Complice
un perdurante malessere, seguo con più insofferenza del solito i
contorsionisti della politica italiana, da Pierluigi Bersani
all’ossidato Monti, da Berlusconi alla new entry Beppe Grillo: la
commediaccia parlamentare messa in scena in questi ultimi giorni di
Quaresima è assai più scontata, nei contenuti, di una Via Crucis paesana e, quanto a pathos, non c’è proprio paragone.
Il canovaccio pare scritto da un
Plauto in crisi d’ispirazione: Tizio corteggia Beppa, che però non ne
vuol sapere, ed è vanamente inseguito da (rea) Silvia, ansiosa di
accasarsi, ma tenuta a distanza per la pessima fama.
In realtà, la situazione è solo un
po’ più complicata, e dal palco giungono zaffate d’ipocrisia. Digerita
la “non vittoria” elettorale (l’espressione, coniata dopo le
amministrative parmigiane, è sua, e terminato il pezzo gliela renderemo
volentieri), Bersani ha mutato strategia: non più matrimonio d’interesse
con Monti, ma svoltina a sinistra. Come mai? Semplice: per non
confessare (ai suoi, più che a se stesso) di aver fallito, ed evitare
l’immediato pensionamento. Il tentativo di dar vita ad un governo fuori
dagli schemi è l’estrema carta da giocare, per Pierluigi: larghe intese,
esecutivi “di scopo” e soprattutto nuove elezioni segnerebbero la sua
fine politica, fuori e dentro il partito. Insomma, meglio tergiversare,
prendere tempo, che arrendersi: l’italiano si affida sempre alla
benevolenza della dea bendata.
Da un certo punto di vista,
l’apertura al M5S è stata una buona mossa, perché ha avuto il duplice
effetto di rincuorare un poco i sostenitori del PD, avviliti dall’esito
elettorale, e di gettare la palla, debitamente avvelenata, nel campo
grillino. Se Bersani non ha vinto, malgrado i sondaggi favorevoli, è
perché molti elettori di sinistra si sono decisi, nel finale, a
voltargli le spalle e votare Grillo; il segretario lo sa, e prova – con
parole accuratamente studiate – a riconquistarseli: domani potrebbero,
all’occorrenza, fare una croce sul simbolo del PD, ma oggi hanno
la concreta (?) possibilità di farsi sentire all’interno del movimento, e
“ammorbidire” il capo. Un azzardo, quello bersaniano? Diremmo piuttosto
una scommessa, vista la mancanza di alternative praticabili, e
probabilmente un imbroglio: in campagna elettorale il segretario
piddino è stato più onesto che nel dopopartita, e il suo unico “errore” è
stato quello di essere meno telegenico di Matteo Renzi. Se avesse
ottenuto il famigerato 51%, la dirigenza democratica, come promesso,
avrebbe richiamato Monti – perché il governo di legislatura avrebbe
dovuto essere la fotocopia di quello c.d. tecnico. Quando la prospettiva
di governare appariva realistica, nessuno si sarebbe azzardato a tirar
fuori “otto punti” (per quanto generici) come quelli marzolini:
bisognava rassicurare i mercati, le loro gazzette e la signora Merkel –
vale a dire i “grandi elettori”, quelli che contano prima e dopo,
ma non sempre, disgraziatamente, al momento del voto. Incassata (si fa
per dire) la non vittoria, Pierluigi si è sentito messo all’angolo, ma –
paradossalmente – più libero di manovrare rispetto a prima: nelle
odierne democrazie il ruolo delle opposizioni sistemiche è quello di
criticare i presunti “eccessi” del sistema medesimo, imprigionando nella
scheda la rabbia sociale, e le profferte “di sinistra” ad eletti ed
elettori grillini potrebbero essere la conseguenza del mutamento di
scenario. Ecco il populismo del XXI secolo: a seconda che facciano parte
o meno della maggioranza, partiti e movimenti adoperano due linguaggi
diversi, imperniati, rispettivamente, sul “realismo” e sull’“ideale”.
Esiste un’altra chiave di lettura, forse più convincente: Bersani è un
morto (politico) che cammina, perciò viene lasciato sfogare. Le sue
fantasmagorie si esauriranno in un lampo.
Per fidanzarsi bisogna essere in due
e, com’è noto, Beppe Grillo non ci sta. Cerchiamo di capire il perché,
senza sbrigliare troppo l’immaginazione. L’ex comico genovese ha
assemblato con cura un’armata guerrigliera, adatta all’imboscata e alle
incursioni parlamentari – ma non immaginava che i suoi diventassero il
primo partito alla Camera, e l’ago della bilancia al Senato. La mission era fare opposizione in maniera spettacolare, non governare, e cambiare in corsa è oltremodo arduo.
Come abbiamo già scritto (insieme a
molti altri), Grillo si trova adesso in una posizione scomoda: se
dicesse sì al governo, diventerebbe – agli occhi di tantissimi elettori –
un politicante qualunque; opponendo un no pregiudiziale scontenterebbe
però i sostenitori dell’ultima ora, quelli che l’hanno scelto come extrema ratio.
Potrebbe cavarsi d’impiccio facendo, come suggerisce qualcuno, una
proposta inaccettabile (per il PD), ma sensata: via gli otto punti,
sostituiamoli con cinque o sei dei nostri – quelli più qualificanti – e
poi si governa insieme, ma alle nostre condizioni. Che ne dite di
un pacchetto con dentro reintroduzione dell’articolo 18, varo del
reddito di cittadinanza e diminuzione dell’orario lavorativo a 30 ore
settimanali? In fondo, queste idee hanno incontrato il consenso delle
piazze, e metterebbero il PD con le spalle al muro: Hic Rhodus, hic salta!
Peccato che l’esortazione valga anche per il cabarettista
rivoluzionario: raramente ad infuocate parole di “estrema sinistra”
seguono i fatti, specie quando c’è di mezzo l’interesse proprio ed
altrui. Beppe Grillo è sostenuto sia da lavoratori dipendenti impauriti –
se ne contavano a migliaia in ogni piazza dello Tsunami tour –
che da imprenditori medi e medio-grandi, benestanti tagliati fuori dal
paradiso finanziario. Ad Agorà ne abbiamo udito uno – presumibilmente
veneto, tipicamente semianalfabeta – inveire contro Landini “che non
saprebbe mandare avanti una fabbrica” (accusa singolare, rivolta a un
sindacalista) e che guida un sindacato che incita allo sciopero anziché a
lavorare. Questo bel tipo ha annunciato che trasferirà la fabbrica
all’estero, e poi si è messo a giocherellare col telefonino: lo sforzo
reiterato del conduttore di aprire un canale comunicativo tra
sindacalista e padrone è stato frustrato, più che dall’innegabile
beceraggine di quest’ultimo, dal fatto obiettivo del conflitto di interessi tra
le parti, che il grillismo cerca di nascondere dietro la tenda della
crisi. Basta un grugnito padronale per smascherare Grillo: non si può fare una rivoluzione che metta d’accordo sfruttatore e sfruttato –
anzi, la si può anche fare (Francia 1848), ma l’idillio dura
pochissimo, e alla fine vince il più preparato, quello provvisto di
mezzi.
Il problema non sono gli slogan
semplificatori, che al contrario vanno benissimo, perché – come ci
insegnano le Tesi d’aprile, obliate dalla sinistra criptica – servono a
motivare le masse; il fatto è che il genovese parla con lingua
biforcuta, e la parrucca rossa sfoggiata a fine campagna elettorale è
risultata solo un espediente acchiappavoti. Un partito che finge di
voler dar voce a media (non
soltanto piccola!) borghesia e proletariato sarà pronto, al momento
opportuno, a imporre la museruola a chi “vale” meno: a dirlo è la
Storia, non un insignificante commentatore triestino.
Niente controproposta, dunque: il
M5S resta appollaiato sul suo confortevole Aventino, sperando che gli
altri “inciucino” alla svelta. Berlusconi, invece, proclama a destra e a
manca di essere disponibile a sostenere un governo a guida Bersani, si
appella alla responsabilità altrui e sguinzaglia le sue ninfe televisive
(l’algida Repetto è ovunque, ma il messaggio è preregistrato). In
cambio si accontenta di “poco”: la Presidenza della Repubblica per sé o
per Letta senior. Meglio il Gatto o la Volpe, al Quirinale? La
sua è, com’è ovvio, una provocazione, un no sonante travestito da sì: se
il PD acconsentisse all’infame baratto, scenderebbe, alle prossime
elezioni, sotto le percentuali del PdAC. Intanto il cavaliere mette a
segno un colpo da maestro: sfrutta la vergognosa vicenda dei marò per
gettare (meritato) discredito su un Governo Monti ormai alla frutta
secca. Monti avrebbe infangato il buon nome dell’Italia: parzialmente
vero, ma – al di là della precisazione che il nome è già incrostato di
fango secolare – stupisce, o dovrebbe stupire, che la predica venga da
un pulpito su cui amicizie e accordi internazionali sono stati
stracciati in nome dell’interesse di altre potenze (v. vicenda
Gheddafi).
Come andrà a finire ‘sta storiaccia?
Molti tireranno i propri bilanci alla conclusione – prossima – della
prima puntata, noi vedremo di farlo a tempo debito. Per ora annotiamo
quanto segue: Bersani si arrenderà, ma le elezioni immediate non le
vuole nessuno. Non le vuole Berlusconi, nonostante si dica certo di
vincerle (è probabile: gli elettori sono, malauguratamente, italiani),
perché il governo di una situazione ingovernabile gli procurerebbe solo
grattacapi; le aborriscono Bersani – perché segnerebbero, come detto, il
suo definitivo tramonto -, il suo entourage “turco” – Fassina e
compagnia bella finirebbero per strada – e l’intero Partito Democratico
che, Renzi o non Renzi, rischierebbe un ignominioso terzo posto. Non le
desidera Beppe Grillo, la cui strategia è chiara: favorire un governo
brancaleone contro cui poter sparare a palle incatenate come nel
progetto iniziale, dando tempo ad un elettorato perplesso di scordare le
ambiguità e i giochi di prestigio del capo carismatico, che ogni tanto
trolleggia se stesso. In ogni caso, l’ultima parola spetterà ai mercati
che, per precauzione, stanno già scaldando i motori dello spread.
L’apparente sconfitto, Mario Monti,
sembra oggi il vincitore di giornata: la bagarre assicura la
“necessaria” continuità, il prossimo premier sarà verosimilmente un suo sosia.
Un ritiro dal proscenio non arrecherebbe duratura amarezza al
bocconiano: la missione è stata diligentemente compiuta, e all’ombra
della Trilateral si gode una piacevole frescura, mentre il sole del
capitalismo autoritario arroventa le pietre su cui poggiamo i piedi.
Siamo a un passo
dalla Rivoluzione? Alziamo lo sguardo dai libri, e vedremo solo il
Calvario: domani, dopo tre giorni, e per i mesi a venire.
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