Il flop del Movimento 5 Stelle in Friuli è evidente. La tesi autoassolutoria è che le regionali non possono essere interpretate come spia del sentire nazionale. Certo. Anche a febbraio il M5S prese il 25% alla Camera e molto meno alle consultazioni di Lombardia, Lazio e Molise.
Il “voto di protesta”
è più forte su scala nazionale, mentre a livello locale e regionale si
scelgono – spesso – concretezza e persona (e in Friuli ha vinto la
Serracchiani, non il Pd). Era però emblematico il servizio di lunedì a Piazzapulita:
in ogni piazza friulana, Grillo veniva accusato di “non sporcarsi le
mani”, di “giocare”, di “non assumersi responsabilità”. Se Grillo è tra i
pochissimi ad avere il coraggio di affrontare di persona le
contestazioni (mentre le Finocchiaro e i Franceschini continuano a
vivere su Plutone), tradisce al contempo la difficoltà di spiegare una iper-coerenza
percepita come causa primaria dello stallo. La mossa di Rodotà ha
portato a un trionfo unicamente morale. Il Parlamento, sordo quanto si
vuole ma pur sempre dominante, ha incoronato Napolitano Bis. Ovvero
l’anticamera dell’inciucio. Esaurita la delusione per la vittoria di
Pirro, le criticità si ripresentano.
L’atteggiamento
ottuso del Pd, ribadito anche ieri da una direzione caricaturale e
arrogante, spingerà il Movimento (di per sé a maggioranza ortodossa) ad
assecondare una opposizione totale. La linea sarà: “Ci abbiamo provato
con Rodotà, non ci avete ascoltato e adesso fanculo”. Coerente, ma dagli
esiti concreti impalpabili. Il M5S ha raccolto 163 parlamentari:
troppi per interpretare il ruolo dei “sempre-contro”, come potevano
fare (forse) le Democrazie Proletarie e i Radicali. La crisi economica e
un consesso di politicanti tanto improponibili quanto smaliziati
obbligano il Movimento a scendere a patti con se stesso. Restare a
guardare è lecito, ma l’elettore comune continuerà a domandarsi: “Che ci stanno a fare quelli lì?”.
Al netto dei Mastrangeli, novelli martiri di professione che fanno quasi rimpiangere i Favia, la dialettica tra ortodossi e dialoganti rimane.
Anche il sindaco di Parma Pizzarotti ha dichiarato: “Meglio le larghe
intese che niente”. Grillo, apparso domenica a Roma più deluso che
incendiario, ieri è tornato a parlare di vomiti e apocalissi. In larga
parte ha ragione, ma così argomentando rischia di essere percepito come
il Savonarola che ti ricorda che dobbiamo morire ma che nulla fa per
impedire il decesso dei fedeli/elettori. Giocare di rimessa è coerente,
ma pure comodo: il Movimento non può eludere tale critica.
Le
elezioni hanno partorito un obbrobrio parlamentare che non permette
utopie a lungo termine: il presente è troppo stringente. La
disoccupazione morde, e al gioco dello scaricabile Pd & Pdl son
molto più bravi del M5S. C’è ancora chi, con bizzarra onestà
intellettuale, addebita a Grillo la colpa della rielezione di Napolitano.
Con i media in larga parte avversi, e una classe politica interessata
anzitutto a sopravvivere, la verità storica (bastava votare Rodotà per
evitare lo sfacelo) conta meno delle riduzioni semplicistiche (“E’ colpa
di Grillo che ha detto no a Bersani”, “E’ colpa del Movimento che non
ha votato Prodi”).
Anche l’entità numerica delle Quirinarie (ci
volevano otto giorni per contare 28.518 voti? L’uomo del futuro
Casaleggio usa ancora il pallottoliere?) ha già rincuorato i gattopardi
grulli del cerchiobottismo: “Ma come? Il Rodotà voluto dalla piazza è
stato votato soltanto da 4677 persone?”. Non conta replicare che, se la
modalità è stata un po’ fantozziana, l’esito finale ha coinciso con un
nome capace di unire le speranze di milioni di italiani: la percezione
(che in Italia conta più del reale) resta quella di un Movimento che “sa
solo criticare” e finge di condannare l’inciucio ma in realtà ne è
intimamente attratto, perché foriero di nuovi trionfi su scala nazionale
(come attesterebbero i sondaggi).
Vincere (forse) sulle macerie o
sporcarsi col rischio di perdere, restando (forse) vivi? E’ un bivio
ingiusto, ma spietatamente vero.
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