Di ora in ora, la crisi dilaga e rivela la sua natura sistemica.
Se mai il tentativo di Monti riuscirà, non sarà certamente in virtù della novità delle sue ricette economiche, in fondo comuni alla destra liberista di tutto il mondo, ma alla sua vicinanza con il management politicoeconomico europeo, che non ha mai accettato Berlusconi, sia per la sua storia personale, sia per l’incapacità vera e propria.
Se mai il tentativo di Monti riuscirà, non sarà certamente in virtù della novità delle sue ricette economiche, in fondo comuni alla destra liberista di tutto il mondo, ma alla sua vicinanza con il management politicoeconomico europeo, che non ha mai accettato Berlusconi, sia per la sua storia personale, sia per l’incapacità vera e propria.
Ma davvero Monti riuscirà? C’è proprio da dubitarne. Lo spread con i Btp non è una questione teorica o sportiva. Segnala semplicemente come la speculazione internazionale, condotta da un nocciolo di una decina di grandi banche e fondi d’investimento su un centinaio veramente potenti su scala globale, scommette cinicamente sull’avvitamento del debito italiano. E questo comporta un aumento degli interessi ecc. Se all’Italia non capiterà il destino della Grecia e quello prevedibile dell’Ungheria, almeno nel breve periodo, è perché il volume dell’economia italiana è talmente rilevante da trascinare con sé, in un crollo eventuale, il resto del continente, se non del mondo. In mancanza, tuttavia, di un’altra gestione della crisi, non solo meno angusta di quella attuale, ma anche diversa, e cioè attenta alla dimensione sociale della crisi, e non solo alla finanza, vivremo mesi se non anni di depressione e di ansia.
Qui si rivela un vero e proprio paradosso. Si pensi alla dimensione della disoccupazione in Europa. In poco meno di cinque anni, dal 2007, è salita dal 7,5 % all’attuale 10, con punte del 20% in Spagna e una media del 15% nei paesi dell’Est. E non parliamo della disoccupazione giovanile dilagante. Eppure, questo dato sembra contare poco rispetto al feticcio del debito pubblico. Ma noi sappiamo che la disoccupazione non solo deprime la crescita e quindi influenza l’aumento del debito, ma è il terreno di coltura della disgregazione sociale.
Numerosi segnali, apparentemente scollegati tra loro, indicano un incancrenimento dei conflitti microsociali in tutta Europa, il dilagare della xenofobia, la fortuna dell’estremismo di destra e non solo nei paesi più colpiti, ma anche in quelli apparentemente “sicuri”. Come sempre, il conflitto assume forme imprevedibili. Ci siamo già dimenticati dei riot in Inghilterra, così apparentemente irrazionali, e subito rimossi dai nostri solerti liberisti?
Ma consideriamo soltanto la cronaca nera di questi giorni. Non parlo tanto dell’aumento numerico di omicidi e suicidi, che oggi non possiamo valutare realisticamente, quanto del loro significato.
Qui si rivela un vero e proprio paradosso. Si pensi alla dimensione della disoccupazione in Europa. In poco meno di cinque anni, dal 2007, è salita dal 7,5 % all’attuale 10, con punte del 20% in Spagna e una media del 15% nei paesi dell’Est. E non parliamo della disoccupazione giovanile dilagante. Eppure, questo dato sembra contare poco rispetto al feticcio del debito pubblico. Ma noi sappiamo che la disoccupazione non solo deprime la crescita e quindi influenza l’aumento del debito, ma è il terreno di coltura della disgregazione sociale.
Numerosi segnali, apparentemente scollegati tra loro, indicano un incancrenimento dei conflitti microsociali in tutta Europa, il dilagare della xenofobia, la fortuna dell’estremismo di destra e non solo nei paesi più colpiti, ma anche in quelli apparentemente “sicuri”. Come sempre, il conflitto assume forme imprevedibili. Ci siamo già dimenticati dei riot in Inghilterra, così apparentemente irrazionali, e subito rimossi dai nostri solerti liberisti?
Ma consideriamo soltanto la cronaca nera di questi giorni. Non parlo tanto dell’aumento numerico di omicidi e suicidi, che oggi non possiamo valutare realisticamente, quanto del loro significato.
Gente che si suicida perché deve rimborsare 50 euro al mese all’Inps. Disoccupati, ma anche piccoli imprenditori, che non ce la fanno più e si tolgono la vita. Una litigiosità avvertibile soltanto facendo dei giri per le città. Una malavita strutturata o occasionale che punta su obiettivi economicamente modesti come i cinesi di Roma. D’altronde, pensare che la crisi sia una questione di numeri senza effetto sulla vita sociale è una sciocchezza colossale, che pure è all’opera nel modo in cui i media, i politici e gli amministratori locali trattano le “emergenze” criminali, come se fossero esplosioni d’irrazionalità e non epifenomeni di un malessere ben più profondo.
In questo quadro, l’unanimismo che sorregge il governo Monti, gli appelli convenzionali all’unità nazionale, i ritualismi di gran parte del sindacato, la mancanza di opposizione politica, la generale spoliticizzazione della società a favore della preminenza delle questioni tecnico- economiche, non lasciano solo il tempo che trovano. Diventano un fattore aggravante della crisi e della disgregazione.
Infatti, quello che la società politica oggi teme di più, il conflitto organizzato, ma sì, di classe - esorcizzato in tutti i modi possibili dai nostri Soloni delle prime pagine - non è solo una difesa collettiva degli interessi e delle esistenze, è anche una produzione di socialità, un esperimento di solidarietà reale, per quanto avvenga in forme e luoghi nuovi o marginali, che so, salendo in cima a una gru, o bloccando una strada o un aeroporto. In fondo, è un antidoto alla disgregazione della vita di tutti i giorni causata dalla crisi.
Negli anatemi che accolgono i sintomi di conflitto che oggi si moltiplicano c’è oggi una cecità che lascia senza parole. Tutti a interrogarsi sull’insicurezza urbana, tutti a deplorare gli incidenti nelle manifestazioni di strada o a invitare gli operai ad accettare soavemente il loro destino. E così pochi a capire che la gestione tecnocratica e unanimistica della crisi sta spargendo dei veleni che resteranno nel tempo. La tecnocrazia è una risposta puramente di facciata alla crisi del capitalismo liberista. La politica, oggi, non abita certamente in parlamento. Sta a noi coglierne i sintomi apparentemente dispersi
In questo quadro, l’unanimismo che sorregge il governo Monti, gli appelli convenzionali all’unità nazionale, i ritualismi di gran parte del sindacato, la mancanza di opposizione politica, la generale spoliticizzazione della società a favore della preminenza delle questioni tecnico- economiche, non lasciano solo il tempo che trovano. Diventano un fattore aggravante della crisi e della disgregazione.
Infatti, quello che la società politica oggi teme di più, il conflitto organizzato, ma sì, di classe - esorcizzato in tutti i modi possibili dai nostri Soloni delle prime pagine - non è solo una difesa collettiva degli interessi e delle esistenze, è anche una produzione di socialità, un esperimento di solidarietà reale, per quanto avvenga in forme e luoghi nuovi o marginali, che so, salendo in cima a una gru, o bloccando una strada o un aeroporto. In fondo, è un antidoto alla disgregazione della vita di tutti i giorni causata dalla crisi.
Negli anatemi che accolgono i sintomi di conflitto che oggi si moltiplicano c’è oggi una cecità che lascia senza parole. Tutti a interrogarsi sull’insicurezza urbana, tutti a deplorare gli incidenti nelle manifestazioni di strada o a invitare gli operai ad accettare soavemente il loro destino. E così pochi a capire che la gestione tecnocratica e unanimistica della crisi sta spargendo dei veleni che resteranno nel tempo. La tecnocrazia è una risposta puramente di facciata alla crisi del capitalismo liberista. La politica, oggi, non abita certamente in parlamento. Sta a noi coglierne i sintomi apparentemente dispersi
Nessun commento:
Posta un commento