento
giovanile democristiano fino all’adesione al PCI, nell’indimenticabile
’56.
Una decisione controcorrente presa proprio nei giorni del XX
congresso, quello della “destalinizzazione”, e della repressione armata
della rivolta di Budapest.
E’ poi il caso di ricordare alcuni passaggi fondamentali di questa
lunga e importante esperienza politica, a partire dall’intervento svolto
al convegno sulle tendenze del capitalismo italiano, organizzato
dall’Istituto Gramsci nel 1962 all’esordio del centrosinistra,
allorquando Magri individuò con esattezza l’esigenza di una critica di
fondo ai meccanismi d’innovazione del capitalismo italiano (ci si
trovava nel pieno del “boom” economico) e di una nuova lettura del ciclo
economico europeo).
Seguì la vicenda dell’XI congresso vissuta accanto ad Ingrao
(allorquando proprio Ingrao ruppe l’unanimismo che contraddistingueva il
gruppo dirigente del PCI con la famosa frase: “Non mi avete persuaso”
fino al congresso successivo, il XII, con la formazione del gruppo del
“Manifesto, la pubblicazione della rivista omonima da lui diretta con
Rossana Rossanda, la radiazione dal partito.
Seguirono poi le vicende del PdUP, soggetto politico nato come
proiezione dell’esperienza del gruppo originario e poi sviluppatosi, per
circa un quindicennio, in una ricerca appassionato di nuove dimensioni e
nuove identità per una sinistra contraddistinta, da un lato, dalle
forme emergenti del ’68 e, dall’altra, dalla grande tradizione storica
del movimento operaio italiano.
Fu al seminario di Bellaria, nel 1978, che Magri, analizzata la
situazione politica, segnata in quel momento dalla vicenda del rapimento
Moro e dai governi di “solidarietà nazionale”, ebbe l’intuizione, che
nel PCI si sarebbe riaperta una discussione di fondo: negli anni
successivi quella intuizione fu confermata, in particolare da parte di
Enrico Berlinguer, con l’adozione della linea dell’alternativa e
l’individuazione di una “questione morale” anche all’interno dello
stesso partito comunista, quale frutto di una degenerazione dell’intero
sistema dei partiti.
Alla morte di Berlinguer si verificò il ritorno del PdUP nel PCI. Nel
1989 Magri ebbe un ruolo di grande rilievo nell’opposizione alla
decisione di Occhetto di sciogliere il partito per costruire un nuovo
soggetto che assumendo la tematica del governo considerata esaustiva del
suo agire “sbloccasse il sistema politico”.
In quel frangente Magri fornì un importantissimo contributo con la
relazione svolta al seminario di Arco, svoltosi nell’ottobre del 1990.
“Nel nome delle cose”, il titolo di quel testo che può essere
considerato come uno degli ultimi atti intellettuali e politici compiuti
in nome della sinistra comunista in Italia, che proprio nell’occasione
del seminario di Arco si può dire abbia compiuto il suo ultimo atto.
Le divisioni all’interno del fronte, pur composto da dirigenti
prestigiosi e di grande capacità politica da Natta a Ingrao, da Cossutta
a Garavini, che si oppose a quella decisione, impedirono un esito
felice di quel lavoro di proposta e di iniziativa avverso l’operazione
di dispersione del patrimonio culturale, organizzativo, politico che la
sinistra comunista italiana era riuscita a produrre nel corso dei
decenni.
Ne derivò un risultato molto deludente, in particolare nella
formazione di una Rifondazione Comunista realizzata attraverso un
meccanismo di vero e proprio “affastellamento” di istanze negativamente
contraddittorie: personalismo, movimentismo, governativismo.
Tutti fattori di vera e propria incultura politica che incidono
ancora adesso nei tentativi di ricostruzione di una presenza di sinistra
negativamente percorsi dall’ennesima istanza di un pericoloso “ismo”:
il politicismo.
Alla fine l’esperienza di impegno di Magri la direzione della
“Rivista del Manifesto” e il successivo abbandono dell’attività
politica, fino alla stesura del “Sarto di Ulm”.
La differenza fra questi due testi può essere così individuata: il
“Sarto di Ulm” ha ricostruito la storia, con “Alla ricerca del nuovo
comunismo” si è cercato di ricostruire il personaggio.
Come può, alla fine, essere sinteticamente riassunta l’eredità
politica di Lucio Magri: attorno a due punti, il primo riguarda la sua
idea della politica, intesa oltre che come azione anche come pensiero
(bisogna sempre avere un’idea del mondo, possedere una chiave di lettura
per interpretarlo); la seconda che non bisogna mai agire, in politica,
in forma minoritaria, considerando sempre la visione complessiva delle
cose, indipendentemente delle dimensioni della soggettività politica
all’interno della quale si agisce.
In questo senso Magri può ben essere considerato come un genuino
interprete del concetto di “egemonia” gramsciano, inteso in senso più
propriamente politico: di concezione della politica come sintesi delle
proiezione storica della necessità di rappresentanza della complessa
articolazione delle “fratture” sociali, nella ricerca di un loro
costante aggiornamento e nell’ottica di una proposta di superamento del
sistema.
Lucio Magri per il comunismo e non per meno.
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