venerdì 13 gennaio 2012

Un urlo per tre sconfitte- Tommaso Di Francesco - il manifesto

Perché decidere di cadere dalla padella nella brace? Mai più Berlusconi. Ma basta anche Monti. Al punto in cui stanno le cose, qualsiasi scelta di ricorso alle urne, cioè democratica, è meglio del «governo di tutti e di nessuno» di cui si vanta Monti per accelerare la ricetta ultra-neoliberista che sta propinando alla società italiana, con altra etichetta e altro «stile»
Metalli urlanti a fumetti, i versi del poema di Kerouac e un grido lacerante e concreto. Che altro ci resta se non un urlo, di fronte alle sconfitte attuali? Ne intravediamo almeno tre, che ci camminano addosso con andatura tragicomica.
La prima sconfitta macroscopica che stiamo subendo corrisponde alla prima vittoria conseguita dal fronte neoliberista: l’avere diffuso la convinzione che la crisi sia nostra responsabilità. Se crolla la borsa e le banche, se lo spread sale, è colpa della spesa pubblica e delle pensioni. Cioè è responsabilità del salario differito accantonato dai lavoratori in una esistenza di sfruttamento subalterno, ed è colpa del bilancio di una Asl che, magari in rosso, è comunque capace di garantire la carrozzella all’handicappato e l’assistenza domiciliare. Il tutto – ecco il tragicomico – messo sullo stesso piano della spesa pubblica per acquistare strumenti di morte e di guerra a favore di alleanze militari senescenti e costosissime, come per i famigerati 133 bombardieri F-35 che anche questo governo, in perfetta continuità con il precedente e con l’avallo del centrosinistra che lo sostiene, vuole comprare per ben 15 miliardi, quasi il costo dell’intera manovra “tecnicamente” avviata. Eppure è lo stesso Monti che, intervistato in tv dal tiepido Fazio, ammette che la crisi finanziaria dei mercati è nata nella «fase Reagan-Thatcher quando la finanza è diventata quasi una entità a se stante e soprattutto negli Usa. Molto meno in Europa, dove pure chi gestiva la finanza è stato talmente riverito anche dal potere politico che non si è pensato a regole stringenti…». Insomma, anche per il presidente del Consiglio Monti c’è stata una fase nella quale i politici andavano con il cappello in mano dai mercati, favorendo le politiche di deregolamentazione che hanno prodotto la profonda crisi economica-finanziaria attuale. È lì che, come in uno scavo archeologico, ha avuto origine la crisi, esplosa poi nel 2008 con la bolla speculativa finanziaria Usa dei subprime, per poi arrivare precipitosamente in Europa. Una crisi così profonda e vasta da coinvolgere i colossi portanti del sistema neoliberista americano, tanto che Obama per rimediare ha dovuto nazionalizzare la General Motors che da impresa produttiva aveva cominciato ad emettere obbligazioni finanziarie, insieme alle prime nove banche del paese che erano semplicemente crollate (a partire dalla Goldman Sachs). Vale a dire con una iniziativa dello Stato, con l’iniezione di denaro pubblico ingente, investito per salvare gli Stati uniti e insieme il sistema neoliberista. Con un intervento certo non completamente keynesiano o rooseveltiano, visto che le banche non sono state messe sotto controllo e sono tornate a speculare come facevano prima. Ma questo è accaduto. Come dimenticarlo?
Per quel che riguarda la crisi economica, siamo insomma «fuori mercato», anzi si sono intraprese iniziative di «socialismo», come denuncia Slavoj Zizek, ma naturalmente solo «per i soli ricchi e i potenti». Ma allora perché nessuno grida allo scandalo ogni volta che Monti dichiara: «Questo ci chiedono i mercati…»? O quando il sottosegretario Catricalà dice: «Questo si aspettano i mercati», annunciando le nuove liberalizzazioni? Con le quali, con una prova teatrale di forza, verranno ridimensionati tabaccai e farmacie ma per puntare a riprivatizzare, «liberalizzare», le grandi aziende dell’energia e tornare prepotentemente sull’acqua, sulla «rete idrica», aggirando la volontà popolare del referendum che ha detto che l’acqua è bene pubblico. Alla fine avremo più farmacie per medicalizzare il disagio sociale e più taxi mentre i trasporti pubblici diventeranno privati e proibitivi. Ognuno dovrebbe insorgere ogni volta che le «neutre» frasi «lo vogliono i mercati» e «lo chiedono i mercati…» vengono pronunciate: perché «i mercati» sono all’origine di questa crisi. Invocarli è spudoratamente vergognoso. Ma non basta.
Veniamo alla seconda sconfitta. Se è vero quello che annotiamo, com’è che a risolvere l’attuale crisi hanno ruolo ed autorità, rinvigoriti entrambi dalla chiamata del Colle, i «tecnici» del mercato, quelli che hanno contribuito al disastro attuale con il loro solerte impegno (con merito e prebende) ai processi di neoliberalizzazione, privatizzazione e deregolamentazione dell’economia? Perché il Colle non ha chiamato un «tecnico» diverso, magari di «Sbilanciamoci» o dell’ufficio studi della Cgil o della Fiom? Insomma, una domanda è d’obbligo: dov’è stato Monti nell’epoca che lui stesso denuncia come «la fase Reagan-Thatcher», e in questi lunghi ultimi dieci anni, se non nel Consiglio d’amministrazione della Fiat, nella Goldman Sachs e perfino tra i consulenti della Coca Cola Inc.? Non sono forse stati questi meriti privati ad esaltare la sua funzione pubblica di commissario europeo alla concorrenza di mercato? Nessuno, per favore, ci risponda che il bacio del rospo è per allontanare lo spettro dell’immorale Berlusconi: non era tanto una questione morale o giustizialista quella che riguardava il suo governo, ma un metodo satrapico, intestino alle viscere italiane, di conservazione e gestione del potere in chiave comunque neoliberista, con in più l’uso massiccio dell’immaginario massmediatico. E a negare la profondità della crisi non è stato irresponsabilmente solo Berlusconi in Italia, la stessa Bce ha lungamente fatto orecchie da mercante in Europa. E comunque, perché decidere ora in modo autolesionista di cadere dalla padella nella brace? Certo, mai più Berlusconi. Ma basta anche Monti. Al punto in cui stanno le cose, qualsiasi scelta di ricorso alle urne, vale a dire democratica, è meglio in questo momento del «governo di tutti e di nessuno» di cui si vanta Monti per accelerare la ricetta ultra-neoliberista che sta propinando alla società italiana, continuando a fare quel che faceva il governo Berlusconi ma con altra etichetta e altro «stile». E se qualcuno volesse una spiegazione su che cosa sia il neoliberismo capitalista, ricorreremmo alla precisa definizione di Pierre Bourdieu scritta su le Monde Diplomatique nel marzo del 1998: «È un programma di distruzione delle strutture collettive capaci di contrapporsi alla logica del mercato puro». Guardate come il governo tratta i sindacati, in primis Cgil e Fiom, e come mette una generazione contro l’altra, mentre si rimette in discussione l’articolo 18, puntando alla libertà di licenziare per ripristinare, ideologicamente e concretamente, il comando sul lavoro, paradossalmente proprio mentre il «capitale» non esiste più. Se non in Cina, unico luogo al mondo dove il plusvalore viene reinvestito e tutto si regge per un «capitalismo di partito», guidato dal Partito comunista cinese con l’incredibile promessa che le disuguaglianze e le violenze sociali feroci di questa epoca serviranno a costruire – quando? come? perché? – la fase primitiva del socialismo cinese. In Italia siamo davvero alla necessità di liberalizzare i licenziamenti? Come se un milione e mezzo di lavoratori non fosse stata licenziata in questi ultimi anni e non bisognasse puntare proprio al contrario sul controllo del processo produttivo a partire dal suo regime di proprietà, come sta scritto sulla Costituzione, e ad estendere il welfare contro la disoccupazione, sia dei giovani che dei non giovani.
A tutto questo rispondono con una massiccia autoproduzione ideologico-industriale. Proprio quando il capitalismo d’impresa non esiste più, se non sorretto da investimenti pubblici globali. Che altro è, infatti, il ruolo internazionale di Marchionne se non quello di una «agenzia» privata che pubblicamente drena risorse e denaro dai governi e dagli stati, per poi aprire strutture produttive solo sulla base della riduzione dei costi, di attacco al salario e di crescita di una produttività di mercato, quello dell’auto, ormai storicamente fallimentare e quindi da regolamentare? Sarebbe ora di sostituirlo e aprire un’altra agenzia. Forse intorno a questi temi non più solo difensivi una iniziativa di movimento anche sindacale dovrebbe cominciare ad attivarsi. Non è solo una incitazione. È un urlo. Perché, prima o poi, se su questi contenuti non si attiva una nuova sinistra politica e sociale, arriverà la destra a movimentarsi e a decidere. La svolta autoritaria in Ungheria altro non è che la risposta populista-statalista ed etnico-razzista alla crisi di legittimità dell’Unione europea: è la risposta reazionaria alle promesse mancate arrivate dall’Occidente a partire dall’89.
Ed ecco allora la terza sconfitta. È passata l’idea che, nonostante la disfatta, tutto sia fortunatamente in movimento, come ha proposto una copertina del Time: il 2011 come l’anno dei «movimenti» da candidare ad un Nobel non meglio specificato. Con il rischio di considerare tutti omologhi e già adeguati alla crisi del neoliberismo: lo straordinario e unico “Occupy Wall Street”, che ha come parola d’ordine che il 99% della popolazione non paghi la crisi provocata dall’1%, omologo delle proteste di Mosca contro Putin, le marce di Kiev contro il processo alla Tymoshenko come gli scioperi degli operai cinesi nel Guangdondg, gli indignati spagnoli e i riot di Londra come le passate primavere arabe, la protesta contro il fascismo di stato di Orban a Budapest come il movimento contro la Tav e la rivolta studentesca in Cile…Tutto giornalisticamente identico. Tutto indistinguibile, quanto a soggetti sociali e proposta politica. La crisi è talmente profonda che addirittura Monti ha agitato davanti alla Merkel e alla Ue lo spauracchio di una «protesta populista che esploderà» senza contropartite della Ue. Diamogli torto: organizziamo la protesta di massa contro il neoliberismo e contro un’Europa diventata la terra della “democrazia senza democrazia”. Ora che grande è la confusione sotto il cielo ma la situazione è tutt’altro che eccellente.


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