Su
un punto la cancelliera tedesca Angela Merkel ha assolutamente ragione:
non può esserci moneta unica senza politica economica comune. Ma
l'accordo finisce qui. Perché la catena logica dovrebbe proseguire: non
può esserci politica comune senza uno stato comune. Una volta si diceva
che prerogativa essenziale del sovrano era quella di battere moneta.
Senza stato (senza principe) non c'è politica economica e non c'è
moneta. La catena logica però va oltre: senza un meccanismo democratico
unitario questo stato unico o non c'è, oppure è una tirannia.
E poiché oggi non non c'è una politica economica comune ai 17 paesi dell'Eurozona, e in ogni caso non c'è uno stato europeo, e non si vede nemmeno da lontano un metodo democratico per delegare le scelte economiche di quest'area monetaria, i mercati hanno ragione a predire che l'euro imploderà, quali che siano i sacrifici che ci accolliamo: l'euro non è un problema economico, o è solo marginalmente tale: l'euro è un problema politico, anzi di volontà politica.
Va ricordato infatti che lo spread non è una brillantina né una maledizione di Harry Potter, ma è un indice che misura la sfiducia dei mercati nel futuro dell'euro. Infatti i creditori che oggi prestano euro all'Italia non avrebbero ragione di chiedere rendimenti cinque volte più alti di quelli dei titoli tedeschi se fossero sicuri che il debito sarà restituito in euro. Ma se invece pensano che i prestiti in euro saranno rimborsati dall'Italia in lire, dalla Francia in franchi, dalla Spagna in pesetas e dalla Germania in marchi, allora si capisce perché chiedono interessi più alti (quali che siano le austerità che ci autoinfliggiamo): perché pensano che rispetto al cambio nominale dell'euro, la futura lira svaluterà - come peseta e franco -, mentre il marco rivaluterà: quindi i debiti tedeschi retribuiranno i creditori già con la rivalutazione, mentre i debiti italiani (e francesi e spagnoli) dovranno compensare la svalutazione.
Lo spread è perciò la fotografia finanziaria del grado di sfiducia nell'euro. E, come dice Merkel, senza politica economica comune, l'euro non può sopravvivere. Ma questa politica non può essere l'imposizione di un duumvirato franco-tedesco, versione tardo-capitalista dell'impero carolingio. Forse il difetto stava già nel processo iniziale di unificazione europea che ricalcava quello tedesco nel XIX secolo. Primo passo un'unione doganale col Mercato comune europeo, sulle orme dello Zollverein del 1834 tra 38 stati della Confederazione tedesca, ognuno con diritto di veto. Poi una nuova unione doganale come quella stabilita nel 1866 (dopo la guerra austro-prussiana), ma in cui i singoli stati membri non avevano più diritto di veto, e con un nucleo forte costituito dai 22 stati della Confederazione tedesca del nord che si erano dotati di un parlamento comune con però poteri limitatissimi rispetto al Consiglio federale che rappresentava gli stati: per continuare il paragone, il Consiglio federale era l'equivalente della Commissione europea, mentre il Reichstag corrispondeva all'Europarlamento e la distinzione tra Confederazione tedesca del nord e area-Zollverein corrispondeva all'Europa a due velocità, con l'Eurozona dei 17 rispetto all'Unione europea dei 27 membri. La similitudine finisce qui perché, dopo soli cinque anni, nel 1871 la Confederazione tedesca fu assorbita dalla Prussia e inglobata nell'impero tedesco. Ma in comune c'è l'idea che basti l'economia a cementare uno stato comune. Ovvero che basti l'Euro a fare l'Europa. O, per dirla in altri termini, che sia la moneta a «battere» lo stato invece dello stato a battere moneta. Ma così non è.
Ora, poiché è impensabile che gli altri 15 stati vengano inglobati da uno strampalato condominio franco-tedesco, l'unica possibilità per far sopravvivere l'euro è creare un organo europeo elettivo, una federazione, o una confederazione per quanto lasca, insomma qualcosa tipo India (che pure ha più di un miliardo di abitanti che parlano 22 lingue diverse, contro i soli 332 milioni dell'Eurozona che parlano 16 lingue). L'unica speranza per l'euro è la volontà d'istituire una democrazia europea. E perciò è al 99% un'illusione.
Arriviamo al dunque. Altro che governi tecnici! L'euro è un problema di volontà politica. Non volontà politica di accollarsi sacrifici, ma volontà politica da parte di grandi paesi di cedere democraticamente una fetta della propria sovranità nazionale. Altrimenti siamo di nuovo da capo a dodici, con sovranità nazionali scippate, popoli angariati, costituzioni cancellate, e tutto ciò senza un vero risultato. Allora, se, come sembra da tutti i vertici dell'ultimo anno compreso quello di ieri tra Merkel e il presidente francese Nicholas Sakozy, non c'è da parte di nessuno la volontà politica d'istituire un'Europa democratica, tanto vale chiuderla con l'euro prima che in nome di esso ci abbiano sfilato tutte le conquiste di due secoli di lotte popolari: prima che abroghino pensioni, svuotino la scuola dell'obbligo, riducano le ferie pagate, degradino il servizio sanitario, per poi far comunque implodere l'euro. Mi rendo conto che la fine dell'euro è una catastrofe: ma la sola scelta che ci hanno lasciato è da quale catastrofe farci stangare. Allora tanto vale scegliere quella che ci preserva almeno alcuni dei diritti così duramente conquistati.
E poiché oggi non non c'è una politica economica comune ai 17 paesi dell'Eurozona, e in ogni caso non c'è uno stato europeo, e non si vede nemmeno da lontano un metodo democratico per delegare le scelte economiche di quest'area monetaria, i mercati hanno ragione a predire che l'euro imploderà, quali che siano i sacrifici che ci accolliamo: l'euro non è un problema economico, o è solo marginalmente tale: l'euro è un problema politico, anzi di volontà politica.
Va ricordato infatti che lo spread non è una brillantina né una maledizione di Harry Potter, ma è un indice che misura la sfiducia dei mercati nel futuro dell'euro. Infatti i creditori che oggi prestano euro all'Italia non avrebbero ragione di chiedere rendimenti cinque volte più alti di quelli dei titoli tedeschi se fossero sicuri che il debito sarà restituito in euro. Ma se invece pensano che i prestiti in euro saranno rimborsati dall'Italia in lire, dalla Francia in franchi, dalla Spagna in pesetas e dalla Germania in marchi, allora si capisce perché chiedono interessi più alti (quali che siano le austerità che ci autoinfliggiamo): perché pensano che rispetto al cambio nominale dell'euro, la futura lira svaluterà - come peseta e franco -, mentre il marco rivaluterà: quindi i debiti tedeschi retribuiranno i creditori già con la rivalutazione, mentre i debiti italiani (e francesi e spagnoli) dovranno compensare la svalutazione.
Lo spread è perciò la fotografia finanziaria del grado di sfiducia nell'euro. E, come dice Merkel, senza politica economica comune, l'euro non può sopravvivere. Ma questa politica non può essere l'imposizione di un duumvirato franco-tedesco, versione tardo-capitalista dell'impero carolingio. Forse il difetto stava già nel processo iniziale di unificazione europea che ricalcava quello tedesco nel XIX secolo. Primo passo un'unione doganale col Mercato comune europeo, sulle orme dello Zollverein del 1834 tra 38 stati della Confederazione tedesca, ognuno con diritto di veto. Poi una nuova unione doganale come quella stabilita nel 1866 (dopo la guerra austro-prussiana), ma in cui i singoli stati membri non avevano più diritto di veto, e con un nucleo forte costituito dai 22 stati della Confederazione tedesca del nord che si erano dotati di un parlamento comune con però poteri limitatissimi rispetto al Consiglio federale che rappresentava gli stati: per continuare il paragone, il Consiglio federale era l'equivalente della Commissione europea, mentre il Reichstag corrispondeva all'Europarlamento e la distinzione tra Confederazione tedesca del nord e area-Zollverein corrispondeva all'Europa a due velocità, con l'Eurozona dei 17 rispetto all'Unione europea dei 27 membri. La similitudine finisce qui perché, dopo soli cinque anni, nel 1871 la Confederazione tedesca fu assorbita dalla Prussia e inglobata nell'impero tedesco. Ma in comune c'è l'idea che basti l'economia a cementare uno stato comune. Ovvero che basti l'Euro a fare l'Europa. O, per dirla in altri termini, che sia la moneta a «battere» lo stato invece dello stato a battere moneta. Ma così non è.
Ora, poiché è impensabile che gli altri 15 stati vengano inglobati da uno strampalato condominio franco-tedesco, l'unica possibilità per far sopravvivere l'euro è creare un organo europeo elettivo, una federazione, o una confederazione per quanto lasca, insomma qualcosa tipo India (che pure ha più di un miliardo di abitanti che parlano 22 lingue diverse, contro i soli 332 milioni dell'Eurozona che parlano 16 lingue). L'unica speranza per l'euro è la volontà d'istituire una democrazia europea. E perciò è al 99% un'illusione.
Arriviamo al dunque. Altro che governi tecnici! L'euro è un problema di volontà politica. Non volontà politica di accollarsi sacrifici, ma volontà politica da parte di grandi paesi di cedere democraticamente una fetta della propria sovranità nazionale. Altrimenti siamo di nuovo da capo a dodici, con sovranità nazionali scippate, popoli angariati, costituzioni cancellate, e tutto ciò senza un vero risultato. Allora, se, come sembra da tutti i vertici dell'ultimo anno compreso quello di ieri tra Merkel e il presidente francese Nicholas Sakozy, non c'è da parte di nessuno la volontà politica d'istituire un'Europa democratica, tanto vale chiuderla con l'euro prima che in nome di esso ci abbiano sfilato tutte le conquiste di due secoli di lotte popolari: prima che abroghino pensioni, svuotino la scuola dell'obbligo, riducano le ferie pagate, degradino il servizio sanitario, per poi far comunque implodere l'euro. Mi rendo conto che la fine dell'euro è una catastrofe: ma la sola scelta che ci hanno lasciato è da quale catastrofe farci stangare. Allora tanto vale scegliere quella che ci preserva almeno alcuni dei diritti così duramente conquistati.
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