Scandali, crisi di singoli istituti, ipotesi di riforma del
sistema finanziario, provvedimenti di Banca d’Italia. Che sta succedendo
nelle banche italiane?
Scandali, crisi di singoli istituti, ipotesi di riforma del sistema
finanziario, provvedimenti di Banca d’Italia. Che sta succedendo nelle
banche italiane?
Le banche di Cipro e i loro disastri finanziari sono sulle prime
pagine dei giornali. Ma, nelle ultime settimane, c’è stato molto altro.
Un hedge fund statunitense è costretto dalla SEC a pagare una multa di 600 milioni di euro per mettere a tacere un’accusa di insider trading.
JP Morgan è stata accusata da una commissione del Senato statunitense
di aver nascosto informazioni importanti sulle grandi perdite incorse di
recente dall’istituto sul mercato dei derivati, mentre la Standard
Chartered è accusata di aver trafficato clandestinamente con l’Iran.
Infine, per non dimenticare l’Europa, i giornali tedeschi danno la
notizia che alcune banche del paese avrebbero frodato il fisco per
diversi miliardi di euro.
La riforma del sistema finanziario, intanto, non riesce a decollare.
Il comitato di Basilea che si occupa delle norme relative ai livelli di
capitale e di liquidità ha pubblicato uno studio che mostra come le più
grandi banche del mondo – che si erano a suo tempo opposte in modo
virulento alle misure introdotte – abbiano fatto progressi
nell’aumentare i livelli di capitale. Mancano ora soltanto 208 miliardi
di euro di fondi freschi per raggiungere l’obiettivo finale, che è
fissato per il 2019. Un traguardo facile da raggiungere, perfino troppo facile.
È uscito da poco un libro sul sistema bancario – A. Admati e M. Hellwig, The bankers’ new clothes: what is wrong with banking and what to do about it,
Princeton University Press, Princeton, 2013 – che offre un’analisi
completa delle cause della crisi finanziaria, mostra che tali cause non
sono scomparse e sostiene che, quindi, le difficoltà ritorneranno. Le
banche, affermano gli autori, presentano una fragilità finanziaria che
non è contingente ma sistematica. Si tratta di istituzioni molto
pericolose, il cui modello economico porta alla bancarotta e che
dovrebbero essere protette da se stesse, aumentando fortemente i
capitali propri.
Il libro mostra come l’opposizione delle banche all’aumento dei
coefficienti di capitale abbia molte ragioni, tra le quali il fatto che
esso porta a una diminuzione della redditività, che era cresciuta a suo
tempo proprio perché gli istituti si assumevano rischi più elevati di
prima sia sul fronte della gestione operativa, con la speculazione
selvaggia sul mercato, che su quello della struttura di capitale, con un
rapporto capitali propri/debiti che era sceso a livelli bassissimi.
Tutto questo sapendo che, in caso di difficoltà, sarebbe poi corsi al
socorso i pubblici poteri.
Di fronte a degli obiettivi fissati da Basilea di un 7,5% di mezzi
propri sul totale delle attività per le banche ordinarie e del 9,5% per
quelle portatrici di un rischio sistemico, i due autori sottolineano che
tali livelli sono del tutto insufficienti e che dovrebbero essere
invece portati al 20-30%.
Da questo punto di vista, qual è la situazione delle banche italiane?
Subito dopo lo scoppio della crisi si pensava che le banche del nostro
paese se la fossero cavata meglio di altre, e almeno in parte era vero;
ma la ragione non stava nella superiore capacità dei nostri istituti di
gestire le cose, ma nel fatto che erano di qualche anno in ritardo
rispetto all’”innovazione finanziaria” delle loro omologhe europei e
statunitensi e non avevano ancora avuto il tempo di assimilare le novità
tossiche inventate altrove. Poi le cose sono cambiate.
Con l’avanzare della crisi, la crescita del sistema si è bloccata, i
margini di redditività si sono assottigliati e i singoli istituti hanno
rivisto le strategie, riducendo gli eccessi passati. Si è assistito così
a riduzioni del personale e al taglio delle filiali, alla vendita di
attività, riduzione della presenza estera, outsourcing.
Mentre si svolgevano tali operazioni, è venuta alla luce la crisi di
diversi istituti, spesso coniugata con qualche scandalo. È questo il
caso del Monte dei Paschi di Siena, della milanese BPM, che ha chiuso il
conto economico del 2012 con una perdita di 430 milioni, della Carige,
con un risultato negativo di 63 milioni di euro, della Banca delle
Marche, con una perdita di 520 milioni, per citarne solo alcuni tra i
più importanti. Intanto si parla delle difficoltà di molti altri
istituti, grandi e piccoli.
Che cosa sta succedendo? Intanto c’è la forte crescita dei prestiti
alla clientela che non vengono onorati alla scadenza; con l’aggravarsi
della crisi tali difficoltà sono destinate ad aumentare. Le sofferenze
lorde sono cresciute in un anno di quasi 20 miliardi di euro, e quelle
al netto dei fondi di accantonamento sono passate da un’incidenza del
12,7% sui mezzi propri del gennaio 2012 al 16,8% del gennaio 2013.
Accanto alla crisi – che è un fenomeno “oggettivo” – pesano scelte
sbagliate: un’ingiustificata sovraesposizione di molti istituti verso
alcuni settori, tipicamente l’immobiliare e verso alcuni clienti, in
molti casi imprenditori “amici”. E poi vengono alla luce veri e propri
episodi di corruzione.
Nel frattempo, il credito alle imprese e ai privati continua a
ridursi. Nel gennaio e febbraio 2013 il precedente trend negativo è
continuato indisturbato. Da un confronto con gli altri grandi paesi
dell’Europa continentale risulta che la nostra situazione è peggiore di
quella di Francia e Germania – paesi nei quali il livello del credito
alle imprese continua a crescere, sia pure a tassi ridotti – e migliore
soltanto di quella spagnola.
Su tali difficoltà si sono abbattuti i recenti, perentori,
suggerimenti della Banca d’Italia, che ha indicato alle banche la
necessità di aumentare gli accantonamenti al fondo svalutazione crediti,
in particolare per quanto riguarda i crediti al settore immobiliare e
l’esigenza di ridurre la distribuzione di dividendi. Via Nazionale ha,
naturalmente, come punto di riferimento i coefficienti di Basilea sopra
ricordati. Si tratta di indicazioni importanti e condivisibili, dettate
dalla tangibile evidenza che molte banche nascondevano almeno una parte
dei guai sotto il tappeto. Ma queste indicazioni hanno scatenato una
furiosa e contraria campagna di stampa. Come al solito, le banche non
hanno il coraggio di esporsi in prima persona e si rivolgono quindi a
qualche giornale amico.
Il risultato del diktat di Bankitalia è stato, tra l’altro,
di evidenziare la grande debolezza di molti istituti che in passato
sembravano registrare risultati molto positivi. Così, con le tante
incertezze economiche e politiche che segnano in questo momento il caso
italiano, le banche italiane oggi appaiono quelle più a buon mercato
d’Europa. I titoli Unicredit e Intesa Sanpaolo – banche che pure
sembrano essere in linea con i nuovi coefficienti di Basilea – vengono
scambiati rispettivamente al 50% e al 60% al loro valore contabile
tangibile, contro una media di 100% per il sistema bancario europeo.
Persino gli istituti spagnoli ottengono quotazioni migliori.
Alle difficoltà oggettive si è unita ora la questione di Cipro con
l’imposizione di una pesante tassa sui depositi. Molti hanno cominciato a
pensare, non senza qualche fondamento, che prima o poi toccherà anche
all’Italia e alla Spagna e nei prossimi mesi è possibile che si avvii
una sotterranea corsa al ritiro di depositi dagli istituti del nostro
paese. L’orizzonte si oscura ancora.
Siamo di fronte a un circolo vizioso tra difficoltà bancarie,
riduzioni nei livelli del credito alla clientela, pessimo andamento
dell’economia reale. Tale circolo vizioso potrebbe essere spezzato
soltanto, da una parte, sul fronte dell’economia reale, con l’avvio di
una politica di sviluppo del paese, dall’altra su quello finanziario,
dall’avvio dell’Unione bancaria a livello europeo, che peraltro non
appare di imminente costituzione, o da forti aumenti dei mezzi propri
degli istituti, aumento che non si sa come innescare. Le fondazioni
bancarie sono ormai allo stremo e non hanno molte risorse, i privati non
hanno molta voglia di intervenire, affidarsi al capitale estero non
appare per molti versi opportuno. Pensiamo da tempo che una possibile
via di uscita, almeno parziale, potrebbe risiedere nella
nazionalizzazione di qualche importante istituto di credito, una scelta
che contribuirebbe a far ripartire il credito alle imprese. Occorre poi
mobilitare una parte delle risorse della Cassa Depositi e Prestiti e di
quelle dei fondi pensione, come proposto di recente. Senza un cambio di
marcia sulla finanza, i tempi diventeranno ancora più bui.
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