sabato 30 marzo 2013

Jannacci, la gioiosa follìa dei semplici di Enrico Campofreda


Ciò che colpiva e restava nel profondo dei versi, delle frasi chiamateli come volete, surreali di Jannacci era scritto nella realtà. Un mondo più ossa che carne, come la faccia del cantautore.
Un ambiente fatto di stranezze che appaiono tali a chi vive di stereotipi, a chi ha fretta o non vuol guardare e teme la diversità. Nell’epoca del boom e della trasformazione sociale il neorealismo suggestivo che trovava sincopati tattattero nelle strofe delle sue canzonette era pieno del sentimento di chi lavora da subalterno, arrangia l’esistenza o vive ai margini coi mestieri più improbabili. Eppure veri come il ‘palo’ dell’Ortiga. Di Armandi e Vincenzine erano piene le periferie industriali, e tali le borgate di ‘Accattoni’. Era un popolo di facce concrete o stralunate che però non imitavano nessuno e, seppure amavano mode che proprio l’esotismo musicale diffondeva, le facevano proprie per tenere frizzante l’umore di fronte alla vita agra d’ogni giorno.

Per amare e raccontare scorci e personaggi relegati in fette di città che cambiavano volto e gradualmente sparivano alla stregua della via Gluck si deve far parte di quel mondo per radici o tendenza di vita. Il Vincenzo in arte Enzo riuniva in sé le due motivazioni, pur parlando milanesissimo conosceva l’intercalare dei milanesi (e diremo torinesi, genovesi) del Tac’ e del lontanissimo sud insediati in quelle città. Nell’altra sua professione essere medico di gente comune gli apriva spaccati di bisogno non solo di salute. Questa società rimase profondamente presente nelle nostre arti per tutti gli anni Sessanta. Sentivamo un buon profumo nei tanti personaggi, spesso macchiettistici, regalati dai sensibili giganti che calcavano palcoscenici famosissimi, senza decretare a priori a chi attribuire la patente di “famoso”. Sorridevamo di gusto, piangevamo lacrime vere perché in quelle storie c’era la nostra Storia.

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