La
ripetizione che niente è, e sarà, come prima non corrisponde alla
consapevolezza che la formazione sociale capitalistica è cambiata. Il
capitalismo pare abbia concluso la sua fase «rivoluzionaria», e come
l’apprendista stregone non riesce a governare le forze che ha evocato.
Questione
che può essere affrontata da diversi punti di vista e che qui si affronta, in
forma molto semplificata, dal punto di vista della trasformazione del denaro in
capitale (Marx, Il Capitale, Libro primo).
Dal
«Sole 24 Ore» del 6 agosto si ricavano i seguenti dati di valore riferiti al
2010 del sistema mondo:
La produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al
13% degli strumenti finanziari (economia di carta), tenendo fuori da questo
calcolo il valore delle Borse che, ci si può illudere, hanno riferimento con
l’economia reale. Detto in altro modo, quello che uomini e donne producono, in
tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della «ricchezza»
finanziaria che circola.
Si
tratta del fenomeno della finanziarizzazione dell’economia, un tema non
nuovissimo (già esplorato da Hilferding nel 1910) ma che negli ultimi
trent’anni ha avuto un’esplosione e si è reso autonomo rispetto al capitale
produttivo. È proprio la sua dimensione e la sua autonomia che rende teso e,
apparentemente, conflittuale il legame tra apparati dello Stato e capitale
finanziario.
I dati
precedenti non possono scandalizzarci, ma non sono indifferenti; essi indicano
una trasformazione di fondo del capitalismo.
Il
processo di trasformazione del denaro in capitale si fonda sul processo di
trasformazione del denaro in merce e quindi in denaro (in formula marxiana:
D-M-D*; dove D* è maggiore di D). Questa relazione ha costituito il tratto
«rivoluzionario» del capitale (inteso come rapporto sociale); essa sussiste
ancora (riguarda la produzione di merci e servizi, anche con forti
trasformazioni), ma è largamente sovrastata da un processo che possiamo
descrivere come basato su D-D-D (denaro-denaro-denaro). Nel processo definito
dalla relazione D-M-D* era implicito, come è noto, il rapporto di sfruttamento, che storicamente i lavoratori hanno
contrastato. Il capitale nella sua azione «creava» un antagonista che gli
sottraeva risorse ma che era anche uno stimolo al raggiungimento di nuove
frontiere di sviluppo, di avanzamenti tecnologici e organizzativi. Nello stesso
tempo questo «antagonista» riusciva attraverso la sua azione sindacale e
politica a conquistare diritti di cittadinanza sempre più estesi. Questa
dinamica, che è stata positiva per lungo tempo, si avvantaggiava di una
relazione triangolare capitale-lavoro-Stato nella quale la pressione del
«lavoro», sia a livello sindacale che politico, sebbene spesso differenziata,
esprimeva la rivendicazione del «diritto» a una società migliore e dove il
«capitale» accollava allo Stato detti miglioramenti per alleggerire la
pressione del lavoro su di sé.
Quanto
detto è sicuramente una semplificazione, ma utile per leggere quello che pare
un cambiamento di fondo. Nel Novecento si possono contare diverse «crisi», per
ciascuna delle quali è possibile individuare una «spiegazione», ma cosa succede
nella società con il prevalere del processo D-D-D (senza dimenticare la crisi
che di quel processo è figlia)?
Simultaneamente
tre cose che tendono a cambiano la natura della società:
– è il «gioco» nel mercato
finanziario che costituisce la componente principale della produzione di
«ricchezza»;
– il «capitale» finanziario è
impalpabile, non ha carne e ossa visibili. Non può essere contrastato da chi ne
subisce gli effetti negativi (la
popolazione); è «impersonale», è un indice di borsa, contro di esso non si può
scioperare (si possono rompere le vetrine come atto simbolico, ma non di più).
Diventa un’entità metafisica ma pesante sulla vita di ciascuno;
– la relazione triangolare, poiché
il capitale finanziario non ha «corpo» si frantuma; lo Stato, sulla base
dell’apparato ideologico (il mercato, il debito ecc.), è spinto a «opprimere»
il popolo per soddisfare la bramosia di quello (avviene in tutti i paesi – i
debiti sovrani – con l’aggiunta esplicita degli apparati repressivi già in
Grecia).
Il
debito Italiano
Il
debito dello Stato ammonta a 1900 miliardi di euro (il 119% del Pil); un
debito, secondo molti, che dipende dal fatto che il paese ha vissuto al di
sopra delle sue possibilità. Ma sarà vero? Facciamo un po’ di conti, anche se
semplificati.
Il
mancato gettito dell’evasione fiscale è pari a 120 miliardi di euro annui. Una
seria politica di contrasto avrebbe potuto ridurre almeno alla metà il mancato
gettito; negli ultimi dieci anni questo avrebbe significato entrate per 600
miliardi, e quindi una diminuzione della stessa cifra del debito.
La
voce «corruzione», assumendo la valutazione della Corte dei Conti, comporta un
costo per lo Stato di 50-60 miliardi annui; una seria lotta alla corruzione
avrebbe significato minore spese in dieci anni di 550 miliardi, con una minore spesa dello Stato e una riduzione della stessa cifra del
debito.
È
difficile valutare l’elusione, di cui un importante ex ministro sembra essere
il maggior esperto, ma tra scudi e condoni la cifra non deve essere modesta se
oggi si discute di un condono edilizio e fiscale per recuperare 35 miliardi di
euro. In dieci anni, molto prudentemente, si può valutare in almeno 150 miliardi
di euro le minore entrate.
Si
potrebbe continuare tentando un calcolo degli sprechi effettuati per contentare
l’arroganza di qualche politico (aeroporti inutili, strade che finiscono nel
nulla ecc.), per l’incapacità progettuale che facilita la corruzione (ospedali
non finiti, la famosa Salerno-Reggio Calabria ecc.), il costo della «politica»,
qualsiasi cosa si intenda esso è superiore alla media europea. Ma lasciamo
stare.
Ecco
a questo punto che i 1.900 miliardi di debito oggi, a spese immutate, avrebbero
potuto essere pari a (1900 – 600 – 550 – 150) 600 miliardi di euro (38% del
Pil). Con questo non si vuole negare l’esistenza del debito, ma negare che esso
sia il frutto del costo troppo alto dei diritti di cittadinanza (scuola,
salute, casa, pensioni, ammortizzatori sociali ecc.). Esso è il risultato del
colposo e doloso comportamento dei nostri governanti, che niente o poco hanno
fatto per guarire la società italiana di alcuni suoi cancri come l’evasione e
la corruzione; al contrario questi comportamenti sono stati giustificati
(dichiarando che le tasse erano troppo alte), promossi (attraverso i condoni) o facilitati (ancora si
aspetta la legge anticorruzione).
Pagare
o non pagare?
La
speculazione finanziaria, come tutti i creditori, pretende di essere
pagata. Abbandonata, di fatto, la speculazione sulle azioni delle imprese, si è
concentrata sui titoli sovrani (e sulle banche che li possiedono).
Un’attenzione particolare viene esercitata sui titoli dei paesi con governi
«deboli». Deboli perché non in grado né di combattere la speculazione con armi
efficaci, né perché possono opporsi alla pressione per imporre sacrifici ai
rispettivi popoli per pagare i debiti (riduzione di salari e pensioni;
cancellazione dei servizi sociali; licenziamenti ecc.).
Tale
debolezza si misura con il fatto che questi Stati privilegiano il debito
pubblico rispetto ad altri debiti come quelli nei riguardi dei lavoratori e
delle popolazioni. Lo Stato contrae un debito non solo verso chi gli presta
denari, ma ha anche verso la popolazione (sanità, scuola e welfare), contrae
debiti nei riguardi dei suoi dipendenti, dei pensionati, per garantire la
cultura, il paesaggio. Privilegiare un debitore appartiene alla fattispecie
della «bancarotta preferenziale» perseguita penalmente.
Ma
pagare o non pagare è una questione esclusivamente politica. Se i connotati del
«nuovo» capitalismo fossero quelli descritti prima, allora la società mondiale
si avvia a trasformare il triangolo, rappresentativo della scala delle diseguaglianze, in una «clessidra»: nella bolla superiore, più
piccola, si collocano i «ricchi», speculatori e no, e chi a quelli risultano
funzionali; nella bolla inferiore un’umanità impoverita, privata dei diritti,
ribellista e oppressa con violenza.
Se
questa pare una prospettiva da accettare allora bisogna pagare; i provvedimenti
che si stanno prendendo di fatto alimentano la speculazione, offrendole carne
fresca su cui affondare i denti; né la tassazione sulle intermediazioni e gli
altri provvedimenti allo studio serviranno, la massa di risorse finanziarie che
la speculazione muove è tale da non essere intaccata che lievemente.
Ci
sono indizi che suggeriscono che questa sia la strada che si sta percorrendo:
tra il 1981 e il 2011 le imposte sugli scaglioni di reddito più alti sono
fortemente diminuite (Francia dal 60% al 40%; Germania dal 55% al 43%; Gran
Bretagna dal 60 al 52%; Italia dal 68 al 41%; Usa dal 65% al 33%); il
«capitalista» più ricco della Repubblica popolare cinese si appresta a entrare
nel Comitato centrale del partito comunista cinese; il capo delle strategie
della JP Morgan Chase, ha dichiarato che «i margini di profitto sono ai massimi
storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari»;
secondo la rivista «Forbes» il mondo ha 1011 miliardari di persone con più di
un miliardo, nello scorso anno, solo il 12% hanno visto le loro fortune
declinare (per loro la crisi è un ingrasso; i primi dieci hanno incrementato il loro patrimonio di 42 miliardi di $). Mentre le nuove povertà si
sommano alle vecchie.
Non
pagare il debito è una scelta politica che un governo alternativo a quello
attuale dovrebbe prendere. E la vedova con il suo Bot da cui semestralmente
stacca la cedola per sopravvivere, vogliamo farla morire di inedia, ipocrisie e
opportunismi?
Il
debito pubblico italiano è detenuto per il 56% in Italia e per il 44%
all’estero; per lo più da istituzioni bancarie e assicurative italiane e
straniere, gli investitori individuali italiani ne detengono solo il 14% e tra
questi c’è la «vedova». Non pagare si può fare in tanti modi: con un
concordato, garantendo ai creditori non più del 25% di quanto dovuto (così
fanno le imprese sull’orlo del fallimento); ai possessori individuali, con un
massimale di capitale da stabilire, si possono garantire interessi e rimborsi
interi, o si può chiudere il rubinetto dei pagamenti, provvedendo in modo
diverso alla «vedova». Dipende dalla forza politica del governo e soprattutto
della sua linea strategica.
Colpire
le «tasche» degli speculatori è l’unico modo per combatterli e perché
l’economia possa riprendersi su basi diverse; questa non può fondarsi sui
meccanismi noti e sulle imprese che conosciamo, né tanto meno sulle banche così
come sono. I provvedimenti presi e allo studio sono finalizzati a salvare la
speculazione e le banche che a quella tengono il sacco. Si tratta, al
contrario, di affermare un modello diverso, di produzione e di società, che
garantisca democrazia, libertà, equità, salvaguardia
dell’ambiente e cultura, e la possibilità di godere delle nuove frontiere della
scienza e della tecnologia.
La
questione oggi si pone in modo diverso che nel passato: mentre il capitalismo,
fino a ieri, pur nelle sue iniquità, violenze e sfruttamento, garantiva
sviluppo (squilibrato socialmente e geograficamente), oggi tutto è mutato,
niente è come nel passato, le peggiori fantasie della fantascienza e dei
disastri climatici bussano alla porta.
Siamo
al bivio: o la dilatazione, senza ipocrisie, della violenza di Stato e la
chirurgia della guerra o la modifica della società, anche se questa avrà tempi
non immediati di elaborazione e di affermazioni (le proteste mondiali di questi
giorni fanno ben sperare almeno su una presa di coscienza).
È
il cambiamento dell’impresa, del rapporto sociale di produzione, del lavoro,
della qualità della democrazia, della libertà individuale – con un reddito
garantito per tutti e un limite ai guadagni individuali – a dover costituire il
traguardo strategico, da sperimentare e da inventare quotidianamente in
solidarietà con l’umanità tutta. Non ci sono ricette, ma ci vuole forza,
intelligenza e pazienza.
O
il «niente sarà come prima» avrà questa dimensione politica e sociale o
rappresenterà un modo per addomesticare l’intelligenza dei popoli. L’economia
soccomberà ad un atto dell’immaginazione (R. Ford citato in E. Nesi, Storia
della mia gente).
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