di Stefano Porcari (redazione Contropiano)
Intervenendo alla Luiss, ossia
l’università privata della Confindustria, il ministro del lavoro Poletti
ha esternato di nuovo con le sue pessime suggestioni. Dopo aver cercato
di mettere una pezza alla gaffe sull’inutilità della laurea per gli
ultraventenni, ieri è andato alla carica contro i contratti di lavoro.
Poletti ha affermato che bisogna "immaginare un contratto che non abbia
come unico riferimento l'ora-lavoro, ma la misurazione dell'apporto
dell'opera. La misurazione ora-lavoro è un attrezzo vecchio e frena
rispetto ad elementi di innovazione".
Il lavoro, ha spiegato Poletti, è "un
po' meno cessione di energia meccanica ad ore ma sempre risultato. Con
la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà". Secondo il
ministro del Lavoro si tratta di un tema di cultura su cui lavorare.
E' ormai noto che nel nostro e negli altri paesi a capitalismo avanzato, stia crescendo in modo rilevante la disoccupazione tecnologica ossia il lavoro sottratto da macchine automatiche al lavoro umano. Una pacchia per i padroni che si ritrovano a disposizione forza lavoro che non sciopera, non si ammala, non va in ferie, non va in maternità. Ma se le macchine automatiche si prendono il lavoro che fine fanno i lavoratori? Esiste dunque il problema delle conseguenze della disoccupazione tecnologica sia sul versante sociale di chi viene espulso dal lavoro, sia di chi rimane a lavorare avendo come "colleghi" dei robot. Poletti a questo punto ha anticipato quanto da tempo si discute sia in Confindustria sia a livello della European Round Table of Industries: chi rimane a lavorare in fabbriche o aziende ad alta o media automazione deve vedersi cambiare radicalmente le condizioni e il contratto di lavoro.
E' ormai noto che nel nostro e negli altri paesi a capitalismo avanzato, stia crescendo in modo rilevante la disoccupazione tecnologica ossia il lavoro sottratto da macchine automatiche al lavoro umano. Una pacchia per i padroni che si ritrovano a disposizione forza lavoro che non sciopera, non si ammala, non va in ferie, non va in maternità. Ma se le macchine automatiche si prendono il lavoro che fine fanno i lavoratori? Esiste dunque il problema delle conseguenze della disoccupazione tecnologica sia sul versante sociale di chi viene espulso dal lavoro, sia di chi rimane a lavorare avendo come "colleghi" dei robot. Poletti a questo punto ha anticipato quanto da tempo si discute sia in Confindustria sia a livello della European Round Table of Industries: chi rimane a lavorare in fabbriche o aziende ad alta o media automazione deve vedersi cambiare radicalmente le condizioni e il contratto di lavoro.
Dunque quelle di Poletti sono
elaborazioni originali di un ministro? No, è un input della
Confindustria che a tale scopo si appresta a far partire una offensiva
materiale – ma anche ideologica – sull’automazione e l’introduzione di
macchine e robot nella produzione.
C’è infatti una perfetta coincidenza tra
le esternazioni del ministro Poletti e i quindici giorni di
pubblicazioni che il Sole 24 Ore intende dedicare proprio alle
“meraviglie” dell’uso dei robot nella produzione e nelle modalità di
vita quotidiana. “Vi vogliamo guidare da oggi per quindici giovedì
consecutivi in un viaggio nel futuro che è già dentro le vostre case e i
vostri pensieri, al lavoro e in famiglia, ma senza che ce ne rendiamo
fino in fondo conto e, soprattutto, senza percepire quanto potrà ancora
di più incidere questo pezzo di futuro, con le sue invenzioni e le sue
macchine più o meno intelligenti, nella nostra vita quotidiana” scrive
il giornale della Confindustria che ha affidato il compito alla squadra
che da anni gestisce l’inserto scientifico del quotidiano “Nova 24”. Un
inserto interessantissimo, per molti versi affascinante, ma che – come
hanno cercato di spiegare in questi anni in diversi saggi Guglielmo
Carchedi, Francesco Piccioni, Carlo Formenti – concepisce la scienza
come armamento della lotta di classe e della subalternità e non come
emancipazione complessiva, soprattutto dal lavoro salariato.
Un aspetto, questo della
specializzazione produttiva delle industrie italiane nelle macchine
automatiche, che contrasta fortemente con i bassi indicatori generali
che lo Stato e imprese dedicano a ricerca e sviluppo. “L’Italia è un
Paese di innovatori, ma ancora prima la seconda manifattura d’Europa, il
genio e il talento di un unicum assoluto dove si mescolano scienza e
digitale con arte, che vuol dire creatività, design, moda, artigianato,
ma anche più propriamente con il manufacturing e, cioè, quel mix
inimitabile e tutto italiano di bellezza e tecnologia, il segno di una
cultura cosmopolita” scrive il Sole 24 Ore, sottolineando che nel nostro
paese esiste un triangolo industriale d’eccellenza che sta macinando
profitti nonostante la crisi. “Qui, dove tra Milano, Torino, Emilia e
pezzi sparsi ma importanti, ci sono catene di imprese che fanno del
nostro Paese il secondo produttore d’Europa e tra i primi cinque al
mondo”. Esiste dunque una parte di questo paese che si è posizionato
fuori dalla crisi sociale, dalla deindustrializzazione mirata perseguita
in questi venti anni da governi e autorità europee. Il problema è che
in passato il combinato disposto tra innovazione tecnologica,
specializzazione produttiva ed esportazioni in qualche si ripercuoteva
positivamente sul resto della società. Oggi che l’appropriazione privata
della ricchezza prodotta è arrivata a livelli mai raggiunti nell’ultimo
secolo, questo “input” sta producendo solo disoccupazione tecnologica
crescente, bassi salari, aumento della giornata lavorativa; esattamente
il contrario di quello che la scienza dovrebbe e potrebbe produrre nella
società liberandola dal lavoro salariato. Ma qui stiamo parlando di
alternative, di quel socialismo concepito proprio con presupposti e
obiettivi antagonisti a quelli del capitalismo dominante.
Nessun commento:
Posta un commento