venerdì 6 gennaio 2012

La discesa del Bel Paese: un problema di "classi dirigenti" - di Marco D'Eramo, Il Manifesto


L’inizio del declino italiano ha una data esatta ed è il 26 dicembre 1991. Quel giorno si sciolse ufficialmente l’Unione sovietica e finì la Guerra Fredda. Con la guerra fredda finì anche quella che potremmo chiamare l’eccezione italiana. Perché per 35 anni l’Italia era stata la frontiera geografica e politica dell’impero occidentale. Frontiera geografica (orientale) perché il blocco sovietico cominciava proprio sull’altra riva dell’Adriatico. Frontiera politica perché il Pci era il più forte partito comunista dell’Occidente. Quindi tutto fu messo in opera (e tutto fu consentito) perché l’Italia americana fosse una «success story».
Da qui il miracolo economico, da qui la straordinaria stabilità politica di un regime sostanzialmente monopartitico (i gabinetti cadevano sì uno dopo l’altro, ma a rotazione le poltrone erano occupate sempre dagli stessi).
D’altronde l’Italia non era sola: anche il Giappone si trovava in una situazione analoga: anch’esso era uno dei vinti della seconda guerra mondiale, anch’esso era una frontiera geografica dell’impero, stavolta occidentale, avendo dirimpetto Siberia e Cina. Anche in Giappone la sinistra era forte. Così non stupisce che i due paesi abbiano avuto per tutta la guerra fredda un destino parallelo: ambedue vissero un incredibile miracolo economico (il Giappone partiva da più in alto e quindi anche il suo miracolo lo portò più in alto); ambedue furono governati da un regime monopartitico (a Roma dalla Democrazia cristiana, a Tokyo dal Partito Liberal-democratico), ambedue erano caratterizzati da una forte commistione tra politica e criminalità (mafia in Italia, yakuza in Giappone).
E in ambedue i paesi il sistema entrò in crisi esattamente con la fine della guerra fredda: in Giappone esplose la bolla immobiliare e cominciò una recessione da cui non è ancora uscito; anche a Tokyo, come a Roma, il regime monopartitico entrò in crisi. A questi destini paralleli ha dedicato un volumone intitolato Machiavelli’s Children: Leaders and their Legacy in Italy and Japan (2003) lo storico Richard J. Samuels della Cornell University.
In Italia la fine della guerra fredda fu vero un terremoto politico con fortissime scosse economiche di assestamento. In Italia il Pci si era già sciolto pochi mesi prima, nel febbraio 1991. Ma nel giro di pochi mesi scoppiò Mani pulite e implosero tutti gli altri protagonisti della prima Repubblica: Democrazia cristiana, Partito socialista, socialdemocratici, liberali, repubblicani. Nessuna di queste formazioni sopravvisse.
Ma quel che a noi interessa è che allora finì l’eccezione italiana: non era più un paese chiave, non era più indispensabile né per gli Stati uniti, né per la Nato: diventava un alleato marginale tra gli altri, e sostituibile, in termini strategici da altri paesi dell’ormai ex est europeo: era un drastico downrating di status, da nevralgico pivot a periferia irrilevante. Fino ad allora era stato persino sopportato un primo ministro con legami di mafia. Ora poteva essere processato (anche se poi fu assolto). Fino ad allora l’establishment economico internazionale aveva accettato che l’Italia trasgredisse tutti gli accordi, svalutasse a ripetizione, s’indebitasse più di ogni altro paese occidentale (anche qui in parallelo col Giappone, che oggi ha un debito pubblico superiore al doppio del Pil). Nessuna agenzia di rating attaccò mai l’Italia che pure svalutava a go go (i meno giovani ricorderanno che alla fine degli anni 1970 erano addirittura scomparse le monete metalliche sostituite da mini assegnetti fai-da-te emessi dalle singole banche per 5, 10, 20 lire).
Oggi qualcuno rimpiange la «laicità» della Democrazia rispetto al servilismo attuale dei partiti verso la Chiesa, ma dimentica che allora la Dc doveva ubbidire a due padroni, Usa e Vaticano, e non a uno solo: e non sempre la diplomazia vaticana coincideva con quella statunitense, basti l’esempio del Medio oriente su cui infatti un politico come Andreotti aveva una posizione nettamente più filoaraba e meno filoisraeliana di quella americana. Ma con la fine della Guerra fredda, la Chiesa tornava a essere l’unica struttura insieme organizzata, presente sul territorio e portatrice d’ideologia. Da qui il revanscismo vaticano, la reconquista cattolica cui assistiamo.
Fino al 1991 la delocalizzazione e l’off-shoring erano stati mantenuti entro i limiti, proprio per non degradare l’economia e il mercato del lavoro di una marca di frontiera. Ma da allora non ci fu più nessuna remora. E da allora il Prodotto interno lordo del nostro paese è sostanzialmente piatto, è anzi arretrato con l’ingresso nell’euro. Ricordiamo che dal 1992 in poi, su mandato politico, l’Istat ha mentito sistematicamente sui dati dell’inflazione: mantenendoli più bassi del reale consentiva di pagare interessi minori sui Bot, di rivalutare meno le pensioni, di abbassare la scala mobile. Quando fu introdotto l’euro e i prezzi praticamente raddoppiarono d’un colpo (la parità nominale era 1 euro = 2.000 lire, la parità reale era 1 euro = 1.000 lire), l’Istat ebbe il coraggio di dirci che in quell’anno i prezzi erano aumentati del 4 o 5 per cento, se non ricordo male. Divenne un luogo comune dire che spendevamo in euro, ma guadagnavamo ancora in lire. A detta dello stesso ex ministro Giulio Tremonti, l’introduzione dell’euro provocò la più colossale redistribuzione di reddito della storia repubblicana, a scapito dei lavoratori dipendenti (operai, insegnanti, infermieri, ma anche professori universitari, giudici o diplomatici) e a favore del cosiddetto «popolo della partita Iva».
Come il Giappone, quando è scoppiata la crisi del 2007, anche l’Italia non si era ancora ripresa dalla degradazione decretata dalla fine della guerra fredda. Semmai, la nostra situazione era molto peggiore di quella giapponese perché erano già in calo tutti gli indicatori, dalla percentuale del Pil dedicata a ricerca e innovazione, alle spese di welfare, agli investimenti in grandi opere, all’acculturazione dei giovani, al mercato del lavoro). Ma quel che è successo potrebbe essere letto in modo ancora più impietoso: e cioè i favoritismi nei confronti del nostro paese avevano mascherato durante la guerra fredda la principale carenza di lunga durata dell’Italia, e cioè l’assenza di una classe borghese: in Italia ci sono moltissimi ricchi, come si è visto l’altro ieri a Cortina, ma questi ricchi non fanno classe. Da decenni non si vede nessun capitalista nostrano investire in università e ricerca. I ricchi d’oltreoceano finanziano Harvard, Yale, e persino i più reazionari tra loro sovvenzionano centri studi; da noi i Moratti, i Berlusconi e gli Agnelli comprano tutt’al più calciatori. L’assenza di una borghesia intesa come classe si ripercuote – sembra un’ovvietà – nella totale latitanza di uno «stato borghese», di una «legalità borghese». Nessun ricco italiano si sente membro della classe dirigente, come invece succedeva a quel giudice della Corte suprema statunitense che diceva «A me, come a tutti, scoccia pagare le tasse, ma è il prezzo che pago per la civiltà».

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