di Stefano Fantacone -
All’inizio degli anni trenta, in una nota discussione col professor Arthur Cecil Pigou, John Maynard Keynes avvertiva sull’indesiderabilità di una deflazione salariale, che avrebbe avuto come principale conseguenza la caduta della domanda aggregata. A ottant’anni di distanza, ci troviamo a constatare quanto corretta fosse la predizione keynesiana. Quella in corso in Italia non è infatti una semplice recessione, bensì la crisi di un modello di sviluppo che ha voluto far perno sulla progressiva erosione dei redditi da lavoro.
All’inizio degli anni trenta, in una nota discussione col professor Arthur Cecil Pigou, John Maynard Keynes avvertiva sull’indesiderabilità di una deflazione salariale, che avrebbe avuto come principale conseguenza la caduta della domanda aggregata. A ottant’anni di distanza, ci troviamo a constatare quanto corretta fosse la predizione keynesiana. Quella in corso in Italia non è infatti una semplice recessione, bensì la crisi di un modello di sviluppo che ha voluto far perno sulla progressiva erosione dei redditi da lavoro.
Se ne ha una chiara evidenza osservando il grafico.
La curva blu riporta l’andamento, dal 1964 a oggi, del reddito
disponibile, ossia della somma che rimane nelle tasche delle famiglie
dopo il pagamento delle imposte. La curva rossa illustra invece il
potere d’acquisto reale, ottenuto sottraendo il tasso d’inflazione dal
reddito disponibile (una misura della quantità di nuovi beni che le
famiglie possono acquistare con i loro guadagni, stante l’aumento dei
prezzi).
Il grafico è suddiviso in tre sezioni, che rappresentano altrettanti
periodi storici, nel corso dei quali i redditi sono passati da una fase
di crescita accentuata a una di stagnazione e poi di riduzione. Il primo
periodo – il più lungo è più lontano nel tempo – va dal 1964 al 1992 ed
è caratterizzato da un trend crescente uniforme. In quei 28 anni, il
reddito disponibile delle famiglie italiane aumentò a un tasso medio del
14 per cento; al netto dell’inflazione, il potere d’acquisto crebbe
complessivamente di quasi il 200 per cento, quasi il 4 per cento
all’anno.
La crisi finanziaria del 1992, accompagnata dall’avvio del primo,
vero programma di ridimensionamento del disavanzo pubblico e dagli
accordi sul costo del lavoro, segna l’entrata nella seconda fase, quella
della stagnazione. Senza soluzione di continuità, la variazione annua
del reddito disponibile scese al 3,8. In termini di potere d’acquisto,
l’aumento medio in quel periodo fu appena dello 0,5 per cento. Se si
osserva ancora il grafico (linea rossa), si nota un ulteriore fatto:
subito dopo il 1992 la capacità di spesa delle famiglie diminuì, perché
si decise di comune accordo (l’emergenza lo richiedeva) di eliminare la
scala mobile e di rinunciare così al recupero dell’inflazione pregressa
(era allora del 5 per cento). Ci vollero otto anni per recuperare quella
perdita e solo nel 2000 la capacità di spesa delle famiglie italiane
ritornò ad aumentare, ma solo temporaneamente.
Nel 2008 prende infatti avvio la terza e ultima fase, quella tuttora
in corso. La caratteristica saliente di questo periodo è l’arresto della
crescita del reddito disponibile. La curva blu interrompe infatti per
la prima volta il suo trend crescente e si appiattisce per il venir meno
dei fattori di dinamica intrinseca che, nel tempo e in condizioni
normali, dovrebbero sostenere la capacità di spesa delle famiglie
(l’aumento delle retribuzioni e dell’occupazione, la stabilizzazione
della pressione fiscale e dei flussi di trasferimento pubblico ecc.).
Dal momento che, nel frattempo, la dinamica dell’inflazione non si è
invece interrotta, nel 2012 il potere d’acquisto è in diminuzione ormai
da 6 anni consecutivi e, secondo le stime Cer, ancora nel 2015 risulterà
inferiore di circa il 10 per cento rispetto al livello del 2007. La
contrazione è tanto grave che, se pure fosse possibile tornare alle
dinamiche del periodo 1992- 2007, la capacità di spesa perduta verrebbe
recuperata solo in prossimità del 2030. Inevitabilmente, e qui veniamo
alla lungimiranza della profezia keynesiana, la scomparsa dei redditi
sta determinando una compressione senza precedenti dei consumi delle
famiglie, che da soli rappresentano il 60 per cento del Pil. Nel 2012,
la spesa per consumi è diminuita del 4,3 per cento, la massima flessione
nella storia della Repubblica.
Parliamo di una caduta che è più del doppio di quanto osservato nel
2009 e che supera di oltre un punto la contrazione del 1992, che fino a
oggi era stato considerato l’anno horribilis dei consumi italiani.
Sempre secondo le previsioni Cer, la diminuzione della spesa si
protrarrà nel 2013 e sarà solo in piccolissima parte recuperata nel
2014-2015. Il fatto è che l’insipienza delle politiche europee ha ormai
imposto la deflazione salariale – che con senso del pudore viene però
chiamata “svalutazione interna” – come politica di riferimento per i
paesi mediterranei alle prese con la crisi del debito sovrano e per
questo posti di fronte all’urgenza di recuperare margini di crescita
attraverso la sola domanda estera.
Il calo dei salari e dei redditi servirebbe appunto a esportare di
più, compensando in tal modo la caduta verticale dei consumi. Scelta
quanto mai miope, dal momento che le “viziose” economie mediterranee
stanno sì applicando alla lettera la ricetta, ma con la conseguenza di
ridurre le importazioni e di trasmettere impulsi recessivi alle economie
del Nord Europa. Queste sono le cifre del 2012: caduta delle
retribuzioni reali compresa fra il meno 6 della Grecia e il meno 2,5 per
cento dell’Italia; flessione delle importazioni che avvicina i 10 punti
in Grecia e gli 8 punti in Italia; Pil europeo diminuito dello 0,4 nel
2012 e che rimarrà fermo nel 2013.
La ricetta proposta dalle autorità europee è ormai definita in
letteratura come “l’austerità che sconfigge se stessa”, ma dal momento
che le ideologie sono dure a morire, non sembra di vedere concreti segni
di resipiscenza nei paesi fautori del rigore a ogni costo. Il problema è
però che i costi stanno diventando molto alti. Se decliniamo a livello
micro i dati aggregati fin qui considerati, scopriamo che nel triennio
2012-2014 una famiglia operaia potrebbe sperimentare una riduzione del
proprio consumo di oltre 1.800 euro, 600 euro in meno ogni anno. Prevale
dunque il passo del gambero, per cui i redditi, invece di aumentare nel
tempo, scivolano all’indietro, ponendoci nella sgradevole condizione di
constatare come oggi si stia peggio di ieri, ma meglio di domani.
Difficile pensare di poter resistere ancora a lungo in questa
situazione. La tendenza naturale di un sistema economico è di crescere e
di garantire miglioramenti di benessere. A questi semplici principi è
ora che torni a ispirarsi la politica economica dell’Italia e
dell’Europa intera.
da Rassegna.it
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