A chi lo avesse dimenticato, Mario Draghi ha
ricordato il vero governo risiede altrove. Non a Palazzo Chigi, non in
rete, non nelle sempre meno solide pareti di partiti o "movimenti".
L'ha fatto con una telefonata a Giorgio Napolitano, non con una dichiarazione pubblica. Ma non deve essere stata una telefonata “privata”, visto che tutti i giornali sono stati debitamente informati sia dell'avvenuta conversazione che del suo contenuto.
Tema: le possibili dimissioni del presidente della Repubblica, un mese prima della scadenza naturale, in modo da accelerare la nomina di un successore dotato del potere che Napolitano non ha più: sciogliere le Camere e indire nuove elezioni politiche. Ipotesi che Draghi avrebbe sconsigliato con decisione, chiamando in causa la prevedibile reazione negativa – molto negativa – dei mercati finanziari. Mentre si contano i cadaveri della crisi dell'eurozona (la Slovenia sta per sostituire Cipro sulle prime pagine, mentre Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda sono solo momentaneamente in secondo piano; e anche Lussemburgo e Lettonia sono in lista d'attesa), non era il caso di presentare la terza economia dell'area come un paese senza più istituzioni in piedi. Quindi “tecnicamente” irresponsabile della propria evoluzione agli occhi dei partner continentali.
Quindi, suggeriva la voce da Francoforte, Napolitano doveva restare al suo posto fino a fine mandato o a governo formato. Nel frattempo Monti può proseguire la sua opera, secondo le indicazioni provenienti dalla Troika.
Ma la piccola “tempesta perfetta” nel bicchier d'acqua italiano, come spiegavamo già un mese fa all'indomani del risultato elettorale, non ha soluzioni costituzionalmente possibili. A meno di un cedimento clamoroso di una delle tre aree politiche principali (un sì grillino a un govermo Pd, o un sì piddino a un'alleanza con Berlusconi, o tra Pdl e M5S).
La nomina di 10 “saggi” che dovrebbero individuare le riforme condivise, sul piano economico come su quello politico, è un insulto all'unica istituzione che dovrebbe rappresentare la sovranità popolare: il Parlamento. Se la “saggezza riformista”, infatti, può essere rintracciata solo fuori delle Camere, queste vengono duramente delegittimate proprio sul terreno loro proprio, quello legislativo (ovvero il “fare riforme”, possibilmente condivise ma anche no). Quanti inneggiano come sempre alla “fantasia politica” di Napolitano dovrebbero cominciare a fare i conti con la sua prassi, sempre al limite, e spesso oltre, della Costituzione. O perlomeno del suo “spirito”, mai come ora ombra di Banquo”.
Il pasticcio pasquale dei “saggi lottizzati” – tra Pd, berlusconiani, montiani e persino un leghista – ha senso solo per prendere tempo. Da qui al 15 aprile, quando si aprirà come da procedura la fase dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Altrimenti si tramuterebbe in un vizio costituzionale invalidante, se davvero dovessero “elaborare” qualcosa che poi diventa vincolante per i partiti e il Parlamento.
Ma anche questo ennesimo “strappo” alle procedure costituzionali – al pari del cripto-totalitarismo grillino – segnala che la prassi della democrazia parlamentare non regge più la violenza degli interessi contrapposti. I costi della crisi vanno pagati da qualcuno, e qui si è aperta la partita, dando per scontato – e verificato – che il lavoro dipendente non ha più rappresentanza politica, culturale, ideale, programmatica.
E se il centrodestra si presenta come il bastione della conservazione di privilegi impresentabili (eredità delle vecchie rendite di posizione create e garantite dalla Dc), se il Pd tiene in vita i residui del “compromesso tra produttori” sbilanciato a favore delle imprese, il grillismo è andato a pescare nel mare magnum della precarietà esistenziale-occupazionale creato dai primi due fronti.
Non è la prima volta che si verifica una situazione sociale e istituzionale del genere, in cui a un pieno di risentimento e frammentazione sociale corrisponde un vuoto di progetti, credibilità, istituzioni. La “strategia” di Grillo ha una faccia retorica para-”rivoluzionaria” – “tutti a casa, comanderemo noi” – ma non controlla un movimento con disponibilità di “forza militare”. L'eventuale tracollo istituzionale, dunque, non sarebbe gestito da lui, ma di chi “la forza” ce l'ha ed è disposto ad usarla. Ma nell'Unione europea questa forza si esprime in forme sovranazionali, non banalmente golpiste da operetta.
La telefonata di Draghi è il richiamo all'ordine da parte di questi poteri. La primavera del conflitto sociale deve guardare – e contrastare – a chi comanda davvero, non alle povere figure che si agitano sulla scena. E che non significano nulla...
L'ha fatto con una telefonata a Giorgio Napolitano, non con una dichiarazione pubblica. Ma non deve essere stata una telefonata “privata”, visto che tutti i giornali sono stati debitamente informati sia dell'avvenuta conversazione che del suo contenuto.
Tema: le possibili dimissioni del presidente della Repubblica, un mese prima della scadenza naturale, in modo da accelerare la nomina di un successore dotato del potere che Napolitano non ha più: sciogliere le Camere e indire nuove elezioni politiche. Ipotesi che Draghi avrebbe sconsigliato con decisione, chiamando in causa la prevedibile reazione negativa – molto negativa – dei mercati finanziari. Mentre si contano i cadaveri della crisi dell'eurozona (la Slovenia sta per sostituire Cipro sulle prime pagine, mentre Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda sono solo momentaneamente in secondo piano; e anche Lussemburgo e Lettonia sono in lista d'attesa), non era il caso di presentare la terza economia dell'area come un paese senza più istituzioni in piedi. Quindi “tecnicamente” irresponsabile della propria evoluzione agli occhi dei partner continentali.
Quindi, suggeriva la voce da Francoforte, Napolitano doveva restare al suo posto fino a fine mandato o a governo formato. Nel frattempo Monti può proseguire la sua opera, secondo le indicazioni provenienti dalla Troika.
Ma la piccola “tempesta perfetta” nel bicchier d'acqua italiano, come spiegavamo già un mese fa all'indomani del risultato elettorale, non ha soluzioni costituzionalmente possibili. A meno di un cedimento clamoroso di una delle tre aree politiche principali (un sì grillino a un govermo Pd, o un sì piddino a un'alleanza con Berlusconi, o tra Pdl e M5S).
La nomina di 10 “saggi” che dovrebbero individuare le riforme condivise, sul piano economico come su quello politico, è un insulto all'unica istituzione che dovrebbe rappresentare la sovranità popolare: il Parlamento. Se la “saggezza riformista”, infatti, può essere rintracciata solo fuori delle Camere, queste vengono duramente delegittimate proprio sul terreno loro proprio, quello legislativo (ovvero il “fare riforme”, possibilmente condivise ma anche no). Quanti inneggiano come sempre alla “fantasia politica” di Napolitano dovrebbero cominciare a fare i conti con la sua prassi, sempre al limite, e spesso oltre, della Costituzione. O perlomeno del suo “spirito”, mai come ora ombra di Banquo”.
Il pasticcio pasquale dei “saggi lottizzati” – tra Pd, berlusconiani, montiani e persino un leghista – ha senso solo per prendere tempo. Da qui al 15 aprile, quando si aprirà come da procedura la fase dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Altrimenti si tramuterebbe in un vizio costituzionale invalidante, se davvero dovessero “elaborare” qualcosa che poi diventa vincolante per i partiti e il Parlamento.
Ma anche questo ennesimo “strappo” alle procedure costituzionali – al pari del cripto-totalitarismo grillino – segnala che la prassi della democrazia parlamentare non regge più la violenza degli interessi contrapposti. I costi della crisi vanno pagati da qualcuno, e qui si è aperta la partita, dando per scontato – e verificato – che il lavoro dipendente non ha più rappresentanza politica, culturale, ideale, programmatica.
E se il centrodestra si presenta come il bastione della conservazione di privilegi impresentabili (eredità delle vecchie rendite di posizione create e garantite dalla Dc), se il Pd tiene in vita i residui del “compromesso tra produttori” sbilanciato a favore delle imprese, il grillismo è andato a pescare nel mare magnum della precarietà esistenziale-occupazionale creato dai primi due fronti.
Non è la prima volta che si verifica una situazione sociale e istituzionale del genere, in cui a un pieno di risentimento e frammentazione sociale corrisponde un vuoto di progetti, credibilità, istituzioni. La “strategia” di Grillo ha una faccia retorica para-”rivoluzionaria” – “tutti a casa, comanderemo noi” – ma non controlla un movimento con disponibilità di “forza militare”. L'eventuale tracollo istituzionale, dunque, non sarebbe gestito da lui, ma di chi “la forza” ce l'ha ed è disposto ad usarla. Ma nell'Unione europea questa forza si esprime in forme sovranazionali, non banalmente golpiste da operetta.
La telefonata di Draghi è il richiamo all'ordine da parte di questi poteri. La primavera del conflitto sociale deve guardare – e contrastare – a chi comanda davvero, non alle povere figure che si agitano sulla scena. E che non significano nulla...
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