Ripensare
lo sciopero, trovare l’equivalente funzionale della forma-sindacato,
costruire processi di generalizzazione. Ecco i rovelli con cui ci
confrontiamo da anni, da quando cioè la nuova composizione del lavoro
vivo e le trasformazioni produttive hanno reso inservibili o quasi
molti degli strumenti organizzativi del passato. A fronte di tali nodi
gordiani abbiamo fatto fatica ad andare al di là dell’enunciazione,
magari dell’allusione simbolica, comunque a superare la semplice
constatazione di ciò che non funziona più. Ancora una volta sono le
lotte a indicarci forse non delle soluzioni, ma certamente delle
corpose ipotesi verso cui direzionare le riposte. Così è per i blocchi e
gli scioperi selvaggi dei lavoratori della logistica, in quello che
ormai – per le caratteristiche comuni, per l’estensione e per la durata –
possiamo definire un vero e proprio ciclo di lotte. É su questa base
che è stato convocato per venerdì 22 marzo lo sciopero generale dei
lavoratori della logistica: non sarà un semplice evento, ma un passaggio
di straordinaria importanza che si colloca dentro un processo di
accumulo di conflitti e di ulteriore espansione. Prima e dopo il 22 i
facchini delle cooperative che gestiscono la circolazione delle merci
del centro-nord Italia non faranno straordinari, per ribadire che
vogliono colpire sul serio gli interessi della controparte. Definirlo
uno sciopero di settore sarebbe riduttivo e probabilmente anche
fuorviante, perché è proprio la settorialità che queste lotte stanno
mettendo in discussione, ponendo con forza le questioni della
generalizzazione e della ricomposizione.
Rottura della frammentazione e composizione di classe
I lavoratori della logistica al centro delle lotte, in particolare i facchini, sono nella loro quasi totalità migranti.
Ci vuole poco a capirne i motivi: la ricattabilità a cui sono
sottoposti dalla legislazione esistente li spinge ai livelli bassi
della gerarchia del mercato del lavoro, quelli in cui i confini tra
occupazione e lavoro nero si dissolvono completamente, i contratti sono
delle formalità di cui i padroni si disfano facilmente, l’intensità
dello sfruttamento non conosce regole e limiti. Nel sistema delle
cooperative, modello della sinistra e principale nemico degli operai,
le gerarchie del comando sono molto nette e articolate: si va dai
vertici dell’impresa a una rete di caporali e spie, passando per un
ordinario uso di bande mafiose che colpiscono le figure di riferimento
delle lotte (auto bruciate, minacce e aggressioni, ecc.). Proprio da
questa condizione estrema, però, i migranti diventano il paradigma
della precarietà contemporanea, quindi dell’intera composizione del
lavoro vivo.
Se a partire dal 2002 le mobilitazioni contro la legge Bossi-Fini
sono state animate da un classico schema anti-razzista e solidaristico,
magari necessario ma certo non sufficiente, con queste lotte sono i
rapporti di sfruttamento nel loro complesso a essere attaccati, e al
loro interno i processi di inclusione subordinata dei migranti. Il salto
di qualità è illustrato con chiarezza da un facchino della Tnt di
Piacenza proveniente dal Marocco: “i padroni mi hanno provocato una
malattia: il razzismo. Ero diventato razzista contro i miei compagni di
lavoro di altre nazioni, i capi dicono ai marocchini che i tunisini
sono più bravi, ai tunisini dicono che sono più bravi gli egiziani o i
romeni. Con la lotta contro lo sfruttamento ci siamo uniti e abbiamo
sconfitto anche il razzismo. Ora sappiamo che siamo tutti uguali perché
siamo dei lavoratori”. In altre parole, le lotte compongono in una
cooperazione sovversiva ciò che lo sfruttamento capitalistico, dentro
cui razzismo e razzializzazione sono tra i dispositivi più violenti,
tenta continuamente di separare e gerarchizzare. É dal riconoscimento in
una condizione comune – quella “di chi deve portare a casa il pane” –
che si stanno dunque costruendo i processi di lotta e soggettivazione.
Perciò il razzismo, ci dicono, si distrugge combattendo lo
sfruttamento. Da questa conquista non si può tornare indietro.
D’altro canto, l’aggettivazione migrante dell’essere lavoratori è
importante non solo dal punto di vista dei dispositivi di
subordinazione, ma anche per le forme del conflitto. Mohamed Arafat,
figura trainante nel polo della logistica piacentino, ci ha spiegato
l’importanza delle “primavere arabe”: “per noi è stato come in Egitto:
la rivoluzione della Tnt”. Distruggere i dispositivi di frammentazione
razziale significa quindi, al contempo, creare uno spazio transnazionale
di circolazione delle lotte, delle pratiche di conflitto e
dell’immaginazione rivoluzionaria. Qui si forma la composizione politica
del lavoro vivo globale, irriducibile ad astratta omogeneità e,
proprio per questo, capace di esprimersi con linguaggi comuni.
Lo sciopero deve far male ai padroni
I lavoratori delle imprese della logistica raccontano che il loro
primo contatto con il sindacato avviene per faccende prevalentemente
burocratiche (permesso di soggiorno, ricongiungimenti famigliari, moduli
da sbrigare). É il rapporto con un’agenzia di servizio: ancora una
volta, da questa angolazione parziale si possono cogliere bene delle
trasformazioni complessive della forma-sindacato. Per il resto, i
confederali sono nei casi migliori assenti e nei peggiori, i più
frequenti, interamente complici del padrone e del sistema delle
cooperative. Se propongono uno sciopero, è rituale e simbolico:
“tradizionale” viene chiamato dai lavoratori, incapace di colpire gli
interessi materiali dei padroni, ha l’esclusivo fine di esporre
pubblicamente le condizioni di miseria e dunque di rappresentare delle
vittime private di parola e soggettività. “Questi scioperi non li
facciamo, sono inutili. E non ci vengano a parlare di sciopero della
fame, perché noi la fame la facciamo ogni giorno. Ora che la faccia il
padrone!”. É allora dal rifiuto dello sciopero dimostrativo, e del
soggetto che lo rappresenta, che la mobilitazione comincia. Anche la
(apparente) passività in circostanze determinate può divenire una forma
di lotta, come già ci spiegava Romano Alquati all’inizio degli anni
Sessanta.
“Bisogna far male ai padroni”, ripetono i lavoratori. E lo sanno fare
a partire da una precisa conoscenza del ciclo produttivo: quando
colpire, dove bloccare, come farlo. Ad esempio, dopo aver scioperato in
novembre, alla Coop Adriatica di Anzola (il più grande deposito
dell’Emilia Romagna, centro di distribuzione per tutte le “coop rosse”
della regione) la partita sembrava persa. A febbraio invece le lotte
sono ripartite: sabato 23 i picchetti – cominciati come sempre ben prima
che l’alba facesse capolino sulla fredda pianura padana – hanno
impedito l’ingresso a decine e decine di crumiri reclutati dai caporali
di altre città e regioni, da Cesena al Friuli. Ma non era ancora
sufficiente: è quando si sono bloccati i camion con le merci, di fronte
al profilarsi di centinaia di milioni di euro persi in prodotti da
buttare e di scaffali dei supermercati vuoti, che il padrone ha ceduto,
convocando il delegato S.I. Cobas e accettando tutte le principali
rivendicazioni dei lavoratori.
In questo modo i lavoratori la fanno finita con il piano puramente
simbolico e rituale dello sciopero, si riappropriano dello strumento e
lo rideclinano dentro e contro i processi di accumulazione capitalistica
contemporanea. La produzione di immaginario smette di essere un
elemento separato o peggio ancora di sostituzione rappresentativa e
torna a vivere dentro la materialità delle lotte. Per agire su questo
livello un sindacato serve, però non per delegare a esso la lotta o
farsi rappresentare: il sindacato che i lavoratori cercano e che hanno
trovato nel S.I. Cobas o nell’Adl Cobas, deve al contrario mettere la
propria struttura al servizio della loro organizzazione autonoma, deve
cioè prestarsi all’uso operaio. Insomma, il sindacato serve per fare le
lotte, oppure non serve a niente.
Oltre lo sciopero: il nodo della ricomposizione
Il ciclo di conflitto dei lavoratori della logistica ha riportato al
centro dell’agenda politica un tema che per i movimenti italiani
sembrava quasi dimenticato: la vittoria. Bartolini, Ikea, Coop
Adriatica, solo per citare tre tra i molti esempi di lotte che
raggiungono l’obiettivo e che si stanno moltiplicando. “Prima eravamo
schiavizzati, dopo la lotta è cambiato tutto”, taglia corto un
lavoratore. La violenza dei livelli repressivi (ripetute cariche della
polizia, denunce, fogli di via – il più recente, di tre anni da
Piacenza, è stato comminato ad Aldo Milani, coordinatore nazionale del
S.I. Cobas) sono tanto feroci quanto inefficaci: costituiscono la misura
della paura che queste lotte hanno destato nella controparte. Le
principali rivendicazioni riguardano la cancellazione dei meccanismi di
ricatto delle cooperative e della discrezionalità padronale degli orari
di lavoro, i ritmi, il pagamento delle festività, il salario –
“vogliamo aumenti uguali per tutti”, puntualizza Milani. Il salario,
dunque, torna in queste lotte a divenire questione politica, dopo un
lungo periodo in cui era stato ridotto a elemento di concertazione e di
scambio rispetto alla stabilità occupazionale.
Però, dicevamo, sarebbe sbagliato confinare la forza di questo ciclo
di conflitto al settore della logistica. Negli ultimi mesi abbiamo
visto la partecipazione di studenti, precari e militanti agli scioperi e
ai picchetti, oltre all’organizzazione di iniziative comuni (si pensi a
quella che prima di Natale ha bloccato il punto vendita Ikea di
Bologna). Ultimamente in provincia di Bologna le controparti chiedono
con un certo spavento ai lavoratori: “non è che vengono con voi gli
studenti e i centri sociali?”. Tuttavia, la questione va oltre
l’espressione di solidarietà tra soggetti differenti. Nelle assemblee,
ad esempio, i lavoratori parlano spesso dell’università e della
fondamentale importanza di una mobilitazione studentesca, non solo per
una mera invocazione retorica di unità o di richiesta di sostegno ai
loro picchetti (hanno infatti ampiamente dimostrato di sapersi
organizzare senza grandi aiuti), ma innanzitutto perché direttamente
interessati. Molti sono diplomati o laureati e hanno sperimentato sulla
propria pelle la devalorizzazione della propria forza lavoro a ogni
passaggio di confine. Altri, soprattutto i migranti di seconda
generazione, cercano di pagarsi gli studi o ne sono emarginati dalla
crescita dei costi e dalla decrescita dei livelli di reddito e welfare.
D’altro canto, studenti e precari percepiscono nello sfruttamento e nei
conflitti dei migranti una continuità con le proprie forme di vita
(talora sono addirittura occupati dentro il medesimo perverso sistema
delle cooperative). Complessivamente, nella logistica si condensa un
altissimo accumulo di conoscenze e cooperazione dei saperi, che le
imprese devono tenere separate per governare lo sfruttamento. É a
partire dalla distruzione di questi dispositivi di segmentazione che si
pone, materialmente e non ideologicamente, il nodo della
ricomposizione. Le differenze qui cessano di essere strumento di
frammentazione per farsi rete di una cooperazione comune.
Questo passaggio ha ovviamente bisogno di adeguati processi
organizzativi, al contempo di intensificazione e generalizzazione dei
conflitti: è probabilmente questa la posta in palio oltre il 22 marzo.
Le assemblee di preparazione delle ultime settimane possono forse
costituire dei primi embrionali luoghi comuni per affrontare e
sviluppare questi processi. La scommessa è aperta, e già questo è un
risultato straordinario ottenuto dalle lotte.
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