1. Alle origini della crisi
Nei principali media nazionali e internazionali, la crisi scoppiata
nel 2007 è stata raccontata così. La crisi è crisi finanziaria, deriva
da una deregolamentazione eccessiva dei mercati finanziari ed è, in
ultima analisi, imputabile all’eccessiva avidità degli speculatori e
degli operatori finanziari. Ciò che nella terminologia corrente viene
definito il greed. La si risolve, o la si attenua,
conseguentemente, ponendo un freno all’espansione non controllata della
sfera finanziaria e riducendo gli stipendi dei manager delle
grandi imprese. La gran parte degli economisti liberisti fa propria
questa interpretazione e i principali provvedimenti di politica
economica attuati a seguito dei numerosi vertici internazionali
dell’ultimo biennio si sono coerentemente mossi lungo questa strada.
La radicale debolezza di
questa tesi sta nel fatto che essa presuppone una sfera finanziaria
totalmente autonoma rispetto all’economia reale, ovvero che l’economia
reale possa risentire dell’instabilità finanziaria ma non generarla. A
ben vedere, tuttavia, i nessi di causa-effetto si verificano semmai
esattamente in senso contrario.
La crisi è stata causata da un’enorme e crescente disuguaglianza
distributiva, sia all’interno dell’economia statunitense, sia su scala
globale. L’OCSE riferisce che, negli Stati Uniti, i salari reali medi
nel settore privato si sono quasi dimezzati nel corso dell’ultimo
ventennio, che l’indebitamento delle famiglie sul PIL è cresciuto dal
40% della metà degli anni settanta a circa il 100% del 2008 e che i
profitti industriali sono aumentati di oltre l’80% dal 2000 al 2008. La
caduta dei salari, largamente imputabile alle politiche di accentuata
precarizzazione del lavoro e al sostanziale smantellamento del welfare state,
è la principale causa del massiccio ricorso al credito al consumo,
favorito da politiche di bassi tassi di interesse: il tasso di sconto
della FED si è ridotto dal 6.5% del gennaio 2001 all’1% del giugno 2003.
Al tempo stesso, le banche statunitensi hanno cominciato a concedere
crediti – sotto forma di mutui a tasso variabile, garantiti grazie alla
complicità delle agenzie di rating - anche a individui totalmente privi di garanzie reali, i cosiddetti Ninja (No Income, no Job and Assets), assecondando l’American Dream Downpayment Initiative (ADDI) del
dicembre 2003, finalizzato – nelle intenzioni dichiarate – a consentire
anche agli individui meno abbienti l’acquisto di un’abitazione. Ne è
seguito l’aumento della domanda di immobili e, conseguentemente,
l’aumento del loro prezzo. Fatto pari a 100 il prezzo di un immobile di
medie dimensioni negli Stati Uniti nel 2000, si calcola che, al 2008, il
prezzo del medesimo immobile è risultato pari a 220. Al tempo stesso,
l’incremento degli investimenti netti risultava sostanzialmente nullo, e
la gran parte dei profitti delle imprese statunitensi veniva allocato
nei mercati finanziari, generando un incremento esponenziale delle
rendite e degli utili derivanti da scambio di moneta contro moneta con
conseguente contrazione della produzione di beni e servizi. Il Bureau of
Labor Statistics certifica che le rendite finanziarie sono aumentate
del 40% dal 2000 al 2008. Per effetto dell’indebitamento privato e della
crescita delle rendite finanziarie, l’economia statunitense ha svolto
il ruolo di “spugna” assorbente la produzione effettuata in altre aree
(Cina e India in primis), sia di beni di sussistenza, sia di
beni di lusso (acquistati dai percettori di rendite finanziarie), in un
contesto globale nel quale la competizione si è svolta mediante
compressione dei salari e trattamenti fiscali e normativi favorevoli
alle imprese.
Un ingrediente fondamentale delle politiche economiche neoliberiste
consiste nel controllo dell’inflazione mediante aumenti dei tassi di
interesse. Dall’estate del 2003 la FED ha invertito il segno della
politica monetaria, rialzando il tasso di sconto dall’1% al 5.25% fino
alla metà del 2007. Le ragioni di questa scelta sembrano essere almeno
tre. In primo luogo, l’aumento del prezzo degli immobili generava
l’aspettativa di un aumento del livello generale dei prezzi, indotto
dall’aumento dei prezzi delle materie prime necessarie alla loro
costruzione. In secondo luogo, vi è motivo di ritenere che, a seguito
della svalutazione del dollaro operata nel 2002 per favorire le
esportazioni, occorreva rendere più appetibili i titoli denominati in
dollari per evitare la fuga di capitali. In terzo luogo, la guerra in
Iraq, lungi dal rivelarsi una guerra lampo, cominciava a creare problemi
sia per l’enorme aumento dei costi della spedizione militare, sia per
la distruzione di pozzi di petrolio con conseguente aumento del suo
prezzo. L’aumento dei tassi di interesse ha reso sempre più difficile la
restituzione del debito da parte dei lavoratori, fino a generare, con
salari reali in ulteriore declino, insolvenze. Le quali si sono tradotte
in perdite per gli Istituti di credito, che hanno reagito (quando non
sono falliti) restringendo l’offerta di moneta: il cosiddetto credit crunch.
E la restrizione del credito ha avuto immediati effetti sulla
produzione, dal momento che le imprese si sono trovate nella condizione
di non poter finanziare gli investimenti programmati. Da qui, la caduta
del PIL e dell’occupazione, prima negli Stati Uniti, poi – per
meccanismi di propagazione resi molto rapidi dall’accelerazione dei
tempi di produzione e vendita in regime di globalizzazione – in Europa e
su scala globale.
2. Finanziarizzazione e crisi
Questa dinamica è stata accentuata dalla c.d. finanziarizzazione,
ovvero dal fatto che le imprese – soprattutto di grandi dimensioni –
hanno destinato quote crescenti dei loro profitti nei mercati azionari,
generando – su fonte Banca d’Italia – un rapporto fra valore degli
strumenti finanziari e PIL pari, nel 2006, a quasi 8 volte in Italia e a
oltre 10 volte negli Stati Uniti, a fronte di un rapporto circa pari a 3
all’inizio degli anni ottanta. In altri termini, la numerosità delle
transazioni che si svolgono nei mercati finanziari è oggi un multiplo
degli scambi di beni e servizi nella cosiddetta “economia reale”. Si
tratta di un fenomeno relativamente recente, che ha modificato
strutturalmente la relazione fra capitale produttivo e “capitale
fittizio”, le cui cause possono essere individuate in tre fattori. In
primo luogo, e soprattutto per quanto riguarda l’Italia, l’aumento del
rapporto debito pubblico/PIL, dal 60% al 120% nel corso degli anni
ottanta, ha costituito di fatto un potente incentivo a ricorrere ai
mercati finanziari, in una fase – peraltro – caratterizzata da
rendimenti elevati dei titoli di Stato. In secondo luogo, e con
riferimento al complesso delle economie industrializzate e nei tempi più
recenti, viene fatto osservare che la deregolamentazione dei mercati
finanziari ha costituito se non altro una condizione permissiva per la
speculazione. In terzo luogo, si può rilevare che il grado di
finanziarizzazione è cresciuto a partire dall’avvio delle politiche di
deregolamentazione (in particolare del mercato del lavoro) e dalla
svolta neoliberista dei primi anni ottanta. Su fonte OCSE, si rileva che
il labor share (la quota dei salari sul PIL) si è ridotto di
oltre 5 punti percentuali nell’ultimo ventennio, nei principali Paesi
industrializzati, principalmente a ragione delle politiche di
deregolamentazione del mercato del lavoro, con significativa
accelerazione in Italia. Si può quindi stabilire che la
finanziarizzazione è (anche) il prodotto della precarizzazione del
lavoro. Quest’ultima relazione è significativa e di agevole
spiegazione. La caduta dei salari, comportando riduzione dei consumi, ha
indotto le imprese a contrarre la produzione, in un contesto – peraltro
– di continua riduzione della spesa pubblica e, dunque, di contrazione
dei mercati di sbocco. Contestualmente, la caduta dei salari ha
determinato un aumento dei profitti al quale, proprio a ragione della
riduzione della domanda aggregata, non ha fatto seguito un aumento degli
investimenti e dell’occupazione. Gran parte dei profitti ottenuti
mediante deflazioni salariali è stata destinata alla speculazione e, nei
tempi più recenti, alla speculazione sui titoli del debito pubblico,
generando una spirale viziosa che si è articolata in questi passaggi. La
speculazione sui titoli del debito pubblico di singoli Paesi (Grecia in primis)
ha indotto i Governi a ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, al fine
di minimizzare il rischio di un contagio di attacchi speculativi. La
riduzione del debito si è manifestata sotto forma di minore spesa
pubblica e maggiore pressione fiscale, soprattutto a danno del lavoro
dipendente, con ulteriore compressione dei salari, in una spirale
viziosa fatta da riduzioni di gettito fiscale (a causa della minore
occupazione e del fallimento di imprese) seguìti da ulteriori tagli alla
spesa pubblica e da ulteriore riduzione dell’occupazione e del gettito
fiscale.
Nessun Istituto di ricerca internazionale dispone, al momento, di una
previsione ragionevolmente accettabile in ordine ai tempi di
fuoriuscita dalla crisi, e le prescrizioni di politica economica sono
estremamente discordanti. La linea attualmente prevalente si sostanzia
nella riduzione dell’intervento pubblico in economia, e, in particolare,
nella riduzione del debito pubblico. La motivazione ufficiale a
sostegno di questa opzione è la seguente. Livelli ‘eccessivi’ di
indebitamento in rapporto al PIL possono generare ‘attacchi
speculativi’, che, a loro volta, possono determinare il fallimento dei
Paesi più esposti alla speculazione perché più indebitati. Questa
interpretazione è suscettibile di un duplice rilievo critico. Primo: la
riduzione della spesa pubblica, in quanto riduce l’occupazione,
contribuisce a frenare la crescita economica. In tal senso, e
soprattutto quando gli investimenti privati non aumentano (come, di
norma, accade in periodi di crisi), un minore intervento pubblico in
economia si associa a una minore crescita economica. In più, se queste
misure sono pensate per ridurre l’indebitamento pubblico in rapporto al
PIL, si rivelano controproducenti, dal momento che – riducendosi
l’occupazione – si riduce la base imponibile, dunque il gettito fiscale,accrescendo quel
rapporto. A ciò si può aggiungere che la riduzione del PIL può
accrescere il rapporto debito/PIL, per il mero fatto contabile che si
riduce il denominatore. In più, negli anni precedenti la crisi,
l’obiettivo della riduzione dell’indebitamento pubblico veniva
prevalentemente motivato con un argomento che attiene all’equità
intergenerazionale: non è eticamente ammissibile – si sosteneva – far
pagare ai nostri discendenti (in termini di maggiori imposte) le spese
effettuate oggi. Si trattava di una motivazione suscettibile di una
critica di fondo, dal momento che nessuno oggi è in grado di prevedere
chi, perché e quando procederà a mettere i conti pubblici ‘in ordine’,
con maggiore tassazione. Oggi, in regime di crisi e con il rischio della
deflagrazione dell’area euro, la motivazione ufficiale a sostegno della
manovra cambia segno. Non si tratta più di un problema etico, ma di un
problema che attiene alla necessità di scongiurare attacchi speculativi a
danno del Paese. E ciò è necessario anche a costo di determinare un
impoverimento crescente del Paese. Quelli che vengono definiti attacchi
speculativi sono situazioni nelle quali un gran numero di investitori si
muove di concerto vendendo titoli del debito pubblico di un Paese. A
ciò fa seguito la riduzione del valore di quei titoli e la necessità di
collocarli sul mercato con tassi di interesse più alti. In una
condizione di questo tipo, il singolo Stato si trova nella difficile
condizione di dover pagare interessi crescenti per finanziare le proprie
spese, fino ad arrivare a un limite oltre il quale occorre dichiarare
fallimento, ovvero dichiarare di non essere più in grado di ripagare i
debiti contratti. In relazione a questo fenomeno, può porsi un
interrogativo di fondo. Dal momento che nessuno sa cosa esattamente
muove gli speculatori, è giustificabile impoverire il Paese per
scongiurare ciò che non si sa se avverrà, e – se avverrà – non si sa
perché? Non è necessariamente vero, infatti, che gli attacchi
speculativi vengono effettuati solo a danno di Paesi con elevato debito
pubblico. Si possono considerare, a riguardo, due casi. Il primo:
l’attacco speculativo alla Grecia – nella primavera scorsa – è avvenuto
in un contesto nel quale il rapporto debito/PIL in quel Paese superava
di soli 2 punti percentuali quello italiano. Il secondo: la crisi del
2001 in Argentina è scoppiata quando il debito pubblico aveva raggiunto
appena il 63% del reddito nazionale.
Al fondo della motivazione ufficiale si può leggere un diverso
obiettivo. Il modello di sviluppo che si è determinato nel corso
dell’ultimo ventennio è stato concepito sulla base della convinzione che
il depotenziamento del sistema di welfare avrebbe consentito
alle imprese di ottenere maggiori profitti (associati a minori salari
diretti e indiretti) e, dunque, a un maggior tasso di crescita, generato
dal reinvestimento dei profitti stessi. E’ opportuno chiarire che
questo modello presuppone l’esistenza di una duplice precondizione.
a) I profitti accumulati dalle imprese devono essere reinvestiti in
attività produttive e non usati a fini speculativi. Diversamente, viene
meno il meccanismo dell’”accumulazione per l’accumulazione” che è a
fondamento della riproduzione capitalistica e ci si muove in un regime
di ‘finanziarizzazione’, ovvero di acquisizione di profitti mediante
scambio di denaro contro denaro. Il che è precisamente quanto è
accaduto. I profitti delle imprese finanziarie sono aumentati da circa
il 10% dei profitti complessivi al netto delle imposte, nel 1980, a
oltre il 40% del 2007.
b) Il reinvestimento dei profitti può generare crescita economica a
condizione che vi sia crescita della produttività (o almeno non una sua
riduzione). Su quest’ultimo aspetto, le rilevazioni disponibili
segnalano che, in tutti i Paesi OCSE, il tasso di crescita della
produttività del lavoro è stato significativamente più alto negli anni
settanta rispetto al ventennio successivo. Sia sufficiente ricordare
che, su fonte OCSE, l’Italia ha registrato la più elevata dinamica della
produttività del lavoro nel 1976 (+6%, a fronte del –1.5% del 2009) e
che la più elevata dinamica della produttività del lavoro negli Stati
Uniti si è avuta nel 1971 (3.9%). In altri termini, i Paesi
industrializzati hanno sperimentato la più alta crescita economica nei
periodi nei quali è stata maggiore la spesa pubblica ed è stato maggiore
il potere contrattuale dei lavoratori. E tuttavia, a fronte di questa
evidenza, i principali Governi dei Paesi OCSE (l’Europa in primis, Italia
inclusa) perseverano nel cercare di fuoriuscire dalla crisi con
politiche economiche che segnano un ulteriore passo indietro rispetto
alla tutela dei diritti dei lavoratori e delle garanzie offerte dallo
Stato sociale. Sperare di far ripartire la crescita economica mediante
riduzioni della spesa pubblica in regime di crisi significa, in fondo,
non essere molto lontani da un atto di fede.
3. Il caso italiano: da Berlusconi a Monti
C’è da dubitare che lo tsunami finanziario che ha investito
l’Italia nell’estate 2011 sia interamente imputabile alla scarsa
credibilità del Governo Berlusconi, sebbene sia indiscutibile che quella
esperienza di governo sia stata caratterizzata da un immobilismo
irresponsabile. Per dimostrarlo, occorre ripercorrere sinteticamente ciò
che è accaduto negli ultimi mesi, e chiarire preliminarmente i termini
del problema. Dalla scorsa estate, l’Italia è stata oggetto di ‘attacchi
speculativi’ di inaudita intensità, ovvero di vendita in massa di
titoli del debito pubblico, con successiva difficoltà nel collocarli sui
mercati anche a tassi di interesse elevati. La riduzione del prezzo dei
titoli di Stato implica, infatti, che il tasso di interesse ottenibile
dai risparmiatori aumenta, ponendo lo Stato italiano nella condizione di
dover offrire un tasso più elevato per i nuovi titoli emessi.
E’ così aumentato il differenziale dei rendimenti fra i titoli
italiani – in particolare i buoni del Tesoro con scadenza decennale – e i
titoli del debito pubblico tedeschi, prefigurando una condizione nella
quale lo Stato italiano potrebbe trovarsi impossibilitato a ripagare il
debito contratto con i sottoscrittori dei buoni del Tesoro e dichiarare
fallimento.
L’opinione dominante fa propria la convinzione secondo la quale
questo fenomeno sia stato, in ultima analisi, determinato dal basso
tasso di crescita dell’economia italiana (il che è condivisibile) e,
soprattutto, dalla scarsa credibilità del Governo in carica (il che dà
adito a qualche dubbio). Innanzitutto, va chiarito – ove ve ne fosse
bisogno – che non è possibile dare una misurazione della ‘credibilità’
di un’Istituzione. Stando all’opinione dominante, la credibilità di un
Governo la si concepisce – in questa fase, e nel nostro caso – sulla
base del rispetto delle ‘raccomandazioni’ della Banca Centrale Europea.
Le quali – è opportuno ricordarlo – suggeriscono misure di austerità
ancora più drastiche rispetto a quelle fin qui messe in atto: riduzione
della spesa pubblica, maggiore precarizzazione del lavoro e facilità dei
licenziamenti, privatizzazioni, liberalizzazioni, aumento dell’età
pensionabile, riduzione dei costi della pubblica amministrazione e suo
snellimento, con possibile riduzione degli stipendi – e maggiore
mobilità – dei lavoratori del settore pubblico.
La convinzione che gli attacchi speculativi siano mossi dalla scarsa
credibilità del Governo non sembra trovare adeguati riscontri empirici.
Nell’aprile 2011 lo spread fra Btp e Bund tedeschi era circa pari a 120
ed è rimasto sostanzialmente stabile fino ad agosto. Nell’agosto scorso
si è registrato un picco di 350 punti base, al quale ha fatto seguito
una significativa flessione durante il mese di settembre. A ciò ha fatto
seguito un’ulteriore impennata, che ha portato i differenziali a circa
600 punti base, con successiva riduzione di 100 punti. Fra aprile ed
ottobre non si registrano iniziative governative di rilevanza tale da
determinare queste oscillazioni. E non si capisce per quale ragione, a
fronte dell’immobilismo governativo, i cosiddetti “mercati” abbiano
generato questa volatilità. Si potrebbe avanzare la congettura secondo
la quale la risposta del Governo Berlusconi alla lettera della BCE degli
inizi di agosto sia stata ritenuta eccessivamente vaga e che, per
questa ragione, il Governo abbia improvvisamente perduto credibilità. Ma
appunto di congettura si tratta e, dunque, di qualcosa che andrebbe
dimostrato.
La domanda più rilevante che occorre porsi, e che pare del tutto
oscurata nel dibattito italiano, è banalmente cosa sono i mercati ai
quali si fa qui riferimento, e, per conseguenza, quali fattori –
economici e politici – muovono la speculazione. E’ una domanda centrale,
dal momento che l’impopolarità dei provvedimenti che i “mercati”
implicitamente chiedono (e che l’Unione europea esplicitamente
raccomanda) può essere politicamente giustificata solo se vi sono
ragioni cogenti e di massima urgenza per attuarli. E’ chiaro che, in
questa materia, data l’opacità che caratterizza le transazioni
finanziarie su scala globale, è facile scivolare in teorie del
complotto. Ma, a fronte di questo, alcune indicazioni possono essere
fornite. “Milano Finanza” ha recentemente riferito che “sui mercati si è
diffusa la voce che sia stata Goldman Sachs a innescare le vendite di
Btp, poi seguita dagli hedge funds e dalle altre banche
d’oltreoceano”. Goldman Sachs è la più grande banca d’affari al mondo,
ha guidato numerosi processi di privatizzazione e, secondo la classifica
stilata annualmente dalla Vault, risulta anche essere la banca più
prestigiosa del mondo. Il fatto che Goldman goda di elevata reputazione
la candida naturalmente come leader della speculazione sui
titoli del debito pubblico. Ciò a ragione del fatto che, come rilevava
Keynes, la speculazione è “l’arte di capire cosa gli altri operatori di
mercato pensano riguardo al futuro” e, stando alla sua ben nota
metafora, per indovinare quale ragazza vincerà un concorso di bellezza
non conta il giudizio del singolo, ma la capacità del singolo di capire
come voterà la maggioranza dei giurati. In altri termini, l’attività
speculativa è basata su meccanismi che hanno a che vedere con
convenzioni ed effetti di imitazione, così che, se uno speculatore è
ritenuto altamente affidabile, è ‘razionale’ per chi lo segue fare le
stesse mosse.
Un recente comunicato di Goldman Sachs così recita: “Un governo
tecnico [in Italia] avrebbe una maggiore credibilità rispetto ad altri
esecutivi”. Il prof. Mario Monti è stato vicepresidente di Goldman
Sachs. In prima approssimazione, non sembra difficile concludere che gli
equilibri politici in Italia siano (quantomeno) profondamente
influenzati da una banca di Jersey City. Si tratta di una conclusione di
prima approssimazione, dal momento che questa congettura non spiega
interamente la volatilità degli acquisti/vendite dei titoli del debito
pubblico italiano. Vi è di più. La storia recente insegna che gli
attacchi speculativi sono seguiti da ondate di privatizzazioni e di
compressioni salariali (e dei diritti dei lavoratori): è accaduto in
Italia a seguito della crisi del 1992, sta accadendo in Grecia. Su
queste basi, si può affermare che gli attacchi speculativi sui titoli
del debito pubblico italiano non hanno nulla a che vedere con le
dimensioni del debito stesso, hanno poco a che vedere con i
“fondamentali” della nostra economia (non peggiori dei nostri principalipartner europei)
e che, dunque, sono mossi, in ultima analisi, dalla convinzione che un
esecutivo ‘tecnico’ – per di più guidato da un uomo che ha lavorato per
le Istituzioni che guidano la speculazione – realizzi un programma di
politica economica che consenta l’acquisizione di patrimonio pubblico
nazionale: niente altro che il dominio della finanza sulla politica.
4. Le politiche di austerità
“Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e, per questa
ragione, i tagli della spesa pubblica e l’aumento della pressione
fiscale sono ora inevitabili. E’ quanto reiteratamente ripetono il prof.
Monti, i nostri ministri e i commentatori che ne sostengono la linea di
politica economica. Si tratta di un messaggio facilmente comunicabile,
dal momento che associa (in modo fallace) il bilancio di una famiglia
con il bilancio dello Stato, e, al tempo stesso, del solo messaggio che
può essere veicolato nel presente fragilissimo assetto istituzionale
dell’Unione Monetaria Europea. In altri termini, si può ragionevolmente
sostenere che le misure di austerità – e i “sacrifici” a queste connessi
– sono inefficaci per l’obiettivo che si propongono1, sono deleteri ai fini della coesione sociale2 e che, tuttavia, sono inevitabili nell’attuale configurazione dell’Eurozona.
1) L’equiparazione del bilancio familiare con il bilancio di uno
Stato è un’equiparazione fallace, dal momento che, mentre per una
famiglia esiste un limite oltre il quale risulta insostenibile
l’indebitamento (limite dato dall’impossibilità di ripagare il debito,
con le sanzioni che ne derivano) ciò non accade per uno Stato, dal
momento che il suo debito può espandersi ad infinitum, data
l’ovvia condizione di trovare chi ne acquista i titoli In un assetto
istituzionale nel quale sia data alla Banca Centrale questa possibilità
(il che non è nell’attuale legislazione europea), potendo la Banca
Centrale produrre moneta senza vincoli di scarsità3, il debito pubblico può crescere appunto senza incontrare limiti. Come riconosciuto da molti autorevoli economisti, non è possibile stabilire un limite di sostenibilità del debito pubblico, ovvero,
sul piano strettamente teorico, il limite di sostenibilità del debito
pubblico non può che derivare da scelte di ordine politico, dunque
estranee a un calcolo puramente economico4.
Semplificando: mentre esiste un tribunale che sanziona l’inadempienza
di una famiglia, non esiste un tribunale che sanziona l’inadempienza
(ammesso che di questo si tratti) di uno Stato.
Vivere al di sopra delle nostre possibilità, nell’accezione che viene
data a questa tesi, significa aver tenuto per troppi anni elevata la
spesa pubblica e bassa la tassazione. Il naturale corollario di ciò
consiste nell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione,
così come voluto dalla Cancelliera Merkel. Occorre preliminarmente
rilevare che la Germania, nel 2009, si è data l’obiettivo del pareggio
di bilancio entro il 2016 e quello dei bilanci federali entro il 2020,
mentre l’Italia dovrà conseguire questo risultato entro il 2013. La
motivazione ufficiale che obbliga l’Italia a più rapide e incisive
misure di austerità è quella ossessivamente ripetuta nel corso
dell’ultimo biennio: l’Italia ha un debito pubblico eccessivamente
elevato, così che rischia di non riuscire a collocare i propri titoli di
Stato sui mercati finanziari, con conseguente necessità di venderli con
rendimenti più alti, dando luogo a un aumento dello spread rispetto ai
bund tedeschi e all’eventualità del fallimento. Alcuni dati (su fonte
EUROSTAT) possono essere sufficienti per destituire di fondamenta la
tesi governativa. Nel periodo 2001-2009, la spesa pubblica in
percentuale al PIL Italia è stata sostanzialmente in linea con la media
europea: il 48% fra il 2001 e il 2007, a fronte di una media UE del
46.5%, il 48% nel 2008 a fronte di una media europea di circa il 47% e
il 51.9% del 2009 contro una media europea di circa il 50%. E’
interessante rilevare che, nel periodo preso in considerazione, la
Francia ha sempre speso più dell’Italia (il 52% del PIL nel 2001-2007,
il 52.8% del 2008, il 55.6% del 2009), e che la spesa pubblica in
Germania, nel medesimo intervallo temporale, è stata mediamente
inferiore a quella italiana di solo un punto percentuale in rapporto al
PIL. Le entrate derivanti da tassazione, nell’ultimo decennio, sono
state sempre maggiori in Italia rispetto alla media europea. In altri
termini, nell’ultimo decennio, la spesa pubblica italiana in rapporto al
PIL non è stata significativamente maggiore della spesa pubblica
europea, mentre l’imposizione fiscale è stata notevolmente più alta. Da
ciò si può dedurre che, quantomeno nell’ultimo decennio, l’Italia ha
vissuto “al di sopra delle loro possibilità” meno di quanto hanno fatto i
principali partner europei. E, a fronte di questo, ci viene chiesta un’ulteriore accelerazione nella direzione del rigore di bilancio.
2) Le politiche di austerità sono sostanzialmente inevitabili
nell’attuale assetto istituzionale europeo, la cui crisi si snoda
intorno a un triplice conflitto distributivo: il conflitto
intercapitalisticointerno all’UE (fra aree centrali e aree
periferiche, con conseguente crescente impoverimento assoluto e relativo
di queste ultime), il conflitto intercapitalistico fra Germania e Stati
Uniti, che fa perno sull’obiettivo della Germania di accrescere le
quote di mercato delle sue imprese nei mercati internazionali (il che
richiede l’attuazione di politiche fiscali espansive nei Paesi extra-UE e
il deprezzamento del tasso di cambio euro-dollaro) e, non da ultimo, il
conflitto capitale-rendita finanziaria, che si manifesta sotto forma di
attacchi speculativi a danno principalmente dei Paesi con bassi tassi
di crescita e persistenti disavanzi dei conti con l’estero, dal momento
che bassi tassi di crescita ed elevato indebitamento con l’estero sono
indicatori di bassa competitività di un Paese e di elevato rischio di
insolvenza5.
Incidentalmente, occorre rilevare che non vi è nessuna evidenza che
segnala che la speculazione è correlata a elevati debiti pubblici: può
essere qui sufficiente ricordare, a titolo esemplificativo, che nella
primavera 2010, in occasione del primo attacco speculativo sui titoli
greci, la Grecia aveva un rapporto debito/PIL di soli due punti
percentuali superiore a quello italiano; che l’attacco speculativo
all’Argentina, nei primi anni Duemila, si verificò in una condizione
nella quale l’Argentina aveva un rapporto debito/PIL di poco superiore
al 40% e che, ad oggi, il debito pubblico in rapporto al PIL in Giappone
– Paese immune da attacchi speculativi – supera il 220%.
L’inevitabilità delle politiche di austerità non deriva dal fatto che
solo così facendo si riduce il rapporto debito pubblico/PIL e si
minimizza, conseguentemente, il rischio di vendita in massa di titoli
del debito pubblico. Questa è la vulgata, basata su una falsa
premessa (e, per conseguenza, su una conclusione falsa), giacché le
politiche di austerità semmai accrescono (o comunque non riducono) il
rapporto debito/PIL. L’inevitabilità delle politiche di austerità deriva
semmai dall’assetto gerarchico venutosi progressivamente a consolidare
in Europa, così che la politica dell’Unione è decisa di fatto dal
Governo tedesco, sulla base degli interessi materiali che difende
(essenzialmente quelli delle imprese esportatrici tedesche). Se così si
pone la questione, risulta inutile chiedere alla signora Merkel di
adottare una linea di politica economica meno rigida: si tratta di una
richiesta non ricevibile giacché contraria agli interessi della base
elettorale che sostiene il Governo tedesco. L’esperienza di questi
ultimi mesi ha chiaramente dimostrato che essa si scontra con
l’”ostinazione” del Governo tedesco e che, anche quando viene accolta,
si traduce in misure una tantum, spesso insufficienti, e
che soprattutto non aggrediscono i problemi strutturali dell’Unione.
Problemi strutturali che, come evidenziato da numerosi economisti,
risiedono nella mancata integrazione politica europea, e che
potrebbero trovare soluzione nell’istituzione di un unico bilancio
federale e nell’attribuzione alla BCE del ruolo di prestatore di ultima
istanza. Con ogni evidenza, si tratta di un processo niente affatto
agevole6, che, tuttavia, potrebbe rendersi possibile i) laddove
il rischio di deflagrazione dell’Eurozona – e del venir meno del
mercato comune – diventi talmente alto da indurre il Governo tedesco a
rivedere la propria strategiaii) o nel caso in cui il
prefigurare la fuoriuscita dall’euro soprattutto da parte di Paesi che
contribuiscono in modo significativo al PIL dell’eurozona, importatori
di beni tedeschi venga utilizzato come strumento di persuasione per
rinegoziare le condizioni di permanenza nell’Unione. E’ significativo
rilevare che, nelle ultime elezioni del Parlamento europeo, i partiti
“progressisti” italiani presentarono programmi che si muovevano
sostanzialmente in questa direzione7. Resta da chiedersi se questi programmi sono ritenuti ancora attuali e, soprattutto, per quali ragioni sono stati disattesi.
5. La legittimazione teorica delle politiche di austerità e i loro effetti
Le politiche di austerità trovano la propria legittimazione
‘scientifica’ in un indirizzo di ricerca – ampiamente coltivato nel
corso degli anni novanta e nel primo decennio del Duemila – che fa
riferimento ai c.d. “effetti non keynesiani delle politiche fiscali
espansive”. Si tratta di effetti così sintetizzabili.
1) La riduzione della spesa pubblica accresce i consumi. La
riduzione della spesa pubblica pone i consumatori nella condizione di
non essere costretti a risparmiare per far fronte al pagamento delle
imposte. La ratio di questa proposizione risiede nella tesi in
base alla quale l’indebitamento pubblico – derivante da aumenti della
spesa pubblica – costituisce un trasferimento dell’onere fiscale sulle
generazioni future. In quest’ottica, nel caso in cui il Governo decida
di accrescere oggi la spesa pubblica, e che questo sia un segnale
pubblicamente osservabile, le famiglie sanno che dovranno risparmiare
oggi per pagare più tasse domani. Questa tesi – che rinvia alla c.d.
equivalenza ricardiana – poggia su due ipotesi essenziali. In primo
luogo, occorre assumere che gli individui abbiano perfetta capacità
previsionale e che, dunque, sappiano quando la pressione fiscale aumenterà e di quanto aumenterà.
Occorre poi assumere che gli individui siano altruisti nei confronti
delle generazioni future, così che – conoscendo la tempistica e il
futuro aumento della tassazione – trasmettano ai propri discendenti una
quantità di risorse monetarie tale da consentire a questi ultimi di
pagare le tasse8.
Questa tesi è stata oggetto delle seguenti obiezioni9.
In primo luogo, si può rilevare che a maggior reddito disponibile oggi
corrispondono maggiori lasciti ereditari e, dunque, maggior reddito
disponibile a beneficio delle generazioni future. A ciò si può
aggiungere che la decisione di aumentare l’imposizione fiscale è una
decisione propriamente politica, così che non vi è nessuna
ragione stringente che leghi l’aumento del debito pubblico oggi
all’aumento della tassazione domani. In secondo luogo, come messo in
evidenza, in particolare, in ambito postkeynesiano, le scelte
individuali sono effettuate in condizioni di “incertezza radicale”, così
che le aspettative non possono realisticamente essere assunte
razionali, bensì dipendenti da ondate di ottimismo/pessimismo, da
effetti di imitazione, consuetudini, abitudini.
2) La riduzione della spesa pubblica accresce gli investimenti privati. Ciò
si verifica a ragione del fatto che la spesa pubblica ‘spiazza’ la
spesa privata, sia perché sottrae quote di mercato agli operatori
privati (il che accade soprattutto se lo Stato interviene mediante la
produzione diretta di beni e servizi), sia perché l’aumento della spesa
pubblica accresce i tassi di interesse e, per conseguenza, riduce gli
investimenti. E poiché si assume che l’operatore privato è più
efficiente dell’operatore pubblico10,
ne deriva che un’economia con la minima “interferenza” pubblica sia
un’economia nella quale è massima l’efficienza produttiva (e, date le
risorse disponibili, è massimo il tasso di crescita). Ne deriva che è
compito del Governo manovrare la politica fiscale in modo da ridurre
l’indebitamento pubblico, a fronte del fatto che, in questo contesto, è
semmai la politica monetaria a dover essere gestita con segno espansivo,
in modo da contribuire a generare crescita11.
Si tratta, anche in questo caso, di una tesi controversa,
suscettibile di una duplice critica. In primo luogo, le decisioni di
investimento da parte delle imprese private non dipendono esclusivamente
dai tassi di interesse, essendo profondamente influenzate dagli animal spirits degli
imprenditori. In secondo luogo, si ritiene che sussistano nessi di
complementarietà fra spesa pubblica e spesa privata, dal momento che la
spesa pubblica, accrescendo i mercati di sbocco, accresce i profitti
attesi e, di conseguenza, accresce gli investimenti12.
Se, tuttavia, si accoglie la tesi secondo la quale la riduzione della
spesa pubblica accresce consumi e investimenti privati, ne deriva che le politiche di austerità sono espansive.
Il biennio 2010-2012 è stato caratterizzato da una forte
accelerazione delle. politiche di austerità, nella gran parte dei Paesi
aderenti all’Unione Monetaria Europea, con particolare riferimento ai
c.d. PIIGS. In linea generale, le politiche di austerità si manifestano
sotto forma di riduzione della spesa pubblica e di aumento
dell’imposizione fiscale, assumendo come parametro di riferimento il
pareggio del bilancio pubblico13.
Nel periodo considerato, queste politiche sono state attuate in Italia
attraverso numerosi provvedimenti emanati in un intervallo temporale
relativamente breve: la Legge Finanzaria 2010 (Legge 23 dicembre 2009,
n.191), la Legge di Stabilità 2011 (Legge 13 dicembre 2010, n.220), la
Legge di Stabilità 2012 (Legge 12 novembre 2011, n. 183), il Disegno di
legge di stabilità 2013, il D.L. n. 201/ 2011, c.d. “SalvaItalia”, – Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici., il D. L. n. 87 /2011 -
Misure urgenti in materia di efficientamento, valorizzazione e
dismissione del patrimonio pubblico. di razionalizzazione
dell’amministrazione economico-finanziaria, nonché misure di
rafforzamento del patrimonio delle imprese del settore bancario, il D.L. n. 152/ 2012, convertito con modifiche in Legge n.94/2012 c.d. “Spending Review”, - Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica, il D. L. n. 95 /2012 (Spending review 2) – Riduzione della spesa a servizi invariati.
Si tratta, con ogni evidenza e come messo in evidenza da pressoché
tutti gli economisti italiani, di misure recessive. Sia qui sufficiente
richiamare i seguenti dati: il tasso di disoccupazione è passato dal 7%
del 2009 all’11% del 2012, con un tasso di disoccupazione giovanile che
si attesta intorno al 38% al novembre 2012; sono circa 200 le crisi
aziendali in corso; l’Italia sperimenta la più diseguale distribuzione
del reddito fra i Paesi OCSE e il più elevato grado di immobilità
sociale, insieme a UK e USA. Infine – dato estremamente rilevante –
mentre le politiche di austerità sono pensate per ridurre l
rapporto debito pubblico/PIL, esse generano l’effetto opposto: il
rapporto debito/PIL è aumentato di 7 punti percentuali dal 2011 al 2012,
decretandone la palese irrazionalità14 che non può non spiegarsi con l’altrettanto palese irrazionalità dell’architettura istituzionale di questa Europa.
6. L’irrazionale architettura istituzionale europea
Fra i “compiti a casa” che l’Unione Monetaria Europea ci chiede di
fare c’è anche la riduzione dei c.d. costi della politica. Va detto che
la convinzione diffusa – “anti – casta” – secondo la quale i costi della
politica, in Italia, sono eccessivamente elevati andrebbe
ridimensionata alla luce dei fatti. Su fonte Ministero dell’Economia e
delle Finanze, si calcola che i fondi pubblici destinati ai partiti sono
in costante diminuzione e che, dal 2013, saranno di importo inferiore a
quelli erogati ai partiti politici rappresentati nel Parlamento tedesco15. Il
problema appare, dunque, connesso a ragioni di equità e di
legittimazione del sistema, ma, per quanto riguarda il dato puramente
contabile, non sembra che di problema (rilevante) si tratti. D’altra
parte – ed è cosa ovvia – la politica costa e merita di essere ricordato
che la politica costa anche per consentire di praticarla a chi,
diversamente, non potrebbe permetterselo.
L’ideologia “anti-casta” è ancor più privata di fondamento se ci si
riferisce alla convinzione – anch’essa assai diffusa – che la gran parte
delle tasse pagate dai contribuenti italiani serva a foraggiare partiti
politici ed Enti locali (province, innanzitutto) “inutili”. L’aumento
vertiginoso della pressione fiscale, soprattutto nel corso del 2012, che
ha raggiunto il massimo storico del 57% a gennaio 2013, è servito in
larghissima misura a generare avanzi di bilancio destinati alla
contribuzione italiana al bilancio generale dell’Unione Europea. Su
fonte Ragioneria Generale dello Stato, si registra che l’Italia è, da
anni, un contributore netto del bilancio europeo e che i versamenti
effettuati sono stati di gran lunga superiori ai rientri, in particolare
nel corso del 201216. Gli ordini di grandezza dei costi della politica e dei costi del mantenimento di questa Europa sono incomparabili17. Ma ciò che maggiormente conta è interrogarsi sull’uso che, in Europa, viene fatto delle risorse prelevate ai contribuenti.
Lo schema sul quale regge l’attuale assetto dell’Unione Monetaria è
così schematizzabile, almeno per quanto riguarda l’Italia: aumento della
tassazione → aumento dei contributi erogati al c.d. Fondo Salva Stati →
aumento dei profitti bancari → speculazione bancaria sui titoli del
debito pubblico, configurando una gigantesca operazione di
ridistribuzione del reddito dal lavoro (e dal capitale) alla rendita
finanziaria. Si tratta di un’architettura che contiene tre fondamentali
elementi contraddittori, se, come dichiarato, l’obiettivo è ripristinare
un sentiero di crescita economica.
1) L’attività speculativa delle banche è destabilizzante, sia perché
costituisce un pericoloso potenziale “boomerang” (non potendosi
escludere nuove ondate di attacchi speculativi sui nostri titoli
pubblici trainati proprio dalle banche che, come contribuenti,
finanziamo), sia perché è alla base della restrizione del credito. In
altri termini, potrebbe considerarsi razionale un’operazione di
“salvataggio” di istituti di credito se finalizzata a porre le
condizioni per il finanziamento degli investimenti. La si può decretare
del tutto irrazionale se, come sta accadendo, finisce per porre le
condizioni per alimentare ondate speculative.
2) L’attività speculativa delle banche può anche manifestarsi con
operazioni – più o meno riuscite – di fusioni o acquisizioni. Ciò rende
il mercato del credito sempre più monopolistico. L’aumento del potere
contrattuale delle banche nei confronti delle imprese genera un aumento
dei tassi di interesse applicati sui finanziamenti degli investimenti e,
dunque, una riduzione degli investimenti e, a seguire, dell’occupazione
e del tasso di crescita. Si osservi che nel caso in cui (come per il
Monte dei Paschi di Siena) queste operazioni non abbiano successo, lo
Stato è chiamato – per l’obiettivo della tutela del risparmio – a
interventi di “salvataggio” (circa 4 miliardi di euro per il Monte dei
Paschi di Siena).
3) Per quanto riguarda, in particolare, l’economia italiana, la
sequenza delineata sopra non fa che accelerare la recessione,
innanzitutto per gli effetti che la restrizione del credito esercita
sugli investimenti. Vi è di più. La restrizione del credito pone le
imprese nella condizione di poter competere solo riducendo i salari (o
licenziando, o a non assumendo), per l’ovvia ragione che il vincolo
della scarsità di risorse finanziarie disponibili pone un limite al
monte salari. A ciò si aggiunge che il calo dei profitti rende le
imprese sempre meno disponibili ad accordare incrementi retributivi e
sempre più spinte semmai a ridurre i costi. Il combinato della riduzione
degli investimenti e dei consumi genera caduta (ulteriore) della
domanda interna, dell’occupazione e della produzione, in una spirale
viziosa per la quale quanto più l’Italia si impegna a “salvare” l’Unione
Monetaria Europea tanto più danneggia sé stessa e potenzialmente
l’Europa stessa (dal momento che gli attacchi speculativi sui titoli del
debito pubblico non riguardano necessariamente l’Italia). In questo
scenario, la questione rilevante non è tanto chi paga (ovvero
come eventualmente ridistribuire il carico fiscale), a maggior ragione
se si ritiene che si debbano ridurre i costi della politica per
recuperare risorse sufficienti, ma perché pagare (o comunque
perché pagare così tanto), ovvero perché tenere elevata la pressione
fiscale per finanziare, in ultima analisi, attività speculative
destabilizzanti e concausa della recessione. Va rilevato, a riguardo,
che il rapporto del novembre 2012 della commissione europea sul sistema
bancario dell’eurozona evidenzia il fatto che l’assunzione di rischio,
da parte degli istituti di credito europei, è diventato eccessivo, e che
occorrerebbe una più incisiva regolamentazione del settore18, riconoscendo
la sostanziale inefficacia delle regole fin qui introdotte. In una fase
che si vuol far passare come post-ideologica, la nazionalizzazione
delle banche non può essere un tabù: si tratta peraltro di operazioni
già diffusamente sperimentate, indipendentemente dal colore politico dei
Governi che le hanno fatte, come interventi di “riforma” guidati dalla
necessità o, se si vuole, dal buon senso.
___________________
NOTE
* Università del Salento, Dipartimento di Scienze Sociali. Email: guglielmo.forges@unisalento.it.
1 Su questo aspetto si rinvia a www.letteradeglieconomisti.it.
2 V. http://temi.repubblica.it/micromega-online/perche-lausterita-incentiva-la-criminalita/?printpage=undefined.
3 Il tema della creazione bancaria di mezzi di pagamento è diffusamente trattato, in particolare, da A.Graziani, The monetary theory of production, Cambridge, Cambridge University Press 2003.
4 Si vedano, in particolare, L.L. Pasinetti, The myth (or folly) of the 3% defict/GDP Maasstricht ‘parameter’, “The Cambridge Journal of Economics”, 1998, vol.VIII, pp.103-116; P.Krugman, End this depression, now!, Norton and Co. 2012
5 V, fra gli altri, http://temi.repubblica.it/micromega-online/come-salvare-leuro/
6 Sulle
difficoltà di raggiungere questo obiettivo, con particolare riferimento
al federalismo europeo, si segnala il dibattito fra Sergio Cesaratto e
Guido Montani ospitato dalla rivistawww.economiaepolitica.it lo scorso anno: http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/la-germania-litalia-e-leuropa/
8 Posto
in termini diversi e più facilmente comunicabili, si ritiene che un
aumento dei nostri redditi oggi – nel caso in cui ciò derivi da un
aumento dell’indebitamento pubblico – comporta un impoverimento dei
nostri figli.
9 Si
tratta di rilievi che, nel dibattito recente di politica economica in
Italia, sono in larga misura contenuti in un appello per la
stabilizzazione del debito pubblico sottoscritto da oltre cento
economisti nel 2007 e visionabile su www.appellodeglieconomisti.it. I promotori dell’appello hanno successivamente costituito una rivista on-line (www.economiaepolitica.it), i cui contributi sono collocabili su posizioni decisamente contrarie alle politiche di austerità.
10 La
convinzione che la spesa pubblica sia, per sua natura e con particolare
riferimento all’Italia, “improduttiva”, fonte di corruzione, di
‘sprechi’, di inefficienze’ è un topos nella letteratura di
ispirazione liberista. Vi è, in questo ambito teorico, un diffuso
consenso in merito al fatto che – per conseguire l’obiettivo della
riduzione del rapporto debito pubblico/PIL – sia necessario ridurre la
spesa e non sia desiderabile un aumento della tassazione. Francesco
Giavazzi, in particolare, è fra i più prolifici e autorevoli
commentatori che hanno insistito su questo aspetto. Fra i suoi
numerosissimi articoli, si segala (con Alberto Alesina), Dieci proposte (a costo zero) per dare una scossa all’Italia,
“Il Corriere della Sera”, 24 ottobre 2011. Si può ricordare che
Francesco Giavazzi è stato incaricato dal Governo Monti di rivedere gli
incentivi alle imprese nell’ambito della spending review, proponendo un sistema di incentivi per le imprese legato alla loro capacità di generare esternalità positive.
11 Il tema è stato trattato, fra gli altri, da Guido Tabellini (La spirale da spezzare per ripartire, “Il Sole-24 ore”, 23 maggio 2012).
12 Questo
nesso sembra operativo particolarmente nel caso italiano e, ancor più,
nel caso del Mezzogiorno, dal momento che la struttura produttiva
italiana, con poche eccezioni, è costituita da imprese di piccole
dimensioni, poco innovative e scarsamente internazionalizzate. In questo
contesto, l’attuazione di politiche di austerità riduce i mercati di
sbocco, potendo determinare riduzioni dei profitti monetari e
fallimenti.
13 Le
politiche di austerità sono state associate, nel caso italiano, a una
ulteriore accelerazione delle politiche di deregolamentazione del
mercato del lavoro, in particolare, nel periodo considerato con la c.d.
riforma Fornero (L. 92/2012, modificata dal D.L. n. 83/2012, c.d.decreto sviluppo, convertito in Legge n. 134/2012). Per ragioni di spazio, non è questa la sede per soffermarsi su questi aspetti.
14 Come,
peraltro, recentemente (e tardivamente) messo in evidenza dal Fondo
Monetario Internazionale, sulla base dell’errata quantificazione del
moltiplicatore della politica fiscale.
15 Sul tema si rinvia a http://www.nens.it/_public-file/Qualche%20numero%20sui%20costi%20della%20politica.pdf.
16 V. http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Rapporti-f/Le-Pubblic/Situazione/STFF2012-IITRIM.pdf.
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