Come il maiale, degli
operai non si butta via niente. Il punto più scabroso ed esemplare del
discorso di fine d'anno del presidente della Repubblica è stato toccato
quando Giorgio Napolitano li ha nominati.
Per ricordare, da ex comunista “migliorista”, soltanto la
loro capacità di “fare sacrifici”. Oggi come allora – era il 1977,
quando la Cgil di Luciano Lama impose la “svolta dell'Eur” - il ruolo
“nazionale” dei lavoratori consiste nel farsi carico del “risanamento
del paese”. Un autogol clamoroso, quello di Napolitano, se soltanto
qualcuno si fosse alzato davanti a lui per contestargli che da allora ad
oggi ci sono stati imposti 35 anni di arretramenti salariali e
normativi senza che questo paese sia mai stato “risanato” e soprattutto
senza che mai sia seguita una “nuova stagione di sviluppo”.
Ma il presidente parla da solo, senza contraddittorio. Quindi questa
parte ce la assumiamo noi, staccandoci dal coro dei servi e dalle
trogloditiche fanfaronate leghiste.
È un fatto che la “politica dei sacrifici” sia l'unica canzone che
hanno ascoltato nella loro vita i lavoratori che allora iniziavano la
carriera e oggi non riescono ancora a concluderla. Trentacinque anni in
cui si sono persi per strada gli incrementi salariali e la scala mobile,
diritti sindacali e individuali, con la “concertazione” (sciagurata
stagione durata quasi vent'anni) a sancire che prima vengono le esigenze
delle imprese e solo dopo – eventualmente – quelle dei dipendenti.
Trentacinque anni in cui il potere d'acquisto del salario è stato eroso
fino all'osso, realizzando un trasferimento dei redditi dal lavoro a
profitti e rendite così gigantesco che ormai non ce ne viene data più
neppure la misura (era del 10% oltre dieci anni fa, e le cose sono
peggiorate velocemente). Della stagione di conquiste operaie resta ormai
soltanto lo Statuto dei lavoratori, anzi quasi soltanto quell'art. 18
che lo rende esigibile in qualsiasi sede, anche davanti al giudice. Ma è
questione di ore o di giorni: anche quest'ultimo pilastro della dignità
del lavoro, della sua possibile egualianza di fronte allo strapotere
dell'impresa, sta per essere abbattuto. E anche questo con la complicità
annunciata di Cgil, Cisl e Uil.
Di tutto questo Napolitano non ha fatto parola. Sarebbe stato troppo
evidente che “la fase due”, quella positiva, per il lavoro non è mai
arrivata. Tantomeno può arrivare ora.
Il suo “alto” discorso ha incluso la classe operaia nel più
tradizionale e vetusto schema retorico corporativo: siamo tutti sulla
stessa barca, ai rematori si chiede uno sforzo aggiuntivo.
Ma non c'è stato soltanto vecchiume retorico, nel suo discorso.
Napolitano ci ha dato infatti un assaggio esemplare della “nuova”
ideologia imperialista europea. Lo schema corporativo e fascista è stato
rimodulato con l'accortezza di includere “la nazione” dentro una
cornice più vasta, continentale, ma senza grandi variazioni. L'unico
orizzonte di questo immane “sforzo di risanamento” resta infatti la
“competitività”. Dell'Italia e dell'Europa in mondo senza più gerarchie
stabili, in piena crisi di sistema, senza “modelli sociali” progressivi
da difendere.
Forse non se n'è neppure accorto, forse sì. Quest'orizzonte
“competitivo” è assolutamente cupo. Anche l'eventuale “successo” non
comporterà – nel suo discorso – alcun miglioramento effettivo. Solo la
sopravvivenza degli attuali assetti sociali. Sempre che, nella
“competizione”, non si finisca per soccombere, com'è pure possibile
nella logica di qualsiasi conflitto.
Nessuna emancipazione sociale, nessun “progresso”. Nell'Europa delle
banche e del pareggio di bilancio in Costituzione – un'idiozia che negli
Usa sostengono soltanto i malati di mente dei Tea Party – non c'è
spazio nemmeno per la speranza. La lotta per la sopravvivenza pretende
unità di intenti e soffocamento dei distinguo: non ci sono interessi
sociali diversi o addirittura tra loro contrapposti, ma un “pensiero
unico” che non prevede opposizione. La “coesione sociale” di Monti e
Napolitano sa di silenzio imposto ad ogni contestazione.
Nel nostro piccolo, non ci stiamo.
Gli scioperi e le manifestazioni già proclamate sembrano
forse ancora piccola cosa davanti alla gravità della minaccia che
questo governo – questa politica brutalmente e unilateralmente classista
– rappresenta. Dar corpo al movimento sociale e politico capace di
creare un'alternativa reale allo “sfascio competitivo” che ci viene
imposto è una necessità, prima ancora che un obiettivo.
Questo obiettivo lo facciamo nostro, chiamando i lavoratori non ad abbassare la testa, ma ad alzare la voce.
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