martedì 3 gennaio 2012

Il discorso del re di Dante Barontini, www.contropiano.org

Come il maiale, degli operai non si butta via niente. Il punto più scabroso ed esemplare del discorso di fine d'anno del presidente della Repubblica è stato toccato quando Giorgio Napolitano li ha nominati.
Per ricordare, da ex comunista “migliorista”, soltanto la loro capacità di “fare sacrifici”. Oggi come allora – era il 1977, quando la Cgil di Luciano Lama impose la “svolta dell'Eur” -  il ruolo “nazionale” dei lavoratori consiste nel farsi carico del “risanamento del paese”. Un autogol clamoroso, quello di Napolitano, se soltanto qualcuno si fosse alzato davanti a lui per contestargli che da allora ad oggi ci sono stati imposti 35 anni di arretramenti salariali e normativi senza che questo paese sia mai stato “risanato” e soprattutto senza che mai sia seguita una “nuova stagione di sviluppo”.
Ma il presidente parla da solo, senza contraddittorio. Quindi questa parte ce la assumiamo noi, staccandoci dal coro dei servi e dalle trogloditiche fanfaronate leghiste.
È un fatto che la “politica dei sacrifici” sia l'unica canzone che hanno ascoltato nella loro vita i lavoratori che allora iniziavano la carriera e oggi non riescono ancora a concluderla. Trentacinque anni in cui si sono persi per strada gli incrementi salariali e la scala mobile, diritti sindacali e individuali, con la “concertazione” (sciagurata stagione durata quasi vent'anni) a sancire che prima vengono le esigenze delle imprese e solo dopo – eventualmente – quelle dei dipendenti. Trentacinque anni in cui il potere d'acquisto del salario è stato eroso fino all'osso, realizzando un trasferimento dei redditi dal lavoro a profitti e rendite così gigantesco che ormai non ce ne viene data più neppure la misura (era del 10% oltre dieci anni fa, e le cose sono peggiorate velocemente). Della stagione di conquiste operaie resta ormai soltanto lo Statuto dei lavoratori, anzi quasi soltanto quell'art. 18 che lo rende esigibile in qualsiasi sede, anche davanti al giudice. Ma è questione di ore o di giorni: anche quest'ultimo pilastro della dignità del lavoro, della sua possibile egualianza di fronte allo strapotere dell'impresa, sta per essere abbattuto. E anche questo con la complicità annunciata di Cgil, Cisl e Uil.
Di tutto questo Napolitano non ha fatto parola. Sarebbe stato troppo evidente che “la fase due”, quella positiva, per il lavoro non è mai arrivata. Tantomeno può arrivare ora.
Il suo “alto” discorso ha incluso la classe operaia nel più tradizionale e vetusto schema retorico corporativo: siamo tutti sulla stessa barca, ai rematori si chiede uno sforzo aggiuntivo.
Ma non c'è stato soltanto vecchiume retorico, nel suo discorso. Napolitano ci ha dato infatti un assaggio esemplare della “nuova” ideologia imperialista europea. Lo schema corporativo e fascista è stato rimodulato con l'accortezza di includere “la nazione” dentro una cornice più vasta, continentale, ma senza grandi variazioni. L'unico orizzonte di questo immane “sforzo di risanamento” resta infatti la “competitività”. Dell'Italia e dell'Europa in mondo senza più gerarchie stabili, in piena crisi di sistema, senza “modelli sociali” progressivi da difendere.
Forse non se n'è neppure accorto, forse sì. Quest'orizzonte “competitivo” è assolutamente cupo. Anche l'eventuale “successo” non comporterà – nel suo discorso – alcun miglioramento effettivo. Solo la sopravvivenza degli attuali assetti sociali. Sempre che, nella “competizione”, non si finisca per soccombere, com'è pure possibile nella logica di qualsiasi conflitto.
Nessuna emancipazione sociale, nessun “progresso”. Nell'Europa delle banche e del pareggio di bilancio in Costituzione – un'idiozia che negli Usa sostengono soltanto i malati di mente dei Tea Party – non c'è spazio nemmeno per la speranza. La lotta per la sopravvivenza pretende unità di intenti e soffocamento dei distinguo: non ci sono interessi sociali diversi o addirittura tra loro contrapposti, ma un “pensiero unico” che non prevede opposizione. La “coesione sociale” di Monti e Napolitano sa di silenzio imposto ad ogni contestazione.
Nel nostro piccolo, non ci stiamo.
Gli scioperi e le manifestazioni già proclamate sembrano forse ancora piccola cosa davanti alla gravità della minaccia che questo governo – questa politica brutalmente e unilateralmente classista – rappresenta. Dar corpo al movimento sociale e politico capace di creare un'alternativa reale allo “sfascio competitivo” che ci viene imposto è una necessità, prima ancora che un obiettivo.
Questo obiettivo lo facciamo nostro, chiamando i lavoratori non ad abbassare la testa, ma ad alzare la voce.

Nessun commento: