Per anni ci è stato spiegato che il mercato avrebbe perseguito il bene comune, come la «Dea bendata» della giustizia avrebbe di per sé ribilanciato i piatti della distribuzione del profitto, invece il 10 per cento del paese detiene quasi il 50 per cento delle ricchezze. Quello che stupisce è che questo non desti nessuno scandalo, anzi. L’opera di rimozione delle cause della crisi rende la crisi stessa un fenomeno straordinario ma naturale come uno tsunami che arriva imprevedibile, devasta e lascia dietro di sé macerie senza alcuna possibilità di intervenire per eliminare le cause che lo hanno scatenato. Forse l’unico sentimento che si riesce a provare per chi un lavoro lo perde o non riesce a trovarlo è un po di compassione proprio come verso le persone che hanno subito una calamità. Non può essere questa la lettura, perché così si è passati dall’incertezza del futuro alla paura del domani. La crisi economica e finanziaria che ha sconvolto le società occidentali sta presentando un conto pesantissimo per le lavoratrici, i lavoratori e i giovani nel nostro paese. Il bilancio drammatico dei suicidi dati dalla disperazione per la mancanza di speranza sul futuro dovrebbero allarmare chi nel corso degli ultimi due anni ha inforcato gli occhiali dell’eccezionalità che, con qualche azione tecnica, avrebbe nel giro di poco riattivato la crescita o se non altro almeno attenuato gli effetti del calo produttivo e dei consumi.
Il nuovo anno invece si è aperto con novità che non fanno ben sperare: le migliaia di esuberi dichiarati da Fincantieri, la mancanza di un piano industriale per la Fiat, la chiusura di uno stabilimento dell’Alcoa con cinquecento occupati a cui bisogna aggiungere l’indotto, solo per citare alcuni casi eclatanti. Inoltre, moltissime aziende hanno esaurito o stanno esaurendo gli ammortizzatori sociali con conseguenze di proporzioni ad oggi non quantificabili sull’occupazione. Il 2012 rischia di essere un anno nel segno dei licenziamenti. La crisi sta presentando un conto sociale pesante: chi un lavoro ce l’ha rischia di vederselo tolto e chi non lo ha, ha poche possibilità per trovarlo.
Pensate a chi in una ristrutturazione aziendale avendo la possibilità di accedere alla mobilità volontaria incentivata si è fatto due conti e con la copertura degli ammortizzatori sociali si sarebbe agganciato alla pensione e poi si è trovato con l’allungamento dell’età pensionabile. Pensate a un ragazzo che dopo anni di precariato rischia di trovarsi con la cancellazione dell’articolo 18, oppure a un migrante che oltre a pagare come tutti i tagli alla spesa sociale si vede aumentare la tassa di soggiorno in un clima crescente di intolleranza xenofoba e di violenza. Questi elementi sono o non sono costi della crisi? E in quale bilancio si iscrivono se l’unico parametro è lo spread che comunque continua ad essere alto per via delle speculazioni finanziarie. È l’ineluttabilità degli eventi o invece si possono mettere in moto politiche che ridiano una spinta all’economia reale senza che si barattino per questa via i diritti?
Quando da soli gli operai della Fiat di Pomigliano spiegavano che quello che lì stava accadendo non era l’eccezione ma la riscrittura delle regole la reazione è stata «sono quelli estremisti della Fiom Cgil». Oggi che il «modello Marchionne» si è esteso a tutti gli ottantamila lavoratori Fiat e contamina tutto il sistema delle relazioni industriali del nostro paese nessuno ne assume la gravità. Il silenzio assordante che ai primi di gennaio ha avvolto la cacciata delle Rsu della Fiom dagli stabilimenti Fiat dice dell’incapacità ancora oggi di capire quello che sta accadendo.
È diventato normale che le imprese possano scegliersi il sindacato? No, chiedo? È normale che si chiuda l’Irisbus e che l’Italia subisca un procedimento di infrazione dall’Europa perché non ha una mobilità sostenibile? E ancora, è normale che i lavoratori iscritti alla Fiom Cgil non siano reintegrati al lavoro alla Fiat di Pomigliano? È normale che di fatto, nel caso ci fossero nuovi assunti in Fiat, abbiano un salario inferiore ai vecchi assunti? Questi sono problemi della Fiom Cgil o del governo e più in generale del paese? Aggiungo che l’uso spropositato dell’istituto del lavoro straordinario, la riduzione delle pause, la totale flessibilità dell’orario di lavoro impediscono nuova occupazione e riducono la vita delle persone che lavorano a un mero fattore competitivo su cui si scarica l’incapacità di innovazione e programmazione.
Noi non accettiamo lo scambio diritti-lavoro. Anche perché non è più lavoro quello che viene offerto, e inoltre per essere precisi nel «caso Fiat» non c’è neanche il lavoro visto che sono stati chiusi Termini Imerese e Avellino. Il «famoso» piano industriale non lo conosce nessuno e tutte le notizie che rimbalzano dai giornali americani ci dicono che il centro si sta spostando negli Stati Uniti. Dove va il paese e dove va l’Europa se il lavoro è un oggetto e non persone? La tendenza aperta dalla Fiat e che si sta facendo strada anche in altri settori è che si possono fare profitti senza che ci siano ricadute positive sociali, altro che la redistribuzione. Ma addirittura con la divisione globale del lavoro assistiamo al fatto che non è assolutamente conseguente alla crescita della capacità produttiva l’aumento dell’occupazione e dei diritti.
L’obiettivo che le controparti stanno perseguendo è molto chiaro: o il sindacato diventa complice oppure è fuori. In questo, voglio essere chiaro, la Fiom Cgil è oggetto di un attacco violentissimo per la sola ragione che non è diventato un sindacato di comodo. Noi rifiutiamo l’idea che il compito del sindacato è firmare testi che scrivono altri e poi convincere i lavoratori che non c’era null’altro da fare. Ed è per questa ragione che l’antidoto alla completa subalternità dei lavoratori è la democrazia. Una testa un voto. Liberi di poter decidere, non la Fiom Cgil ma i lavoratori che quelle condizioni di lavoro affrontano ogni giorno nella loro postazione.
È per questa ragione che abbiamo fatto nostra la scelta dei lavoratori della Fiat di raccogliere le firme per indire un referendum abrogativo che bocci il testo sottoscritto dalle altre organizzazioni sindacali. Chi vuole la Fiom Cgil fuori dagli stabilimenti deve sapere che metteremo in moto tutta le nostre forze sindacali e legali per riconquistare il diritto costituzionale dei lavoratori a potersi organizzare e a poter decidere. Sappiamo che non è semplice, anzi. Sappiamo che dopo la scelta della Federmeccanica di raggiungere l’ennesimo accordo separato che recepisce la possibilità di poter derogare al contratto nazionale e, con l’articolo 8 del decreto del governo Berlusconi, di poter addirittura derogare alle leggi, la strada da percorrere è difficile e non riguarda solo i metalmeccanici.
Per uscire dal ricatto abbiamo bisogno di un movimento più ampio che offra un nuovo punto di vista generale. Ed è proprio per proporre un punto di vista generale che da tempo discutiamo fuori e dentro la Fiom Cgil di come affrontare il problema dell’inoccupazione, della precarietà e della condizione degli studenti, che abbiamo deciso di introdurre il reddito di cittadinanza insieme all’estensione dell’articolo 18 come uno dei punti qualificanti della nostra piattaforma con cui scenderemo in piazza l’11 di febbraio. Una piattaforma che chiede il sostegno di chi con noi vuole fare del lavoro, dell’ambiente, della formazione, del welfare e della legalità un bene comune.
La manifestazione che attraverserà le strade di Roma è il tentativo di non lasciare solo nessuno, perché la crisi innanzitutto produce disperazione e solitudine. Senza le manifestazioni pacifiche e democratiche c’è l’imbarbarimento. Ne sono un esempio gli omicidi dei migranti negli ultimi mesi. Pensiamo che possa esserci una grande manifestazione di massa a Roma, in cui i metalmeccanici sfileranno insieme a chi pretende di avere un futuro che non può fare a meno dei diritti e della democrazia.
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