Caselli l'ha fatta così grossa, sul piano
strettamente giuridico e politico, che non poteva non essere notato.
Livio Pepino, magistrato e democratico, glielo fa notare in punta di
diritto.
Gli arresti non tornano
L'emissione,
nei giorni scorsi, della misura cautelare nei confronti di alcune
decine di esponenti No Tav per fatti avvenuti sette mesi fa non è una
forzatura soggettiva (e, anche per questo, sono sbagliate le polemiche e
gli attacchi personali). È qualcosa di assai più grave: una tappa della
trasformazione dell'intervento giudiziario da mezzo di accertamento e
di perseguimento di responsabilità individuali (per definizione
diversificate) a strumento per garantire l'ordine pubblico. Provo a
spiegarmi con qualche esempio.
Primo. Non era in discussione - e non lo è, almeno
per me - la necessità di effettuare le indagini necessarie ad accertare
le responsabilità per reati commessi nel corso delle manifestazioni. Ma
non è indifferente il modo in cui ciò è avvenuto. Cominciamo dalle
misure cautelari. Non erano obbligatorie e, dunque, la loro emissione è
stata una scelta discrezionale. Di più, i reati contestati consentono,
in astratto e con il bilanciamento di aggravanti e attenuanti, la
sospensione condizionale della pena o l'accesso immediato a misure
alternative al carcere.
Dunque la regola era procedere con gli indagati in condizioni di libertà. Perché, allora, la scelta dell'arresto?
L'ordinanza del giudice per le indagini preliminari lo dice quasi con candore: «I lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati; peraltro, il movimento No Tav ha pubblicamente preannunciato ulteriori iniziative per contrastare i lavori». L'indicazione del movimento No Tav e della sua azione di protesta come bersaglio della misura non potrebbe essere più esplicita.
Dunque la regola era procedere con gli indagati in condizioni di libertà. Perché, allora, la scelta dell'arresto?
L'ordinanza del giudice per le indagini preliminari lo dice quasi con candore: «I lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati; peraltro, il movimento No Tav ha pubblicamente preannunciato ulteriori iniziative per contrastare i lavori». L'indicazione del movimento No Tav e della sua azione di protesta come bersaglio della misura non potrebbe essere più esplicita.
Secondo. C'è nel diritto penale, e prima
ancora nella civiltà giuridica, un principio di fondo secondo cui la
responsabilità è personale e va graduata in base alle caratteristiche
dei fatti. Nell'ordinanza, al contrario, il giudizio su ciò che è
accaduto nei pressi del cantiere della Maddalena il 27 giugno e il 3
luglio dell'anno scorso si sovrappone in toto alle condotte individuali.
Si parte, certo, dall'analisi dei fatti attribuiti a ciascuno ma poi,
quasi subito, questo riferimento scompare. Così - avendo come
riferimento alcuni frammenti degli scontri avvenuti in quelle giornate -
si definiscono «gravi», al punto da giustificare l'arresto, condotte
come «afferrare per un braccio un operatore di polizia allo scopo di
ostacolarne l'avanzata» o «far parte del gruppo di manifestanti accorsi
con una paratia mobile per ostruire il passaggio». Di più, queste
condotte, accompagnate dal «permanere nel contesto degli scontri»,
comportano la contestazione di lesioni in danno di 50 agenti, dovendo
ritenersi «superflua l'individuazione dell'oggetto specifico che ha
raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell'ordine rimasto
ferito, come lo è l'individuazione del manifestante che l'ha lanciato,
atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i
reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel
frangente, nel luogo dove si trovavano».
Terzo. Per valutare i fatti è
necessario collocarli nel contesto in cui avvengono. E invece,
nell'ordinanza, il contesto scompare. Sparisce la complessità di due
giornate convulse in cui è accaduto di tutto: anche la commissione di
reati ma, a fianco e contestualmente, una grande mobilitazione il cui
fine non era aggredire le forze di polizia ma ostacolare l'apertura e
disturbare la realizzazione di un cantiere ritenuto illegittimo.
Spariscono gli "scontri" e tutto si riduce - a dispetto della realtà - a
una aggressione collettiva e preordinata nei confronti un bersaglio
considerato fisso, immobile e inattivo. Sparisce il lancio - fittissimo -
di lacrimogeni, al punto che il possesso di fazzoletti, occhialini,
maschere antigas, limoni e finanche farmaci viene considerato come
«elemento fortemente indiziante la preordinazione e il perseguimento di
un unico, comune, obiettivo» violento anziché come mezzo per proteggersi
dal fumo e dai gas e che tutto è decontestualizzato con conseguente
assimilazione di fatti diversi (mentre non sono, all'evidenza, la stessa
cosa un gesto isolato di rabbia o reazione e una condotta aggressiva
preordinata e protratta nel tempo).
Tanto basta per segnalare che la questione riguarda direttamente il rapporto tra conflitto sociale e giurisdizione e non solo - come si cerca di accreditare - alcune frange isolate ed estremiste.
Tanto basta per segnalare che la questione riguarda direttamente il rapporto tra conflitto sociale e giurisdizione e non solo - come si cerca di accreditare - alcune frange isolate ed estremiste.
Livio Pepino, da "il manifesto" del 29 gennaio
Nessun commento:
Posta un commento