«Chi non vuole la virtù, vuole la corruzione»
di Jean-Claude Lévêque*
«Lo spirito predatorio si è ormai impadronito delle istituzioni. Per questo non è più possibile essere riformisti senza
cadere nell’accettazione acritica dei meccanismi perversi del
neoliberismo. La «disobbedienza civile», fuori dalle sedi istituzionali,
sembra l’unica arma a disposizione per fronteggiare la corruzione e lo
sfruttamento illimitati».
I
Il
capitalismo contemporaneo è la forma estrema dello stesso, ovvero il
capitalismo nella sua fase discendente, ancora inedita nei suoi effetti
complessivi. La «servitù del debito» è uno dei suoi modi di oppressione e
controllo delle masse, ma non il solo.
Si può a ragione parlare di «capitalismo
predatorio» o di «Capitalismo assoluto» (Preve), anche se entrambe le
definizioni paiono ancora insufficienti per coglierne le caratteristiche
dominanti. Il dibattito attuale (considero come posizioni interessanti e
opposte quelle di Dardot/Laval, di Bidet, di Lazzarato, Negri, Zizek,
Badiou, di Aglietta e di Lévy) stenta a trovare una strategia di uscita
dal dominio del capitale finanziario, per ragioni teoriche e
ideologiche. Si fanno delle analisi convincenti- anche se non sempre-,
ma quello che risulta pressoché impossibile (forse soprattutto perché,
in generale, non si tiene conto di Lenin) è trovare un modo per opporsi
efficacemente alla retorica intransigente della classe dominante.
La strategia dei
capitalisti sembra invece molto più efficace nello spuntare le armi dei
movimenti che vi si oppongono. La constante criminalizzazione di
qualsiasi forma di opposizione e l’affermazione constante e martellante
dell’assenza di alternative lasciano poco spazio ai movimenti.2
Un’altra caratteristica del capitalismo predatorio è la sua connivenza con le mafie mondiali, che ormai spesso appare assolutamente evidente, sebbene negata dai media di regime.
I metodi dei «pirati legalizzati» e dei
«pirati fuorilegge» spesso coincidono, sia nei modi che nei risultati
ottenuti. Il velo fuorviante della retorica dei “diritti umani” serve
solo a occultare il fatto che di essi è stato fatto strame.
II
La sua strategia dominante, sul piano discorsivo, è quella del «disinnesco».
Dopo aver
sapientemente distrutto la logica del discorso negli ultimi venticinque
anni, l’ideologia dominante è in grado di imporre un linguaggio fatto di
slogan incoerenti e di parole d’ordine indiscutibili (v. Marcuse). In
compenso, i discorsi coerenti delle opposizioni vengono costantemente
rifiutati in nome degli slogan ripetuti fino alla nausea e la loro forza
imbrigliata all’interno di controargomentazioni speciose e sofistiche;
un’altra forma di «disinnesco» consiste nello svuotamento sistematico
del vocabolario – l’esempio più chiaro ed immediato riguarda la parola
«democrazia», svuotata di senso e usata per indicare invece una forma di
“dittatura” appena velata3. Viviamo immersi in una sorta di «brodo di coltura» di una LTI-come direbbe V. Klemperer4 –,
forse meno “militaresca” di quella del Terzo Reich, ma non meno
inquietante. Il processo di svuotamento della capacità di argomentare è
giunto a un punto tale che oggi è estremamente difficile essere compresi
da un pubblico di media cultura. Chi oggi neghi tutto questo, va detto a
chiare lettere, è da considerare un complice del «capitalismo
predatorio».
Una
delle caratteristiche più inquietanti del pensiero neoliberista è
quella della sistematica distruzione della cultura umanistica e
dell’istruzione pubblica.
La nuova scuola del neoliberismo è una
scuola delle competenze e della formazione continua da una parte, della
concorrenza spietata dall’altra: non si tratta di formare le future
generazioni, ma di asservirle all’unica ideologia ammessa, quella del
profitto per pochi e della servitù dei molti.
Individualismo e
proprietà privata sono i due dogmi ai quali il sistema educativo deve
essere sottomesso senza discussioni. Bologna, Lisbona e Europa 2030 sono
le linee guida di questa spietata operazione. I dirigenti scolastici,
le pedine, consapevoli o meno, indispensabili per attuarle. Come afferma
Christian Laval in un volume recente5,
«Sois stage et tais-toi!». Formazione continua, dunque, e superficiale.
Niente di più vicino di questo alla strategia neoliberista.
Lo stesso si può dire dell’Università,
con l’aggravante che in questo caso i costi di iscrizione sono aumentati
e la qualità sta diminuendo anno dopo anno.
In Italia, il volano necessario a questa
trasformazione è stato rappresentato, in larga misura, dai corsi di
laurea in Scienze della Comunicazione: produzione di manodopera a basso
costo e dequalificata per i call-centers (per lo più) e diplomificio per
una minoranza relativamente competente pronta a servire gli interessi
del capitalismo predatorio a un livello comunque medio-basso; in tutti i
casi, strumento efficace per la «riduzione dei cervelli» – o comunque
per una trasformazione regressiva dei medesimi.
IV
I media ormai sono ridotti ad altoparlanti fumosi e in malafede
dell’ideologia neoliberale dominante.
Ovvero, sono solo agit-prop!
Ripetizione ossessiva di ritornelli – crisi, tagli, riduzioni, deficit,
spread, ecc. Con la triste coorte di presentatori, puttane, ministri e
giornalisti servi a celebrare l’indegno spettacolo
dell’autorappresentazione di un’oligarchia marcia e corrotta, che vuole
pompare senza fine risorse e denaro dal popolo (e dalla classe media).
Come diceva Saint-Just: «Chi non vuole la virtù, vuole la corruzione!».
Ce ne sarebbe più che abbastanza per una
rivoluzione; per ora, però, non è così. Vale ancora la seduzione del
potere economico sovraesposto sui media di regime e funziona l’arte di
«ridurre i cervelli». Il nemico è ancora troppo invidiabile per essere
odiato davvero; nonostante si mostri ormai chiaramente per quello che è,
ovvero turpe e disprezzabile. Monti o Tre-monti, nel caso italiano, fa
poca differenza.
Tutti in fila per tre, ma fino a quando?
I media rappresentano attualmente, per la stragrande maggioranza, un’insensata commedia che oscilla tra il grand macabre e il vaudeville, con qualche tocco burlesque, quando ve n’è la necessità.
Comparsate di presunti esperti, politici
ignoranti o cinici fino al disprezzo dei cittadini, ruffiani ecc.,
tutti pronti per il carosello quotidiano della società dello spettacolo
«integrato» (Debord).
Le prossime elezioni italiane, un
teatrino infame in cui il voto non è più un diritto, ma solo l’esercizio
passivo di ratificazione dell’esistente attraverso una delega in
bianco. È triste affermarlo, ma è proprio così – grande «rischio
Weimar», anche se le conseguenze saranno quasi sicuramente diverse.
V
Il
carattere predatorio del neoliberismo appare evidente e soprattutto
difficilmente arrestabile, a meno che non si decida di opporsi alla
predazione indiscriminata con tutte le forze a disposizione. Questo
significa abbandonare la cultura del compromesso e della mediazione a
tutti i costi, che ha bloccato negli ultimi vent’anni l’azione delle
forze politiche- e sociali- di sinistra.
Si è potuto constatare che ormai la
maggior parte dei gruppi politici è al servizio di gruppi di lobbisti
senza scrupoli, in grado di condizionare l’approvazione o l’abrogazione
delle leggi nei parlamenti europei. L’opposizione dall’interno è
divenuta molto difficile se non impossibile.
Lo spirito predatorio si è ormai
impadronito delle istituzioni – naturalmente vi sono casi – abbastanza
rari – di dissenso. Per questo non è più possibile essere riformisti
senza cadere nell’accettazione acritica dei meccanismi perversi del
neoliberismo. La «disobbedienza civile», fuori dalle sedi istituzionali,
sembra l’unica arma a disposizione per fronteggiare la corruzione e lo
sfruttamento illimitati.
Debito,
dunque – sono i poveri a pagari per le banche! Assurdità di un sistema
che si avvita su se stesso. Economia del ricatto. Criminalità ed
economia neoliberale: spovrapposizioni continue e intrecci
inestricabili. Per questo è necessario discriminare senza ambiguità: le
colpe ricadono tutte—e intendo dire proprio tutte--sul capitalismo
predatorio; esso deve essere identificato come «il» nemico da combattere
per evitare il definitivo tracollo della democrazia6.
Le
politiche del «male minore» non hanno più alcun senso quando di fronte
ci sono degli interlocutori che si sono posti «al di sopra della legge»:
associazione a delinquere (le parole pesano e contano!) di privilegiati
dediti escusivamente ad incrementare a qualsiasi costo le proprie
entrate: sicurezza, controllo poliziesco e sfruttamento fino al suicidio
dei lavoratori.
Le politiche della sinistra radicale si
sono fin qui distinte per la mancanza di strategie efficaci e per una
grande incapacità di leggere il presente – con Marx o senza Marx. Fermi
al secolo passato, i suoi Readers non hanno saputo comprendere
l’evoluzione dell’economia (se non in modo molto parziale) e hanno
sinora perso tutte le occasioni per cercare di cambiare il corso degli
eventi. I movimenti sono andati molto oltre nella comprensione del
capitalismo predatorio, ma non hanno un’organizzazione efficace.
Governance I
L’«Economic governance» è uno degli strumenti più devastanti per imporre l’ideologia neoliberista.
Partiamo da alcune considerazioni di Toni Negri, svolte in un saggio recente:
Ormai, quando si parla di costituzione europea, si parla essenzialmente di economic governance, e quando si parla di governance economica, spesso si traduce sostantivamente il concetto nel tedesco Ordo-liberalismus (ci
è stato detto che questa traduzione si è data anche in documenti
ufficiali). Vale a dire in una autoritaria “economia sociale di mercato”
che, non a caso, sotto la pressione dei mercati, ha perduto ogni
dimensione sociale e riformista per esaltare al massimo quella
autoritaria ed ordinativa. Prodotto da una scuola che, assumendo diverse
– e spesso inquietanti – figure politiche, si prolunga e si trasforma
dagli anni ’20 ad oggi: essa domina gli attuali processi costituenti
europei. Stabilità dei prezzi, regolazione repressiva di ogni deficit budgetario
inappropriato, unione monetaria separata dall’unione politica, sono
diventati principi cui attenersi – con alcune conseguenze dissolutive di
ogni pur formale regola democratica. Il controllo e la supervisione
burocratica dei bilanci sono infatti privi di ogni legittimazione
democratica (non solo delle istituzioni nazionali ma anche di quelle
comunitarie); gli interventi regolatori sono di volta in volta
individualizzati fuori da ogni norma generale – il carattere di
giustizia dell’azione comunitaria è del tutto svuotato; e, in terzo
luogo, le politiche europee di regolazione sociale, distributive e
compensatorie, risultano effettivamente dissolte. Per dirla con Jörges,
nella crisi l’Europa è passata da una costruzione giurisdizionale ad una
costituzione autoritaria e da un deficit di democrazia ad un default democratico7.
Il deficit di legittimità caratterizza,
in generale, l’azione delle istituzioni europee (e dei singoli stati
dell’Unione, purtroppo!), ormai divenute sistemi autonomi, assolutamente
lontani dai popoli e fuori da ogni regola. «De-regulation» e
asservimento ai dettami delle multinazionali, questo è l’unico programma
da seguire. Non condivido del tutto le testi di Negri e di C.
Vercellone sul «Capitalismo finanziario», ma certamente le pressioni dei
mercati sulle scelte dei governi sono enormi e sempre più pervasive;
nonostante ciò, il “capitalismo predatorio” non è soltanto di carattere
finanziario—si vedano, ad esempio, le guerre imperialiste per il
controllo delle risorse in Africa e in Medio Oriente.
Come affermano Laval e Dardot:
Per contrasto, il
momento neoliberale è caratterizzato da un’omogeneizzazione del discorso
sull’uomo a partire dalla figura dell’impresa. Questa nuova forma di
soggettività opera un’unificazione senza precedenti della forme plurali
di soggettività che la democrazia liberale lasciava sussistere e delle
quali si sapeva servire all’occorrenza per meglio consolidare la sua
esistenza.8
Il capitalismo
predatorio si caratterizza quindi per la soppressione di quel pluralismo
che tuttavia sussisteva nelle democrazie liberali del secondo
dopoguerra: quello di cui c’è bisogno è invece di un controllo “totale”
sull’individuo e di una sua altrettanto totale «depersonalizzazione».
Timore e speranza, sapientemente dosati e istituzionalizzati a partire
dalla assurda regolamentazione del mercato del lavoro.
VII
Sul potere costituente.
Le
tesi di Hardt-Negri sul potere costituente vanno riviste abbandonando
il concetto di «moltitudini», troppo indefinito. Non sono le moltitudini
a poter dare scacco al neoliberalismo.
Non
riesco ad essere d’accordo con Negri quando affida il potere
costituente alla “moltitudine”; rimane per me un concetto troppo
astratto e vago, direi. Lasciare lo spazio per un cambiamento al solo
«desiderio costituente», alla «ricerca della felicità» – seppur intesa
in un senso latamente spinoziano – mi pare davvero un’ingenuità teorica
che mal si accompagna alle sottili analisi negriane della governance.
Davvero, ci servono altre definizioni, ben più pregnanti e concrete.
Per parte mia ripartirei dal concetto di classe, andando certo ben oltre
quello classico marxista. Tuttavia, mi sembra ancora ineludibile
partire da lí, per riformularne i punti essenziali. Non se ne può fare a
meno, per interpretare questa nuova fase del capitalismo9.
In questo senso, non mi sembra inutile ritornare a leggere Lenin e
Lukács, con spirito critico, ovviamente. La «lotta di classe» è
estremamente attuale, anche se ha assunto caratteristiche diverse,
contorni meno netti e al centro non c’è più la classe operaia in senso
Stretto, ma un universo molto più sfaccettato ( precariato, migranti,
marginalità nuove).
VIII
Governance II
L’aspetto
più propriamente giuridico della Governace globale è forse quello più
inquietante: attraverso processi di giuridificazione che saltano a pié
pari le Costituzioni nazionali, le multinazionali impongono
spietatamente i loro interessi.
a) Sono d’accordo con M. Lazzarato quando afferma che il termine governance nella
neolingua del capitalismo predatorio significa in realtà «comando» –
dispotico, aggiungo io (v. Lazzarato, 2011, p. 27). Borrelli (2010)
sottolinea l’importanza del concetto di responsabilità personale; la
«democrazia efficace» si basa appunto su questo e sul concetto di governance.
Struttura reticolare di governance. Chi comanda, ovviamente, sono le
élites, non il popolo. Governo dei comportamenti e dei corpi.
Psicopotere? Prendere su di sé i rischi come ingiunzione. Teubner ci
insegna che i processi di «ibridazione del diritto» possono portare alla
sovversione dell’ordine giuridico tradizionale.10
b) Ascesi della “performance” e controllo totale.
Come hanno rilevato Dardot e Laval:
Tutti questi esercizi
pratici di trasformazione di sé tendono a trasportare tutto il peso
della complessità e della competizione sul solo individuo. I «manager
dell’anima», seguendo un’espressione di Lacan ripresa da Valérie Brunel,
introducono una nuova forma di «governance» che consiste nel guidare i
soggetti facendo loro assumere pienamente l’attesa di un certo
comportamento e di una certa forma di soggettività sul lavoro.11
Qui la questione dominate è quella del «lavoro su di sé» allo scopo di adattarsi alle regole del management e
di essere disposti a una continua trasformazione e ad un continuo
riposizionamento di sé. Da cui segue la “liquidità” dei legami sociali e
personali, fino alla loro assoluta intercambiabilità.
c) Giuridificazione bottom-up.
Quello che è accaduto e accade è che i processi di giuridificazione e di «costituzionalizzazione» seguono una logica bottom-up e indipendente dalla costituzioni nazionali. Si legifera sempre di più ad hoc,
attraverso processi orizzontali che conferiscono valore giuridico
superiore a procedimenti transazionali privati che riguardano gli uffici
giuridici delle multinazionali e non si confrontano con le Costituzioni
dei singoli paesi.
Biopolitica e biopotere
Pur
accettando solo parzialmente la prospettiva foucaultiana, sosteniamo
che la figura dominante nel mondo tardocapitalista si quella dello
sportivo e dell’uomo in continua lotta con se stesso per migliorare le
sue performances – una sorta di «ultimo uomo». Forse, nietzscheanamente
«il più brutto».
Produzione dell’uomo
“performante” e assolutamente responsabile in prima persona di ciò che
fa, al lavoro e nel tempo libero—che non è tale, in quanto interamente
sussunto nei meccanismi produttivi. Costruzione dell’uomo indebitato-
esposizione, ricatto. (V. Deleuze, Cours, 1971-72--73,citati da
Lazzarato12).
Il tema dell’assenza della mediazione nell’uso degli strumenti
elettronici è fondamentale: qui Lazzarato segue Deleuze quasi alla
lettera. Un altro punto, legato al precedente, concerne l’imposizione
del pareggio di bilancio nelle costituzioni dei paesi europei; questo
provvedimento, a breve, aumenterà in modo esponenziale l’esposizione
delle famiglie, impoverendole ulteriormente fino a livelli impensabili
prima d’ora. Le destre e le sinistre europee non vogliono vedere la
gravità del problema e insistono su questa strada, probabilmente fino ad
arrivare al collasso dell’intero sistema. Come sottolinea Christian
Marazzi in un articolo recente:
«Però il problema, per come lo vedo io, è che siamo in una situazione dentro la quale siamo in un qualche modo costretti a passare attraverso una crisi feroce che è implicita nel funzionamento stesso di questo euro. Per questo mi sembra fondamentale, all’interno delle lotte, porre le questioni da una parte di una resistenza a tutto ciò che ha a che fare con le misure di austerità, una resistenza sul fronte del salario, una resistenza sul fronte del reddito nelle sue forme di reddito di base, ecc. Però allo stesso tempo sono parecchio pessimista perché non riesco a vedere fra l’altro una forza per portare effettivamente queste rivendicazioni di tipo riformista al giusto livello sul quale andrebbero poste. Mi piacerebbe che ci si muovesse in questa direzione, vedo però prima di tutto questo scenario di grande crisi dell’Europa e un ritardo preoccupante da parte del movimento operaio, ma del movimento critico in generale nell’elaborare delle pratiche di lotta, nel costruire dei fronti di lotta tali da poter in qualche modo orientare questa crisi. La mia posizione sicuramente è una posizione che esprime un disagio, forse sono troppo dentro a quella che è l’evoluzione e l’involuzione quotidiana dei mercati per vedere un esito o un percorso diverso da quello di rottura ma sta di fatto che questa impossibilità di tenere l’euro, proprio per la sua stessa architettura, mi sembra che sia la questione che dobbiamo porci per avere un approccio che sia col tempo realista ma allo stesso tempo consapevole delle difficoltà che abbiamo di fronte nella mobilitazione a livello europeo. Per quanto riguarda il pareggio di bilancio, penso che sia l’anticamera del nazismo. Questa è una battuta, ma non del tutto, perché costituzionalizzare il pareggio di bilancio significa mettersi nella condizione di non poter far fronte a delle situazioni che tra l’altro nel capitalismo finanziario alla Minksy sono assolutamente prevedibili nella loro imprevedibilità. Una crisi, o una catastrofe naturale, pone la questione della rigidità, della gabbia d’acciaio che ci costruiamo noi stessi e che rende estremamente difficile perseguire delle operazioni di reazione, di risposta contingenti a delle situazioni di crisi. È veramente un errore questa cosa, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ed è una cosa di cui vedremo le conseguenze abbastanza presto». ( Christian Marazzi, “L’Euro non come moneta unica ma come moneta comune”, in www.sinistrainrete.it)
Altro
che la «gabbia d’acciaio» weberiana: qui siamo di fronte a un processo
di espropriazione dell’autorità degli Stati nazionali che non ha
precedenti! Le considerazioni di Lazzarato sull’“uomo indebitato”
andrebbero implementate pertanto da un’ampia considerazione del regime
neoliberista e delle sue politiche, su come il capitalismo finanziario
abbia poco a poco eroso lo Stato sociale attraverso meccanismi economici
ben determinati e ben descritti da Marazzi e da Bellofiore. Su questo
punto conto di tornare in un articolo successivo.13Alla fine, sembra che il controllo biopoliticoabbia
raggiunto almeno uno dei suoi scopi: offuscare le menti al punto che
coloro che sono stati gettati nella miseria dal capitalismo predatorio
continuano a sperare di potersi “rifare” accettando per ora le politiche
di austerità imposte dall’Europa. Una parte dei cittadini ha però
compreso come stanno le cose e si è organizzata, nonostante le mille
difficoltà a cui ha dovuto e dovrà far fronte. Non si tratta di moltitudine, ma di lotta popolare, anche se in un senso nuovo.14 Intendiamo
con «lotta popolare» qualcosa di Molto simile al «movimentismo» degli
anni settanta, ma adattato al carattere diffuso delle lotte
attuali—sfrattati, studenti, migranti, precari, operai, ecc. Insisto:
uscendo dall’immobilismo a cui sismo condannati a causa della
“moralizzazione” delle lotte.
X
Uscirne ( ma come?)
L’uscita
dall’ideologia neoliberale non sarà indolore, ma richiederà un
colossale sforzo di cambiare il nostro mondo di pensare e di agire.
L’estrema
difficoltà di uscire dalla fase attuale del capitalismo è determinata
dal fatto che abbiamo assistito ad una potente colonizzazione delle
forme di pensare avvenuta soprattutto tra il 1989 e il 2001, tale che
oggi molti oppositori del neoliberismo non si accorgono di pensare come i
loro avversari. L’etica della performance e
della responsabilità individuale ha determinato e determina la
scarsissima reattività della sinistra-anche antagonista- di fronte alle
politiche aggressive dei governi occidentali. Se a questo aggiungiamo
l’accettazione passiva di un’apologia assurda della non-violenza (che
non ha nulla a che vedere con Gandhi), vedremo che per poter far fronte
alle politiche sempre più assurde della Troika è necessario cambiare il
modo di pensare a 360 gradi. Solo un’opposizione radicale, senza remore e
senza troppi distinguo ai governi attuali potrà portare, nel tempo, a
determinare un cambiamento significativo, politico e sociale insieme.
L’ipocrisia del tardo capitalismo è ormai assolutamente inaccettabile.
Per questo pensiamo che sia fondamentale rileggere Marx per capire il
presente e non lasciarsi incantare dalle varie sirene che impediscono
qualsiasi cambiamento decisivo. Non sembra però che i moventi sociali,
almeno in Italia, riescano a premere sul governo e sul potere
finanziario per spingerli verso un cambiamento di rotta. La resistenza è
ancora forte e le collusioni molteplici. Gli scandali finanziari non
sembrano, da soli, incrinare il sistema: seguendo ancora Teubner, il
reticolo di interessi è troppo complesso per essere attaccato di fronte.
L’incertezza regna, dunque. Ma solo se ci si libererà delle scorie dei
fallimenti dello scorso ventennio – non solo berlusconiano, ahimé – sarà
possibile concepire delle strategie efficaci. Alcune strade sono state
abbozzate in questo intervento, altre restano da pensare.
Coda
Qualche parola, per
finire, in riferimento alla situazione che si sta delinenado nelle
ultime settimane in Italia e in Europa: sembra che il «capitalismo
predatorio» stia accelerando il processo di distruzione delle economie
dei paesi dell’Europa del sud, attraverso la deleteria combinazione di
assurde politiche di austerità (Germania) e di un’accentuazione dei
movimenti speculativi. Per questo mi piace definire questo capitalismo
come profondamente nichilista e
votato alla sparizione; il problema è che intende trasportare i popoli
europei nell’abisso, e senza nessuno sconto. Se ho parlato di «Rischio
Weimar» è dunque a ragion veduta. Le condizioni politiche ed economiche
sono diverse, ma le conseguenze possono essere altrettanto letali, dato
che non si vede all’orizzonte una forza politica capace di mettere in
questione i rapporti di forza attuali. Ma non è detta l’ultima parola: a
volte le stesse forze negative possono creare le condizioni per la
propria sconfitta – inattesa. Basta leggere la realtà con lenti diverse
ed abbandonare il tono puramente «indignato» delle proteste degli ultimi
anni.
* Fonte: Kainos
Note con rimando automatico al testo
1 Uso
le due espressioni «Capitalismo predatorio» e «Neoliberismo» per
connotare due aspetti, economico il primo, ideologico-politico il
secondo, di uno stesso fenomeno.
2 Soprattutto
se i movimenti non elaborano una strategia complessiva di opposizione
al capitalismo predatorio, cosa che, almeno in Italia, non hanno saputo
fare finora. Interessante questa messa a punto, breve ma incisiva, sulle
“strategie” del sistema bancario” tra la fine degli anni ottanta e la
metà degli anni novanta: «Quello che non troverete nella stampa di
questi giorni, nemmeno su Il fatto quotidianoche strilla tanto (grazie alle carte passategli si suppone dallo stesso Profumo), è l’indagine sull’origine del tumore che
affetta l’intero sistema bancario italiano (ed europeo) e di cui quella
del Mps è solo una delle metastasi. Ci riferiamo al colossale processo
di privatizzazioni e concentrazioni degli anni ’90 e che culminò nel
1998 nella nascita, ad esempio, dei due mostri Unicredit e Banca Intesa.
Un processo che cambiò da cima a fondo l’architettura stessa del
sistema economico e bancario italiano e che consistette nel passaggio
delle banche da commerciali a banche d’affari, quindi non solo quotate
in borsa ma oramai dedite alle scorribande predatorie sui mercati
finanziari. Solo a patto di focalizzare questo colossale processo di privatizzazione-concentrazione-speculazione è
possibile capire perché anche una banca come Mps si lanciò nella gara
fraudolenta, viziata nativamente da trucchi di vario tipo e, quel che a
noi preme sottolineare, voluta e avallata dai partiti politici e dai
governi, sia di centro-sinistra che berlusconian-leghisti.Gli anni ’90
erano quelli che prepararono l’ingresso nell’Euro. Gli anni in cui
l’Italia doveva adeguarsi agli standard previsti dai Trattati,
implicanti il trasferimento della sovranità politica a Bruxelles e
quella monetaria a Francoforte. Gli anni in cui prendeva definitivamente
forma il regime oligarchico europeo incardinato nel predominio del
sistema bancario e finanziario. Una delle tappe cruciali di questo
processo di avvicinamento verso l’abisso globalizzato iniziò certamente
nel 1981, col divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Ma ve ne fu una
seconda, di portata altrettanto grande. Essa venne sancita il 30 luglio
1990, con la Legge Amato n. 218 e successivi decreti di attuazione –
Primo Ministro Andreotti, coalizione di centro-sinistra Dc, Psi, Psdi,
Pri, Pli con Azeglio Ciampi a governatore della Banca d’Italia» (cito
da MONTE DEI PASCHI: LE VERE ORIGINI E LE CAUSE DI UNO SCANDALO, di Moreno Pasquinelli, in “Sollevazione blogspot” del 24 gennaio 2013).
3 Questa
forma di «dittatura velata» può essere considerata una sorta di
«oligarchia finanziaria e militare» che ha già fatto strame del diritto
in poco più di vent’anni. Come ha sottolineato di recente C. Preve, «[…]
In quinto luogo, infine, l’ecumenismo culturale, lungi dall’essere
progressista, emancipatore e di “sinistra” è soltanto la copertura
culturale per conniventi e per allocchi di un nuovo capitalismo
finanziario globalizzato che per rimuovere la generalizzazione del
lavoro flessibile, temporaneo e precario deve promuovere la formazione
di un nuovo esercito industriale di riserva multiculturale,
multirazziale, multietnico, multireligioso, linguisticamente unificato
(inglese operativo) e sessualmente omogeneizzato (omo ed etero al posto
delle vecchie noiose famiglie borghesi). Tutto questo non ha
assolutamente nulla a che fare con il vecchio concetto greco di
ospitalità verso lo straniero (xenos)
in cui lo straniero era bensì ospite, ma mai ci si sarebbe sognati di
rinunciare alla propria identità culturale greca, di cui si era anzi non
solo fieri ma fierissimi. Ultimamente questo è stato chiarito da un
magistrale saggio di Luca Grecchi (uno dei più promettenti filosofi
italiani contemporanei, ed appunto per questo silenziato ed ignorato
dalla mafia mediatico-accademica al servizio delle oligarchie), che
confuta con ricchi argomenti l’errata concezione dei greci come
nazionalisti, sciovinisti e razzisti. I greci erano fieri della propria
irripetibile identità religiosa, culturale e linguistica, e nello stesso
tempo aperti al cosiddetto «diverso» (oggi trasformato in un
inesistente Diverso per colpevolizzare la legittima difesa economica e
culturale delle comunità).
La
formula che tu utilizzi alla fine della tua domanda (la globalizzazione
come universalizzazione degli egoismi) è particolarmente felice, perché
suggerisce al lettore che abbia ancora voglia di pensare che
l’universalizzazione degli individualismi acquisitivi (non importa se
dal lato dell’Imprenditore o dal lato del Consumatore) universalizza
soltanto l’individualismo acquisitivo stesso. È questo un ennesimo
ossimoro (l’universalizzazione dell’individualismo), che non potrebbe
però concretamente realizzarsi senza la perdita della stabilità del
lavoro (l’individuo flessibile è il vero coronamento di ogni
individualismo, perché porta lo sradicamento al suo punto più alto) e
senza la distruzione delle vecchie comunità familiari e religiose in
nome di nuove comunità provvisorie fittizie (la folla anonima dei centri
commerciali, il concerto rock, ecc.).L’antropologia
sociale di questa nuova ed inedita universalizzazione
dell’individualismo anomico deve ancora essere studiata, e non possiamo
certamente aspettarci alcun aiuto dalle caste mediatiche ed
universitarie. E tuttavia io credo nella natura umana, e quindi non
credo nella sua manipolabilità infinita. Se la natura umana fosse
infinitamente manipolabile, non ci sarebbero soggetti sociali capaci di
tirarci fuori, né tanto meno futurismi tecnologici o ideologie del
progresso. Per questo non bisogna chiedere aiuto all’ideologia, ma ad un
rinnovamento filosofico. Ma dal momento che la tua terza domanda verte
appunto su questo, svilupperò il mio discorso proprio nella mia terza
prossima risposta»(C. Preve, «Rivolta delle ëlites e disfacimento del
Capitalismo», Dialogo tra C. Preve e L.Tedeschi, in Italicum, 2011, qui
citato da www.ariannaeditrice.it). Di Costanzo Preve mi permetto di
citare l’utile Marx inattuale. Eredità e prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
4 V. Klemperer, LTI , la lingua del Terzo Reich. Breviario di un filologo. Giuntina, Firenze 1998.
5 Ch. Laval et al., la nouvelle école capitaliste, ed.
La Découverte, Paris 2011, soprattutto le prime 50 pp.. Il caso
italiano è abbastanza diverso da quello francese, perché in Italia il
progetto neoliberista si è accompagnato alla più assoluta cialtroneria e
alla promozione sistematica dei peggiori – ma, ovviamente, più affine
all’ideologia dominanante o, almeno, più disposti a collaborare con i
suoi rappresentanti.
6 Su
questo punto la bibliografia è miserrima: ci si arresta sempre un po’
prima di proporre una qualsiasi strategia per cambiare lo stato delle
cose (eccezioni certo discutibili ma reali: C. Preve e G. La Grassa).
7 A.
Negri, «A proposito di Costituzione e capitale finanziario», In
www.sinistrainrete.it. Il volume di Lazzarato sull’ “uomo indebitato” è
senza dubbio interessante, ma vi manca la base economica del
ragionamento – almeno a mio avviso. Come scrive invece R. Bellofiore,
“La incorporazione delle famiglie nel capitale finanziario e la
riduzione della quota dei salari, insomma, hanno determinato
trasformazioni ben concrete e radicali nella stessa struttura
produttiva, aumentando la capacità produttiva inutilizzata. Il «nuovo
capitalismo» è stato in grado di risolvere almeno temporaneamente e
parzialmente questo problema, facendo sì che le imprese trovassero
domanda e finanziamento, sia pure per il giro traverso
dell’indebitamento privato delle famiglie che ha sostenuto un consumo
sganciato dal reddito. Una sorta di «meccanismo unico» che ha reso
impossibile separare finanza «cattiva» e economia reale «buona». Anche
le considerazioni di Bellofiore sulla teoria di Minsky che «vede nello
Stato l’offerente di un’occupazione di ultima istanza come sostengo ai
consumi e (alla dignità) dei laboratorio», è senz’altro utile per
provare a pensare un’alternativa al tardo capitalismo. Vedi il testo di
R. Bellofiore, «L’ipotesi della instabilità finanziaria e il ‘nuovo’
capitalismo», on-line suwww.storep.org/workshopsiena/Bellofiore1.pdf. Di R. Bellofiore vale la pena di leggere l’agile librettoLa crisi capitalistica. La barbarie che avanza. Trieste,
Asterios, 2012. E, come rileva A. Fumagalli, «Oggi, non si intravvede
nulla di ciò. È oramai assodato che la governance capitalistica imposta
dai mercati finanziari si è rivelata fallace, seppur dopo aver ottenuto
potenti risultati nel plasmare e definire le nuove modalità di
valorizzazione e le nuove forme di comando e gerarchia del
bio-capitalismo cognitivo. Il triplice ruolo assunto dai mercati
finanziari – ridefinizione continua dell’unità di misura del valore e
finanziamento dell’attività d’investimento, assicuratore sociale della
vita individualizzata come esito della finanziarizzazione, e conseguente
privatizzazione, dei sistemi di welfare, strumento di crescita
economica dell’economia e regolatore della distribuzione del reddito
grazie ai processi di espropriazione della cooperazione sociale e
moltiplicatore finanziario della domanda finale – non ha prodotto un
sistema di governance politico-economica in grado di garantire un minimo
di stabilità. Ne poteva farlo, dal momento che condizione perché tale
stabilità potesse essere garantita era una continua illimitata
espansione degli stessi mercati finanziari, in grado di produrre
(plus)valore in misura costantemente superiore agli effetti distorsivi e
negativi sulla domanda che la crescente concentrazione dei redditi e
l’espropriazione della ricchezza sociale prodotta dal “comune”
comportava.», in www.uninomade.it.
8 Pierre Dardot/ Christian Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, La découverte, Paris 2009, p. 408 tr. nostra).
9 v. su questo punto le analisi di Gianfranco Borelli sui limiti della democrazia procedurale (G. Borrelli,Ragion di stato, Gouvernementalité, governance. Politiche di mondializzazione e trasgressioni del neoliberismo, su www.globalproject.info/.../Arienzo_-_Biopolitica-governance.pdf, 2010).
Ma interessanti, seppure distanti dalla Nostra prospettiva, sono pure
le indicazioni di A. Negri: «Torniamo dunque ai contenuti. Da un lato
abbiamo una governance che esprime la necessità del comando, dall’altra abbiamo un potere costituente (diffuso
ed irriducibile) che si muove come volontà di resistenza e di
innovazione comune. Quando il rapporto diventa troppo violento la governance subisce
la tentazione di trasformarsi in “potere di eccezione”; di contro, il
potere costituente si presenta in maniera ancor più evidente e forte
come resistenza. C’è uno squilibrio ontologico fra governance e potere costituente. A fronte della governance il
potere costituente si pone in maniera permanente e comune e deve esser
qui riconosciuto come forza non più extragiuridica ma legittimata a
muoversi, a riunificare le resistenze come un’opposizione tanto dinamica
quanto innovativa. Chiamiamo comunel’insieme
delle forze resistenti/costituenti che si costruiscono come innovazione
ontologica del legame sociale. Al contrario del potere di eccezione
dunque la governance riconosce di fatto il potere costituente come l’elemento attivo nella costruzione dei processi istituzionali e giuridici. Ma lagovernance può vivere solo quando è più forte del processo costituente. Se la governance comanda
ancora, comanderà solo fin che il potere costituente non diventerà,
esso, egemonico». A. Negri, «La sovranità fra governo, eccezione e
governance», in www.uninomade.it, , sezione Materiali.
10 Su questo v. G. Teubner, Nuovi conflitti costituzionali. Norme fondamentali dei regimi transnazionali, Bruno Mondadori, Milano 2012, in particolare la prima parte.
11 Dardot/ Laval, cit., p.423
12 M. Lazzarato, La fabrique de l’homme endetté, Ed. Amsterdam, Paris 2011, in particolare le pp. 58-62.
13 Ciò
che appare davvero inquietante è l’uso strumentale dei migranti proprio
del capitalismo predatorio: considerati come risorsa e demonizzati allo
stesso tempo come minaccia, vengono di fatto utilizzati loro malgrado
per erodere i pochi diritti rimasti ai lavoratori europei : lo scopo,
ovviamente, è quello di creare un enorme esercito industriale di riserva
da sfruttare senza pietà – tutti sotto-proletari, insomma! Marx
insegna.
14 Vorremmo qui far riferimento a Lenin (nientemeno!) e al suo testo fondamentale Che fare?:
senza un confronto critico con le tesi leniniste, non credo che si avrà
la forza di contrastare l’egemonia del neoliberismo. Vorrei anche
riferirmi all’utile saggio di L. Basso, Agire in comune. Antropologia e politica nell’ultimo Marx,
Ombre corte, Verona 2012, che segue una prospettiva diversa. Come
ricorda Mimmo Porcaro in un brillante articolo, «L’obiettivo della
politica dei movimenti popolari diviene quindi, d’ora in poi, duplice.
Da una parte deve esserci lo sviluppo delle istituzioni popolari di
base, la crescita delle forme di autorganizzazione e di democrazia
diretta e/o partecipata. Dall’altra deve esserci l’azione coordinata,
scandita in tappe e fasi, finalizzata alla conquista e alla
ridefinizione del potere di Stato. Da una parte il tempo lineare e
cumulativo della crescita progressiva della soggettività popolare
autorganizzata, dall’altra il tempo discontinuo e mutevole
dell’intervento nella congiuntura politica. Da una parte l’agire
cooperativo, dall’altra l’agire strategico. Senza l’uno non c’è l’altro.
Senza il primo non c’è l’accumulazione delle conoscenze, delle
relazioni e delle forze che consentano la conquista e trasformazione
dello Stato e della produzione, non ci sono le autonome istituzioni
popolari che, restando a distanza dallo Stato, riescano ad influenzarlo e
trasformarlo senza però ridurre la politica socialista a statalismo.
Senza il secondo non ci sono le risorse politiche, giuridiche ed
economiche che consentano alle istituzioni popolari di costruire un
nuovo ordine sociale e, prima ancora, disopravvivere alla crisi.» Mimmo Porcaro, Occupy Lenin, in www.controlacrisi.org, 26 marzo 2012
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