mercoledì 4 gennaio 2012

Niente è come prima di Francesco Indovina


La ripetizione che niente è, e sarà, come prima non corrisponde alla consapevolezza che la formazione sociale capitalistica è cambiata. Il capitalismo pare abbia concluso la sua fase «rivoluzionaria», e come l’apprendista stregone non riesce a governare le forze che ha evocato.
Questione che può essere affrontata da diversi punti di vista e che qui si affronta, in forma molto semplificata, dal punto di vista della trasformazione del denaro in capitale (Marx, Il Capitale, Libro primo).
Dal «Sole 24 Ore» del 6 agosto si ricavano i seguenti dati di valore riferiti al 2010 del sistema mondo:
La produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari (economia di carta), tenendo fuori da questo calcolo il valore delle Borse che, ci si può illudere, hanno riferimento con l’economia reale. Detto in altro modo, quello che uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della «ricchezza» finanziaria che circola.
Si tratta del fenomeno della finanziarizzazione dell’economia, un tema non nuovissimo (già esplorato da Hilferding nel 1910) ma che negli ultimi trent’anni ha avuto un’esplosione e si è reso autonomo rispetto al capitale produttivo. È proprio la sua dimensione e la sua autonomia che rende teso e, apparentemente, conflittuale il legame tra apparati dello Stato e capitale finanziario.
I dati precedenti non possono scandalizzarci, ma non sono indifferenti; essi indicano una trasformazione di fondo del capitalismo.
Il  processo di trasformazione del denaro in capitale si fonda sul processo di trasformazione del denaro in merce e quindi in denaro (in formula marxiana: D-M-D*; dove D* è maggiore di D). Questa relazione ha costituito il tratto «rivoluzionario» del capitale (inteso come rapporto sociale); essa sussiste ancora (riguarda la produzione di merci e servizi, anche con forti trasformazioni), ma è largamente sovrastata da un processo che possiamo descrivere come basato su D-D-D (denaro-denaro-denaro). Nel processo definito dalla relazione D-M-D* era implicito, come è noto, il rapporto di sfruttamento, che storicamente i lavoratori hanno contrastato. Il capitale nella sua azione «creava» un antagonista che gli sottraeva risorse ma che era anche uno stimolo al raggiungimento di nuove frontiere di sviluppo, di avanzamenti tecnologici e organizzativi. Nello stesso tempo questo «antagonista» riusciva attraverso la sua azione sindacale e politica a conquistare diritti di cittadinanza sempre più estesi. Questa dinamica, che è stata positiva per lungo tempo, si avvantaggiava di una relazione triangolare capitale-lavoro-Stato nella quale la pressione del «lavoro», sia a livello sindacale che politico, sebbene spesso differenziata, esprimeva la rivendicazione del «diritto» a una società migliore e dove il «capitale» accollava allo Stato detti miglioramenti per alleggerire la pressione del lavoro su di sé.
Quanto detto è sicuramente una semplificazione, ma utile per leggere quello che pare un cambiamento di fondo. Nel Novecento si possono contare diverse «crisi», per ciascuna delle quali è possibile individuare una «spiegazione», ma cosa succede nella società con il prevalere del processo D-D-D (senza dimenticare la crisi che di quel processo è figlia)?
Simultaneamente tre cose che tendono a cambiano la natura della società:
– è il «gioco» nel mercato finanziario che costituisce la componente principale della produzione di «ricchezza»;
– il «capitale» finanziario è impalpabile, non ha carne e ossa visibili. Non può essere contrastato da chi ne subisce gli effetti negativi (la popolazione); è «impersonale», è un indice di borsa, contro di esso non si può scioperare (si possono rompere le vetrine come atto simbolico, ma non di più). Diventa un’entità metafisica ma pesante sulla vita di ciascuno;
la relazione triangolare, poiché il capitale finanziario non ha «corpo» si frantuma; lo Stato, sulla base dell’apparato ideologico (il mercato, il debito ecc.), è spinto a «opprimere» il popolo per soddisfare la bramosia di quello (avviene in tutti i paesi – i debiti sovrani – con l’aggiunta esplicita degli apparati repressivi già in Grecia).

Il debito Italiano

Il debito dello Stato ammonta a 1900 miliardi di euro (il 119% del Pil); un debito, secondo molti, che dipende dal fatto che il paese ha vissuto al di sopra delle sue possibilità. Ma sarà vero? Facciamo un po’ di conti, anche se semplificati.
Il mancato gettito dell’evasione fiscale è pari a 120 miliardi di euro annui. Una seria politica di contrasto avrebbe potuto ridurre almeno alla metà il mancato gettito; negli ultimi dieci anni questo avrebbe significato entrate per 600 miliardi, e quindi una diminuzione della stessa cifra del debito.
La voce «corruzione», assumendo la valutazione della Corte dei Conti, comporta un costo per lo Stato di 50-60 miliardi annui; una seria lotta alla corruzione avrebbe significato minore spese in dieci anni di 550 miliardi, con una minore spesa dello Stato e una riduzione della stessa cifra del debito.
È difficile valutare l’elusione, di cui un importante ex ministro sembra essere il maggior esperto, ma tra scudi e condoni la cifra non deve essere modesta se oggi si discute di un condono edilizio e fiscale per recuperare 35 miliardi di euro. In dieci anni, molto prudentemente, si può valutare in almeno 150 miliardi di euro le minore entrate.
Si potrebbe continuare tentando un calcolo degli sprechi effettuati per contentare l’arroganza di qualche politico (aeroporti inutili, strade che finiscono nel nulla ecc.), per l’incapacità progettuale che facilita la corruzione (ospedali non finiti, la famosa Salerno-Reggio Calabria ecc.), il costo della «politica», qualsiasi cosa si intenda esso è superiore alla media europea. Ma lasciamo stare.
Ecco a questo punto che i 1.900 miliardi di debito oggi, a spese immutate, avrebbero potuto essere pari a (1900 – 600 – 550 – 150) 600 miliardi di euro (38% del Pil). Con questo non si vuole negare l’esistenza del debito, ma negare che esso sia il frutto del costo troppo alto dei diritti di cittadinanza (scuola, salute, casa, pensioni, ammortizzatori sociali ecc.). Esso è il risultato del colposo e doloso comportamento dei nostri governanti, che niente o poco hanno fatto per guarire la società italiana di alcuni suoi cancri come l’evasione e la corruzione; al contrario questi comportamenti sono stati giustificati (dichiarando che le tasse erano troppo alte), promossi (attraverso i condoni) o facilitati (ancora si aspetta la legge anticorruzione).

Pagare o non pagare?

La speculazione finanziaria, come tutti i creditori, pretende di essere pagata. Abbandonata, di fatto, la speculazione sulle azioni delle imprese, si è concentrata sui titoli sovrani (e sulle banche che li possiedono). Un’attenzione particolare viene esercitata sui titoli dei paesi con governi «deboli». Deboli perché non in grado né di combattere la speculazione con armi efficaci, né perché possono opporsi alla pressione per imporre sacrifici ai rispettivi popoli per pagare i debiti (riduzione di salari e pensioni; cancellazione dei servizi sociali; licenziamenti ecc.).
Tale debolezza si misura con il fatto che questi Stati privilegiano il debito pubblico rispetto ad altri debiti come quelli nei riguardi dei lavoratori e delle popolazioni. Lo Stato contrae un debito non solo verso chi gli presta denari, ma ha anche verso la popolazione (sanità, scuola e welfare), contrae debiti nei riguardi dei suoi dipendenti, dei pensionati, per garantire la cultura, il paesaggio. Privilegiare un debitore appartiene alla fattispecie della «bancarotta preferenziale» perseguita penalmente.
Ma pagare o non pagare è una questione esclusivamente politica. Se i connotati del «nuovo» capitalismo fossero quelli descritti prima, allora la società mondiale si avvia a trasformare il triangolo, rappresentativo della scala delle diseguaglianze, in una «clessidra»: nella bolla superiore, più piccola, si collocano i «ricchi», speculatori e no, e chi a quelli risultano funzionali; nella bolla inferiore un’umanità impoverita, privata dei diritti, ribellista e oppressa con violenza.
Se questa pare una prospettiva da accettare allora bisogna pagare; i provvedimenti che si stanno prendendo di fatto alimentano la speculazione, offrendole carne fresca su cui affondare i denti; né la tassazione sulle intermediazioni e gli altri provvedimenti allo studio serviranno, la massa di risorse finanziarie che la speculazione muove è tale da non essere intaccata che lievemente.
Ci sono indizi che suggeriscono che questa sia la strada che si sta percorrendo: tra il 1981 e il 2011 le imposte sugli scaglioni di reddito più alti sono fortemente diminuite (Francia dal 60% al 40%; Germania dal 55% al 43%; Gran Bretagna dal 60 al 52%; Italia dal 68 al 41%; Usa dal 65% al 33%); il «capitalista» più ricco della Repubblica popolare cinese si appresta a entrare nel Comitato centrale del partito comunista cinese; il capo delle strategie della JP Morgan Chase, ha dichiarato che «i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari»; secondo la rivista «Forbes» il mondo ha 1011 miliardari di persone con più di un miliardo, nello scorso anno, solo il 12% hanno visto le loro fortune declinare (per loro la crisi è un ingrasso; i primi dieci hanno incrementato il loro patrimonio di 42 miliardi di $). Mentre le nuove povertà si sommano alle vecchie.
Non pagare il debito è una scelta politica che un governo alternativo a quello attuale dovrebbe prendere. E la vedova con il suo Bot da cui semestralmente stacca la cedola per sopravvivere, vogliamo farla morire di inedia, ipocrisie e opportunismi?
Il debito pubblico italiano è detenuto per il 56% in Italia e per il 44% all’estero; per lo più da istituzioni bancarie e assicurative italiane e straniere, gli investitori individuali italiani ne detengono solo il 14% e tra questi c’è la «vedova». Non pagare si può fare in tanti modi: con un concordato, garantendo ai creditori non più del 25% di quanto dovuto (così fanno le imprese sull’orlo del fallimento); ai possessori individuali, con un massimale di capitale da stabilire, si possono garantire interessi e rimborsi interi, o si può chiudere il rubinetto dei pagamenti, provvedendo in modo diverso alla «vedova». Dipende dalla forza politica del governo e soprattutto della sua linea strategica.
Colpire le «tasche» degli speculatori è l’unico modo per combatterli e perché l’economia possa riprendersi su basi diverse; questa non può fondarsi sui meccanismi noti e sulle imprese che conosciamo, né tanto meno sulle banche così come sono. I provvedimenti presi e allo studio sono finalizzati a salvare la speculazione e le banche che a quella tengono il sacco. Si tratta, al contrario, di affermare un modello diverso, di produzione e di società, che garantisca democrazia, libertà, equità, salvaguardia dell’ambiente e cultura, e la possibilità di godere delle nuove frontiere della scienza e della tecnologia.
La questione oggi si pone in modo diverso che nel passato: mentre il capitalismo, fino a ieri, pur nelle sue iniquità, violenze e sfruttamento, garantiva sviluppo (squilibrato socialmente e geograficamente), oggi tutto è mutato, niente è come nel passato, le peggiori fantasie della fantascienza e dei disastri climatici bussano alla porta.
Siamo al bivio: o la dilatazione, senza ipocrisie, della violenza di Stato e la chirurgia della guerra o la modifica della società, anche se questa avrà tempi non immediati di elaborazione e di affermazioni (le proteste mondiali di questi giorni fanno ben sperare almeno su una presa di coscienza).
È il cambiamento dell’impresa, del rapporto sociale di produzione, del lavoro, della qualità della democrazia, della libertà individuale – con un reddito garantito per tutti e un limite ai guadagni individuali – a dover costituire il traguardo strategico, da sperimentare e da inventare quotidianamente in solidarietà con l’umanità tutta. Non ci sono ricette, ma ci vuole forza, intelligenza e pazienza.
O il «niente sarà come prima» avrà questa dimensione politica e sociale o rappresenterà un modo per addomesticare l’intelligenza dei popoli. L’economia soccomberà ad un atto dell’immaginazione (R. Ford citato in E. Nesi, Storia della mia gente).

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