Scrive il comico-padrone del Movimento Cinque Stelle:
[...] Le informazioni che ci riguardano saranno contenute in un milione di miliardi di byte di memoria. Duemila server che gestiscono 22.000 dati ogni secondo. Grazie a questa potenza di fuoco ogni singola transazione dei nostri conti verrà esaminata. Ogni versamento, ogni bonifico dovrà avere il suo perché, le sue motivazioni. Questo sarà possibile dal primo gennaio 2012, quando tutti i conti correnti saranno a disposizione del Fisco anche senza accertamenti in corso. E’ un passo avanti verso la Repubblica Italiana dei Soviet. I Grandi Evasori non transano sul conto corrente, i Grandi Corruttori non fanno bonifici. Chi ha usufruito dello Scudo Fiscale non ha dato disposizioni alla banca per un versamento di 100 milioni di euro sull’estero. Chi si vuole controllare? Il panettiere, il pensionato, l’artigiano, il piccolo imprenditore prossimo suicida perché lo Stato non gli paga le fatture? E quanto ci costa Serpico? In un Paese dove la banda larga è una misura dei pantaloni? Le transazioni sul nostro conto corrente fotografano la nostra vita: pagamenti per la scuola, per le vacanze, un prestito a un amico, la tessera annuale dei mezzi pubblici, il ristorante sotto casa. Noi e il nostro conto corrente siamo la stessa cosa. Il sapere che la mia identità, di contribuente onesto, è a disposizione di decine o centinaia di persone non mi sta bene. E’ violazione della privacy. Chi mi assicura che i miei dati personali non saranno violati? Il rapporto non è più tra me e la mia banca, ma tra me e il Fisco. Si dovrà rendere conto a un funzionario di un bonifico di 1200 euro al proprio zio? Stiamo scivolando lentamente verso il controllo totale della vita dei cittadini. Il motivo addotto è che stiamo per fallire, che dobbiamo salvare l’Italia. [...]
Che agiti i muscoli o eserciti la fantasia, contro le irruzioni
dell’agenzia delle entrate si ritrovano unti tutti i populismi d’Italia.
Berlusconi, che ha portato lo stile del comico nella politica, e
Grillo, che immerge la politica nello spartito del comico, se la
prendono con uno Stato di polizia fiscale che avrebbe mostrato il suo
gelido volto ai poveri ricchi convenuti tra le nevi di Cortina.
La questione del fisco è però seria, persino urticante per un Paese come l’Italia. Anche la nuova destra americana, quella più aggressiva del Tea Party, smuove con spregiudicatezza il tema della rivolta contro il fisco, lo fa per osteggiare ogni residuale idea di grande politica. Ma in America non si rintracciano quelle odiose pratiche occulte o palesi che rimpinguano l’economia sommersa, nera, illegale. In Italia la guerra al fisco è ben altra cosa. Quando era a Palazzo Chigi, Berlusconi fece scrivere in Gazzetta Ufficiale un bizzarro manifesto ideologico nel quale l’avversione istintuale verso il fisco veniva ricondotta ad un naturale impulso umano che in nome della libertà si ribellava al prelievo effettuato ai danni delle sacre fonti del guadagno privato.
E quante buone maniere sono state utilizzate in questi anni a favore delle gelose tasche dei ricchi, così irascibili se richiamati agli obblighi fiscali: tombali condoni, capitali scudati e regolarizzati con tassazioni irrisorie, definizione bonaria delle controversie, contrazione delle sanzioni, controlli evanescenti, estinzione gratuita dei giudizi pendenti. E quante prediche dei grandi giornali sulla fiducia tradita nel caso in cui lo Stato sull’orlo del fallimento aggiungesse ulteriori modici aggravi ai capitali scudati dei ricchi che da anni scappano dagli imperativi minimali della cittadinanza!
C’è un indubbio nesso tra la gigantesca evasione fiscale (che sottrae alla comunità 240 miliardi annui) e la decrescita dell’economia. Però si preferisce tacere dei guasti dell’economia criminogena. L’ideologia riverita è oggi quella per cui la partecipazione dei ricchi alle spese pubbliche è un becero furto e che gli ottusi conservatori di anacronistici privilegi sono i lavoratori (che per l’85 per cento coprono le entrate di uno Stato che loro non offre più nulla).
La questione del fisco è però seria, persino urticante per un Paese come l’Italia. Anche la nuova destra americana, quella più aggressiva del Tea Party, smuove con spregiudicatezza il tema della rivolta contro il fisco, lo fa per osteggiare ogni residuale idea di grande politica. Ma in America non si rintracciano quelle odiose pratiche occulte o palesi che rimpinguano l’economia sommersa, nera, illegale. In Italia la guerra al fisco è ben altra cosa. Quando era a Palazzo Chigi, Berlusconi fece scrivere in Gazzetta Ufficiale un bizzarro manifesto ideologico nel quale l’avversione istintuale verso il fisco veniva ricondotta ad un naturale impulso umano che in nome della libertà si ribellava al prelievo effettuato ai danni delle sacre fonti del guadagno privato.
E quante buone maniere sono state utilizzate in questi anni a favore delle gelose tasche dei ricchi, così irascibili se richiamati agli obblighi fiscali: tombali condoni, capitali scudati e regolarizzati con tassazioni irrisorie, definizione bonaria delle controversie, contrazione delle sanzioni, controlli evanescenti, estinzione gratuita dei giudizi pendenti. E quante prediche dei grandi giornali sulla fiducia tradita nel caso in cui lo Stato sull’orlo del fallimento aggiungesse ulteriori modici aggravi ai capitali scudati dei ricchi che da anni scappano dagli imperativi minimali della cittadinanza!
C’è un indubbio nesso tra la gigantesca evasione fiscale (che sottrae alla comunità 240 miliardi annui) e la decrescita dell’economia. Però si preferisce tacere dei guasti dell’economia criminogena. L’ideologia riverita è oggi quella per cui la partecipazione dei ricchi alle spese pubbliche è un becero furto e che gli ottusi conservatori di anacronistici privilegi sono i lavoratori (che per l’85 per cento coprono le entrate di uno Stato che loro non offre più nulla).
Sempre
più tasse per il lavoro (per finanziare il sistema previdenziale, gli
interessi per il debito pubblico) e secessione dal fisco per i ricchi:
questa fuga del capitale dallo Stato è per la destra populista il sacro
presidio di ogni libertà.
Peccato che la ricetta non funzioni. Ogni pretesa di recuperare i margini di competitività attraverso una evasione eretta a dogma determina un arresto nella crescita. Il raggiungimento del profitto grazie alle maglie compiacenti di una legislazione civilistica, aziendale e fiscale vantaggiosa abbaglia i calcoli monetari di breve raggio, ma alla lunga non regge. Aveva torto Mandeville nella sua formula per cui i vizi privati si convertono con un certo automatismo magico in pubbliche virtù. I privati vizi di una estesa fascia della società che ricorre alla evasione contributiva e al lavoro irregolare mettono una secca ipoteca per lo sviluppo. Vengono dissanguate le risorse per le politiche pubbliche, i fondi per la crescita, l’innovazione, la formazione, le tecnologie, la ricerca, la salute, la sicurezza.
Il nanocapitalismo territoriale è rimasto incantato dal verbo populista che conviveva con profitti illegali, tollerava grandi evasioni e piccoli salari e sentenziava che nessun diritto spettasse più ai dipendenti. Ha creduto di sopravvivere alterando con destrezza la concorrenza (a scapito degli stessi ceti industriali rispettosi delle regole) ma alla fine deve scontare i guasti di sistema prodotti dalla sua angusta condotta. Con occultamenti, frodi, false fatturazioni, bilanci fasulli, le imprese corsare, le persone fisiche e giuridiche sleali privano lo stesso capitale di salutari energie per la crescita, per le infrastrutture, per la competitività.
Con una evasione vicina al 10 per cento del Pil, con una economia sommersa pari al 25 per cento del Pil, è da irresponsabili evocare la lotta contro lo Stato di polizia tributaria. Ma ogni senso dello Stato manca al comico ribelle e allo statista che faceva il comico ma poi si avvaleva di condoni per le sue aziende e incassava i proventi delle detassazioni delle plusvalenze di investimenti finanziari. La lotta all’evasione (con l’emersione delle transazioni, con l’intreccio di dati e l’anagrafe dei conti correnti, con la tracciabilità e l’invio telematico degli scambi clienti-fornitori), serve per la redistribuzione della ricchezza, per ripensare gli ammortizzatori sociali, per ridare competitività al sistema economico.
Peccato che la ricetta non funzioni. Ogni pretesa di recuperare i margini di competitività attraverso una evasione eretta a dogma determina un arresto nella crescita. Il raggiungimento del profitto grazie alle maglie compiacenti di una legislazione civilistica, aziendale e fiscale vantaggiosa abbaglia i calcoli monetari di breve raggio, ma alla lunga non regge. Aveva torto Mandeville nella sua formula per cui i vizi privati si convertono con un certo automatismo magico in pubbliche virtù. I privati vizi di una estesa fascia della società che ricorre alla evasione contributiva e al lavoro irregolare mettono una secca ipoteca per lo sviluppo. Vengono dissanguate le risorse per le politiche pubbliche, i fondi per la crescita, l’innovazione, la formazione, le tecnologie, la ricerca, la salute, la sicurezza.
Il nanocapitalismo territoriale è rimasto incantato dal verbo populista che conviveva con profitti illegali, tollerava grandi evasioni e piccoli salari e sentenziava che nessun diritto spettasse più ai dipendenti. Ha creduto di sopravvivere alterando con destrezza la concorrenza (a scapito degli stessi ceti industriali rispettosi delle regole) ma alla fine deve scontare i guasti di sistema prodotti dalla sua angusta condotta. Con occultamenti, frodi, false fatturazioni, bilanci fasulli, le imprese corsare, le persone fisiche e giuridiche sleali privano lo stesso capitale di salutari energie per la crescita, per le infrastrutture, per la competitività.
Con una evasione vicina al 10 per cento del Pil, con una economia sommersa pari al 25 per cento del Pil, è da irresponsabili evocare la lotta contro lo Stato di polizia tributaria. Ma ogni senso dello Stato manca al comico ribelle e allo statista che faceva il comico ma poi si avvaleva di condoni per le sue aziende e incassava i proventi delle detassazioni delle plusvalenze di investimenti finanziari. La lotta all’evasione (con l’emersione delle transazioni, con l’intreccio di dati e l’anagrafe dei conti correnti, con la tracciabilità e l’invio telematico degli scambi clienti-fornitori), serve per la redistribuzione della ricchezza, per ripensare gli ammortizzatori sociali, per ridare competitività al sistema economico.
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