lunedì 15 aprile 2013

La crisi, dalle sue origini all’austerità. Un’analisi critica di Guglielmo Forges Davanzati* – da Marx21

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1. Alle origini della crisi

Nei principali media nazionali e internazionali, la crisi scoppiata nel 2007 è stata raccontata così. La crisi è crisi finanziaria, deriva da una deregolamentazione eccessiva dei mercati finanziari ed è, in ultima analisi, imputabile all’eccessiva avidità degli speculatori e degli operatori finanziari. Ciò che nella terminologia corrente viene definito il greed. La si risolve, o la si attenua, conseguentemente, ponendo un freno all’espansione non controllata della sfera finanziaria e riducendo gli stipendi dei manager delle grandi imprese. La gran parte degli economisti liberisti fa propria questa interpretazione e i principali provvedimenti di politica economica attuati a seguito dei numerosi vertici internazionali dell’ultimo biennio si sono coerentemente mossi lungo questa strada.
La radicale debolezza di questa tesi sta nel fatto che essa presuppone una sfera finanziaria totalmente autonoma rispetto all’economia reale, ovvero che l’economia reale possa risentire dell’instabilità finanziaria ma non generarla. A ben vedere, tuttavia, i nessi di causa-effetto si verificano semmai esattamente in senso contrario.
La crisi è stata causata da un’enorme e crescente disuguaglianza distributiva, sia all’interno dell’economia statunitense, sia su scala globale. L’OCSE riferisce che, negli Stati Uniti, i salari reali medi nel settore privato si sono quasi dimezzati nel corso dell’ultimo ventennio, che l’indebitamento delle famiglie sul PIL è cresciuto dal 40% della metà degli anni settanta a circa il 100% del 2008 e che i profitti industriali sono aumentati di oltre l’80% dal 2000 al 2008. La caduta dei salari, largamente imputabile alle politiche di accentuata precarizzazione del lavoro e al sostanziale smantellamento del welfare state, è la principale causa del massiccio ricorso al credito al consumo, favorito da politiche di bassi tassi di interesse: il tasso di sconto della FED si è ridotto dal 6.5% del gennaio 2001 all’1% del giugno 2003. Al tempo stesso, le banche statunitensi hanno cominciato a concedere crediti – sotto forma di mutui a tasso variabile, garantiti grazie alla complicità delle agenzie di rating - anche a individui totalmente privi di garanzie reali, i cosiddetti Ninja (No Income, no Job and Assets), assecondando l’American Dream Downpayment Initiative (ADDI) del dicembre 2003, finalizzato – nelle intenzioni dichiarate – a consentire anche agli individui meno abbienti l’acquisto di un’abitazione. Ne è seguito l’aumento della domanda di immobili e, conseguentemente, l’aumento del loro prezzo. Fatto pari a 100 il prezzo di un immobile di medie dimensioni negli Stati Uniti nel 2000, si calcola che, al 2008, il prezzo del medesimo immobile è risultato pari a 220. Al tempo stesso, l’incremento degli investimenti netti risultava sostanzialmente nullo, e la gran parte dei profitti delle imprese statunitensi veniva allocato nei mercati finanziari, generando un incremento esponenziale delle rendite e degli utili derivanti da scambio di moneta contro moneta con conseguente contrazione della produzione di beni e servizi. Il Bureau of Labor Statistics certifica che le rendite finanziarie sono aumentate del 40% dal 2000 al 2008. Per effetto dell’indebitamento privato e della crescita delle rendite finanziarie, l’economia statunitense ha svolto il ruolo di “spugna” assorbente la produzione effettuata in altre aree (Cina e India in primis), sia di beni di sussistenza, sia di beni di lusso (acquistati dai percettori di rendite finanziarie), in un contesto globale nel quale la competizione si è svolta mediante compressione dei salari e trattamenti fiscali e normativi favorevoli alle imprese.
Un ingrediente fondamentale delle politiche economiche neoliberiste consiste nel controllo dell’inflazione mediante aumenti dei tassi di interesse. Dall’estate del 2003 la FED ha invertito il segno della politica monetaria, rialzando il tasso di sconto dall’1% al 5.25% fino alla metà del 2007. Le ragioni di questa scelta sembrano essere almeno tre. In primo luogo, l’aumento del prezzo degli immobili generava l’aspettativa di un aumento del livello generale dei prezzi, indotto dall’aumento dei prezzi delle materie prime necessarie alla loro costruzione. In secondo luogo, vi è motivo di ritenere che, a seguito della svalutazione del dollaro operata nel 2002 per favorire le esportazioni, occorreva rendere più appetibili i titoli denominati in dollari per evitare la fuga di capitali. In terzo luogo, la guerra in Iraq, lungi dal rivelarsi una guerra lampo, cominciava a creare problemi sia per l’enorme aumento dei costi della spedizione militare, sia per la distruzione di pozzi di petrolio con conseguente aumento del suo prezzo. L’aumento dei tassi di interesse ha reso sempre più difficile la restituzione del debito da parte dei lavoratori, fino a generare, con salari reali in ulteriore declino, insolvenze. Le quali si sono tradotte in perdite per gli Istituti di credito, che hanno reagito (quando non sono falliti) restringendo l’offerta di moneta: il cosiddetto credit crunch. E la restrizione del credito ha avuto immediati effetti sulla produzione, dal momento che le imprese si sono trovate nella condizione di non poter finanziare gli investimenti programmati. Da qui, la caduta del PIL e dell’occupazione, prima negli Stati Uniti, poi – per meccanismi di propagazione resi molto rapidi dall’accelerazione dei tempi di produzione e vendita in regime di globalizzazione – in Europa e su scala globale.

2. Finanziarizzazione e crisi

Questa dinamica è stata accentuata dalla c.d. finanziarizzazione, ovvero dal fatto che le imprese – soprattutto di grandi dimensioni – hanno destinato quote crescenti dei loro profitti nei mercati azionari, generando – su fonte Banca d’Italia – un rapporto fra valore degli strumenti finanziari e PIL pari, nel 2006, a quasi 8 volte in Italia e a oltre 10 volte negli Stati Uniti, a fronte di un rapporto circa pari a 3 all’inizio degli anni ottanta. In altri termini, la numerosità delle transazioni che si svolgono nei mercati finanziari è oggi un multiplo degli scambi di beni e servizi nella cosiddetta “economia reale”. Si tratta di un fenomeno relativamente recente, che ha modificato strutturalmente la relazione fra capitale produttivo e “capitale fittizio”, le cui cause possono essere individuate in tre fattori. In primo luogo, e soprattutto per quanto riguarda l’Italia, l’aumento del rapporto debito pubblico/PIL, dal 60% al 120% nel corso degli anni ottanta, ha costituito di fatto un potente incentivo a ricorrere ai mercati finanziari, in una fase – peraltro – caratterizzata da rendimenti elevati dei titoli di Stato. In secondo luogo, e con riferimento al complesso delle economie industrializzate e nei tempi più recenti, viene fatto osservare che la deregolamentazione dei mercati finanziari ha costituito se non altro una condizione permissiva per la speculazione. In terzo luogo, si può rilevare che il grado di finanziarizzazione è cresciuto a partire dall’avvio delle politiche di deregolamentazione (in particolare del mercato del lavoro) e dalla svolta neoliberista dei primi anni ottanta. Su fonte OCSE, si rileva che il labor share (la quota dei salari sul PIL) si è ridotto di oltre 5 punti percentuali nell’ultimo ventennio, nei principali Paesi industrializzati, principalmente a ragione delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, con significativa accelerazione in Italia. Si può quindi stabilire che la finanziarizzazione è (anche) il prodotto della precarizzazione del lavoro. Quest’ultima relazione è significativa e di agevole spiegazione. La caduta dei salari, comportando riduzione dei consumi, ha indotto le imprese a contrarre la produzione, in un contesto – peraltro – di continua riduzione della spesa pubblica e, dunque, di contrazione dei mercati di sbocco. Contestualmente, la caduta dei salari ha determinato un aumento dei profitti al quale, proprio a ragione della riduzione della domanda aggregata, non ha fatto seguito un aumento degli investimenti e dell’occupazione. Gran parte dei profitti ottenuti mediante deflazioni salariali è stata destinata alla speculazione e, nei tempi più recenti, alla speculazione sui titoli del debito pubblico, generando una spirale viziosa che si è articolata in questi passaggi. La speculazione sui titoli del debito pubblico di singoli Paesi (Grecia in primis) ha indotto i Governi a ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, al fine di minimizzare il rischio di un contagio di attacchi speculativi. La riduzione del debito si è manifestata sotto forma di minore spesa pubblica e maggiore pressione fiscale, soprattutto a danno del lavoro dipendente, con ulteriore compressione dei salari, in una spirale viziosa fatta da riduzioni di gettito fiscale (a causa della minore occupazione e del fallimento di imprese) seguìti da ulteriori tagli alla spesa pubblica e da ulteriore riduzione dell’occupazione e del gettito fiscale.
Nessun Istituto di ricerca internazionale dispone, al momento, di una previsione ragionevolmente accettabile in ordine ai tempi di fuoriuscita dalla crisi, e le prescrizioni di politica economica sono estremamente discordanti. La linea attualmente prevalente si sostanzia nella riduzione dell’intervento pubblico in economia, e, in particolare, nella riduzione del debito pubblico. La motivazione ufficiale a sostegno di questa opzione è la seguente. Livelli ‘eccessivi’ di indebitamento in rapporto al PIL possono generare ‘attacchi speculativi’, che, a loro volta, possono determinare il fallimento dei Paesi più esposti alla speculazione perché più indebitati. Questa interpretazione è suscettibile di un duplice rilievo critico. Primo: la riduzione della spesa pubblica, in quanto riduce l’occupazione, contribuisce a frenare la crescita economica. In tal senso, e soprattutto quando gli investimenti privati non aumentano (come, di norma, accade in periodi di crisi), un minore intervento pubblico in economia si associa a una minore crescita economica. In più, se queste misure sono pensate per ridurre l’indebitamento pubblico in rapporto al PIL, si rivelano controproducenti, dal momento che – riducendosi l’occupazione – si riduce la base imponibile, dunque il gettito fiscale,accrescendo quel rapporto. A ciò si può aggiungere che la riduzione del PIL può accrescere il rapporto debito/PIL, per il mero fatto contabile che si riduce il denominatore. In più, negli anni precedenti la crisi, l’obiettivo della riduzione dell’indebitamento pubblico veniva prevalentemente motivato con un argomento che attiene all’equità intergenerazionale: non è eticamente ammissibile – si sosteneva – far pagare ai nostri discendenti (in termini di maggiori imposte) le spese effettuate oggi. Si trattava di una motivazione suscettibile di una critica di fondo, dal momento che nessuno oggi è in grado di prevedere chi, perché e quando procederà a mettere i conti pubblici ‘in ordine’, con maggiore tassazione. Oggi, in regime di crisi e con il rischio della deflagrazione dell’area euro, la motivazione ufficiale a sostegno della manovra cambia segno. Non si tratta più di un problema etico, ma di un problema che attiene alla necessità di scongiurare attacchi speculativi a danno del Paese. E ciò è necessario anche a costo di determinare un impoverimento crescente del Paese. Quelli che vengono definiti attacchi speculativi sono situazioni nelle quali un gran numero di investitori si muove di concerto vendendo titoli del debito pubblico di un Paese. A ciò fa seguito la riduzione del valore di quei titoli e la necessità di collocarli sul mercato con tassi di interesse più alti. In una condizione di questo tipo, il singolo Stato si trova nella difficile condizione di dover pagare interessi crescenti per finanziare le proprie spese, fino ad arrivare a un limite oltre il quale occorre dichiarare fallimento, ovvero dichiarare di non essere più in grado di ripagare i debiti contratti. In relazione a questo fenomeno, può porsi un interrogativo di fondo. Dal momento che nessuno sa cosa esattamente muove gli speculatori, è giustificabile impoverire il Paese per scongiurare ciò che non si sa se avverrà, e – se avverrà – non si sa perché? Non è necessariamente vero, infatti, che gli attacchi speculativi vengono effettuati solo a danno di Paesi con elevato debito pubblico. Si possono considerare, a riguardo, due casi. Il primo: l’attacco speculativo alla Grecia – nella primavera scorsa – è avvenuto in un contesto nel quale il rapporto debito/PIL in quel Paese superava di soli 2 punti percentuali quello italiano. Il secondo: la crisi del 2001 in Argentina è scoppiata quando il debito pubblico aveva raggiunto appena il 63% del reddito nazionale.
Al fondo della motivazione ufficiale si può leggere un diverso obiettivo. Il modello di sviluppo che si è determinato nel corso dell’ultimo ventennio è stato concepito sulla base della convinzione che il depotenziamento del sistema di welfare avrebbe consentito alle imprese di ottenere maggiori profitti (associati a minori salari diretti e indiretti) e, dunque, a un maggior tasso di crescita, generato dal reinvestimento dei profitti stessi. E’ opportuno chiarire che questo modello presuppone l’esistenza di una duplice precondizione.
a) I profitti accumulati dalle imprese devono essere reinvestiti in attività produttive e non usati a fini speculativi. Diversamente, viene meno il meccanismo dell’”accumulazione per l’accumulazione” che è a fondamento della riproduzione capitalistica e ci si muove in un regime di ‘finanziarizzazione’, ovvero di acquisizione di profitti mediante scambio di denaro contro denaro. Il che è precisamente quanto è accaduto. I profitti delle imprese finanziarie sono aumentati da circa il 10% dei profitti complessivi al netto delle imposte, nel 1980, a oltre il 40% del 2007.
b) Il reinvestimento dei profitti può generare crescita economica a condizione che vi sia crescita della produttività (o almeno non una sua riduzione). Su quest’ultimo aspetto, le rilevazioni disponibili segnalano che, in tutti i Paesi OCSE, il tasso di crescita della produttività del lavoro è stato significativamente più alto negli anni settanta rispetto al ventennio successivo. Sia sufficiente ricordare che, su fonte OCSE, l’Italia ha registrato la più elevata dinamica della produttività del lavoro nel 1976 (+6%, a fronte del –1.5% del 2009) e che la più elevata dinamica della produttività del lavoro negli Stati Uniti si è avuta nel 1971 (3.9%). In altri termini, i Paesi industrializzati hanno sperimentato la più alta crescita economica nei periodi nei quali è stata maggiore la spesa pubblica ed è stato maggiore il potere contrattuale dei lavoratori. E tuttavia, a fronte di questa evidenza, i principali Governi dei Paesi OCSE (l’Europa in primis, Italia inclusa) perseverano nel cercare di fuoriuscire dalla crisi con politiche economiche che segnano un ulteriore passo indietro rispetto alla tutela dei diritti dei lavoratori e delle garanzie offerte dallo Stato sociale. Sperare di far ripartire la crescita economica mediante riduzioni della spesa pubblica in regime di crisi significa, in fondo, non essere molto lontani da un atto di fede.

3. Il caso italiano: da Berlusconi a Monti

C’è da dubitare che lo tsunami finanziario che ha investito l’Italia nell’estate 2011 sia interamente imputabile alla scarsa credibilità del Governo Berlusconi, sebbene sia indiscutibile che quella esperienza di governo sia stata caratterizzata da un immobilismo irresponsabile. Per dimostrarlo, occorre ripercorrere sinteticamente ciò che è accaduto negli ultimi mesi, e chiarire preliminarmente i termini del problema. Dalla scorsa estate, l’Italia è stata oggetto di ‘attacchi speculativi’ di inaudita intensità, ovvero di vendita in massa di titoli del debito pubblico, con successiva difficoltà nel collocarli sui mercati anche a tassi di interesse elevati. La riduzione del prezzo dei titoli di Stato implica, infatti, che il tasso di interesse ottenibile dai risparmiatori aumenta, ponendo lo Stato italiano nella condizione di dover offrire un tasso più elevato per i nuovi titoli emessi.
E’ così aumentato il differenziale dei rendimenti fra i titoli italiani – in particolare i buoni del Tesoro con scadenza decennale – e i titoli del debito pubblico tedeschi, prefigurando una condizione nella quale lo Stato italiano potrebbe trovarsi impossibilitato a ripagare il debito contratto con i sottoscrittori dei buoni del Tesoro e dichiarare fallimento.
L’opinione dominante fa propria la convinzione secondo la quale questo fenomeno sia stato, in ultima analisi, determinato dal basso tasso di crescita dell’economia italiana (il che è condivisibile) e, soprattutto, dalla scarsa credibilità del Governo in carica (il che dà adito a qualche dubbio). Innanzitutto, va chiarito – ove ve ne fosse bisogno – che non è possibile dare una misurazione della ‘credibilità’ di un’Istituzione. Stando all’opinione dominante, la credibilità di un Governo la si concepisce – in questa fase, e nel nostro caso – sulla base del rispetto delle ‘raccomandazioni’ della Banca Centrale Europea. Le quali – è opportuno ricordarlo – suggeriscono misure di austerità ancora più drastiche rispetto a quelle fin qui messe in atto: riduzione della spesa pubblica, maggiore precarizzazione del lavoro e facilità dei licenziamenti, privatizzazioni, liberalizzazioni, aumento dell’età pensionabile, riduzione dei costi della pubblica amministrazione e suo snellimento, con possibile riduzione degli stipendi – e maggiore mobilità – dei lavoratori del settore pubblico.
La convinzione che gli attacchi speculativi siano mossi dalla scarsa credibilità del Governo non sembra trovare adeguati riscontri empirici. Nell’aprile 2011 lo spread fra Btp e Bund tedeschi era circa pari a 120 ed è rimasto sostanzialmente stabile fino ad agosto. Nell’agosto scorso si è registrato un picco di 350 punti base, al quale ha fatto seguito una significativa flessione durante il mese di settembre. A ciò ha fatto seguito un’ulteriore impennata, che ha portato i differenziali a circa 600 punti base, con successiva riduzione di 100 punti. Fra aprile ed ottobre non si registrano iniziative governative di rilevanza tale da determinare queste oscillazioni. E non si capisce per quale ragione, a fronte dell’immobilismo governativo, i cosiddetti “mercati” abbiano generato questa volatilità. Si potrebbe avanzare la congettura secondo la quale la risposta del Governo Berlusconi alla lettera della BCE degli inizi di agosto sia stata ritenuta eccessivamente vaga e che, per questa ragione, il Governo abbia improvvisamente perduto credibilità. Ma appunto di congettura si tratta e, dunque, di qualcosa che andrebbe dimostrato.
La domanda più rilevante che occorre porsi, e che pare del tutto oscurata nel dibattito italiano, è banalmente cosa sono i mercati ai quali si fa qui riferimento, e, per conseguenza, quali fattori – economici e politici – muovono la speculazione. E’ una domanda centrale, dal momento che l’impopolarità dei provvedimenti che i “mercati” implicitamente chiedono (e che l’Unione europea esplicitamente raccomanda) può essere politicamente giustificata solo se vi sono ragioni cogenti e di massima urgenza per attuarli. E’ chiaro che, in questa materia, data l’opacità che caratterizza le transazioni finanziarie su scala globale, è facile scivolare in teorie del complotto. Ma, a fronte di questo, alcune indicazioni possono essere fornite. “Milano Finanza” ha recentemente riferito che “sui mercati si è diffusa la voce che sia stata Goldman Sachs a innescare le vendite di Btp, poi seguita dagli hedge funds e dalle altre banche d’oltreoceano”. Goldman Sachs è la più grande banca d’affari al mondo, ha guidato numerosi processi di privatizzazione e, secondo la classifica stilata annualmente dalla Vault, risulta anche essere la banca più prestigiosa del mondo. Il fatto che Goldman goda di elevata reputazione la candida naturalmente come leader della speculazione sui titoli del debito pubblico. Ciò a ragione del fatto che, come rilevava Keynes, la speculazione è “l’arte di capire cosa gli altri operatori di mercato pensano riguardo al futuro” e, stando alla sua ben nota metafora, per indovinare quale ragazza vincerà un concorso di bellezza non conta il giudizio del singolo, ma la capacità del singolo di capire come voterà la maggioranza dei giurati. In altri termini, l’attività speculativa è basata su meccanismi che hanno a che vedere con convenzioni ed effetti di imitazione, così che, se uno speculatore è ritenuto altamente affidabile, è ‘razionale’ per chi lo segue fare le stesse mosse.
Un recente comunicato di Goldman Sachs così recita: “Un governo tecnico [in Italia] avrebbe una maggiore credibilità rispetto ad altri esecutivi”. Il prof. Mario Monti è stato vicepresidente di Goldman Sachs. In prima approssimazione, non sembra difficile concludere che gli equilibri politici in Italia siano (quantomeno) profondamente influenzati da una banca di Jersey City. Si tratta di una conclusione di prima approssimazione, dal momento che questa congettura non spiega interamente la volatilità degli acquisti/vendite dei titoli del debito pubblico italiano. Vi è di più. La storia recente insegna che gli attacchi speculativi sono seguiti da ondate di privatizzazioni e di compressioni salariali (e dei diritti dei lavoratori): è accaduto in Italia a seguito della crisi del 1992, sta accadendo in Grecia. Su queste basi, si può affermare che gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico italiano non hanno nulla a che vedere con le dimensioni del debito stesso, hanno poco a che vedere con i “fondamentali” della nostra economia (non peggiori dei nostri principalipartner europei) e che, dunque, sono mossi, in ultima analisi, dalla convinzione che un esecutivo ‘tecnico’ – per di più guidato da un uomo che ha lavorato per le Istituzioni che guidano la speculazione – realizzi un programma di politica economica che consenta l’acquisizione di patrimonio pubblico nazionale: niente altro che il dominio della finanza sulla politica.

4. Le politiche di austerità

“Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e, per questa ragione, i tagli della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale sono ora inevitabili. E’ quanto reiteratamente ripetono il prof. Monti, i nostri ministri e i commentatori che ne sostengono la linea di politica economica. Si tratta di un messaggio facilmente comunicabile, dal momento che associa (in modo fallace) il bilancio di una famiglia con il bilancio dello Stato, e, al tempo stesso, del solo messaggio che può essere veicolato nel presente fragilissimo assetto istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. In altri termini, si può ragionevolmente sostenere che le misure di austerità – e i “sacrifici” a queste connessi – sono inefficaci per l’obiettivo che si propongono1, sono deleteri ai fini della coesione sociale2 e che, tuttavia, sono inevitabili nell’attuale configurazione dell’Eurozona.
1) L’equiparazione del bilancio familiare con il bilancio di uno Stato è un’equiparazione fallace, dal momento che, mentre per una famiglia esiste un limite oltre il quale risulta insostenibile l’indebitamento (limite dato dall’impossibilità di ripagare il debito, con le sanzioni che ne derivano) ciò non accade per uno Stato, dal momento che il suo debito può espandersi ad infinitum, data l’ovvia condizione di trovare chi ne acquista i titoli In un assetto istituzionale nel quale sia data alla Banca Centrale questa possibilità (il che non è nell’attuale legislazione europea), potendo la Banca Centrale produrre moneta senza vincoli di scarsità3, il debito pubblico può crescere appunto senza incontrare limiti. Come riconosciuto da molti autorevoli economisti, non è possibile stabilire un limite di sostenibilità del debito pubblico, ovvero, sul piano strettamente teorico, il limite di sostenibilità del debito pubblico non può che derivare da scelte di ordine politico, dunque estranee a un calcolo puramente economico4. Semplificando: mentre esiste un tribunale che sanziona l’inadempienza di una famiglia, non esiste un tribunale che sanziona l’inadempienza (ammesso che di questo si tratti) di uno Stato.
Vivere al di sopra delle nostre possibilità, nell’accezione che viene data a questa tesi, significa aver tenuto per troppi anni elevata la spesa pubblica e bassa la tassazione. Il naturale corollario di ciò consiste nell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, così come voluto dalla Cancelliera Merkel. Occorre preliminarmente rilevare che la Germania, nel 2009, si è data l’obiettivo del pareggio di bilancio entro il 2016 e quello dei bilanci federali entro il 2020, mentre l’Italia dovrà conseguire questo risultato entro il 2013. La motivazione ufficiale che obbliga l’Italia a più rapide e incisive misure di austerità è quella ossessivamente ripetuta nel corso dell’ultimo biennio: l’Italia ha un debito pubblico eccessivamente elevato, così che rischia di non riuscire a collocare i propri titoli di Stato sui mercati finanziari, con conseguente necessità di venderli con rendimenti più alti, dando luogo a un aumento dello spread rispetto ai bund tedeschi e all’eventualità del fallimento. Alcuni dati (su fonte EUROSTAT) possono essere sufficienti per destituire di fondamenta la tesi governativa. Nel periodo 2001-2009, la spesa pubblica in percentuale al PIL Italia è stata sostanzialmente in linea con la media europea: il 48% fra il 2001 e il 2007, a fronte di una media UE del 46.5%, il 48% nel 2008 a fronte di una media europea di circa il 47% e il 51.9% del 2009 contro una media europea di circa il 50%. E’ interessante rilevare che, nel periodo preso in considerazione, la Francia ha sempre speso più dell’Italia (il 52% del PIL nel 2001-2007, il 52.8% del 2008, il 55.6% del 2009), e che la spesa pubblica in Germania, nel medesimo intervallo temporale, è stata mediamente inferiore a quella italiana di solo un punto percentuale in rapporto al PIL. Le entrate derivanti da tassazione, nell’ultimo decennio, sono state sempre maggiori in Italia rispetto alla media europea. In altri termini, nell’ultimo decennio, la spesa pubblica italiana in rapporto al PIL non è stata significativamente maggiore della spesa pubblica europea, mentre l’imposizione fiscale è stata notevolmente più alta. Da ciò si può dedurre che, quantomeno nell’ultimo decennio, l’Italia ha vissuto “al di sopra delle loro possibilità” meno di quanto hanno fatto i principali partner europei. E, a fronte di questo, ci viene chiesta un’ulteriore accelerazione nella direzione del rigore di bilancio.
2) Le politiche di austerità sono sostanzialmente inevitabili nell’attuale assetto istituzionale europeo, la cui crisi si snoda intorno a un triplice conflitto distributivo: il conflitto intercapitalisticointerno all’UE (fra aree centrali e aree periferiche, con conseguente crescente impoverimento assoluto e relativo di queste ultime), il conflitto intercapitalistico fra Germania e Stati Uniti, che fa perno sull’obiettivo della Germania di accrescere le quote di mercato delle sue imprese nei mercati internazionali (il che richiede l’attuazione di politiche fiscali espansive nei Paesi extra-UE e il deprezzamento del tasso di cambio euro-dollaro) e, non da ultimo, il conflitto capitale-rendita finanziaria, che si manifesta sotto forma di attacchi speculativi a danno principalmente dei Paesi con bassi tassi di crescita e persistenti disavanzi dei conti con l’estero, dal momento che bassi tassi di crescita ed elevato indebitamento con l’estero sono indicatori di bassa competitività di un Paese e di elevato rischio di insolvenza5. Incidentalmente, occorre rilevare che non vi è nessuna evidenza che segnala che la speculazione è correlata a elevati debiti pubblici: può essere qui sufficiente ricordare, a titolo esemplificativo, che nella primavera 2010, in occasione del primo attacco speculativo sui titoli greci, la Grecia aveva un rapporto debito/PIL di soli due punti percentuali superiore a quello italiano; che l’attacco speculativo all’Argentina, nei primi anni Duemila, si verificò in una condizione nella quale l’Argentina aveva un rapporto debito/PIL di poco superiore al 40% e che, ad oggi, il debito pubblico in rapporto al PIL in Giappone – Paese immune da attacchi speculativi – supera il 220%. L’inevitabilità delle politiche di austerità non deriva dal fatto che solo così facendo si riduce il rapporto debito pubblico/PIL e si minimizza, conseguentemente, il rischio di vendita in massa di titoli del debito pubblico. Questa è la vulgata, basata su una falsa premessa (e, per conseguenza, su una conclusione falsa), giacché le politiche di austerità semmai accrescono (o comunque non riducono) il rapporto debito/PIL. L’inevitabilità delle politiche di austerità deriva semmai dall’assetto gerarchico venutosi progressivamente a consolidare in Europa, così che la politica dell’Unione è decisa di fatto dal Governo tedesco, sulla base degli interessi materiali che difende (essenzialmente quelli delle imprese esportatrici tedesche). Se così si pone la questione, risulta inutile chiedere alla signora Merkel di adottare una linea di politica economica meno rigida: si tratta di una richiesta non ricevibile giacché contraria agli interessi della base elettorale che sostiene il Governo tedesco. L’esperienza di questi ultimi mesi ha chiaramente dimostrato che essa si scontra con l’”ostinazione” del Governo tedesco e che, anche quando viene accolta, si traduce in misure una tantum, spesso insufficienti, e che soprattutto non aggrediscono i problemi strutturali dell’Unione. Problemi strutturali che, come evidenziato da numerosi economisti, risiedono nella mancata integrazione politica europea, e che potrebbero trovare soluzione nell’istituzione di un unico bilancio federale e nell’attribuzione alla BCE del ruolo di prestatore di ultima istanza. Con ogni evidenza, si tratta di un processo niente affatto agevole6, che, tuttavia, potrebbe rendersi possibile i) laddove il rischio di deflagrazione dell’Eurozona – e del venir meno del mercato comune – diventi talmente alto da indurre il Governo tedesco a rivedere la propria strategiaii) o nel caso in cui il prefigurare la fuoriuscita dall’euro soprattutto da parte di Paesi che contribuiscono in modo significativo al PIL dell’eurozona, importatori di beni tedeschi venga utilizzato come strumento di persuasione per rinegoziare le condizioni di permanenza nell’Unione. E’ significativo rilevare che, nelle ultime elezioni del Parlamento europeo, i partiti “progressisti” italiani presentarono programmi che si muovevano sostanzialmente in questa direzione7. Resta da chiedersi se questi programmi sono ritenuti ancora attuali e, soprattutto, per quali ragioni sono stati disattesi.

5. La legittimazione teorica delle politiche di austerità e i loro effetti

Le politiche di austerità trovano la propria legittimazione ‘scientifica’ in un indirizzo di ricerca – ampiamente coltivato nel corso degli anni novanta e nel primo decennio del Duemila – che fa riferimento ai c.d. “effetti non keynesiani delle politiche fiscali espansive”. Si tratta di effetti così sintetizzabili.
1) La riduzione della spesa pubblica accresce i consumi. La riduzione della spesa pubblica pone i consumatori nella condizione di non essere costretti a risparmiare per far fronte al pagamento delle imposte. La ratio di questa proposizione risiede nella tesi in base alla quale l’indebitamento pubblico – derivante da aumenti della spesa pubblica – costituisce un trasferimento dell’onere fiscale sulle generazioni future. In quest’ottica, nel caso in cui il Governo decida di accrescere oggi la spesa pubblica, e che questo sia un segnale pubblicamente osservabile, le famiglie sanno che dovranno risparmiare oggi per pagare più tasse domani. Questa tesi – che rinvia alla c.d. equivalenza ricardiana – poggia su due ipotesi essenziali. In primo luogo, occorre assumere che gli individui abbiano perfetta capacità previsionale e che, dunque, sappiano quando la pressione fiscale aumenterà e di quanto aumenterà. Occorre poi assumere che gli individui siano altruisti nei confronti delle generazioni future, così che – conoscendo la tempistica e il futuro aumento della tassazione – trasmettano ai propri discendenti una quantità di risorse monetarie tale da consentire a questi ultimi di pagare le tasse8.
Questa tesi è stata oggetto delle seguenti obiezioni9. In primo luogo, si può rilevare che a maggior reddito disponibile oggi corrispondono maggiori lasciti ereditari e, dunque, maggior reddito disponibile a beneficio delle generazioni future. A ciò si può aggiungere che la decisione di aumentare l’imposizione fiscale è una decisione propriamente politica, così che non vi è nessuna ragione stringente che leghi l’aumento del debito pubblico oggi all’aumento della tassazione domani. In secondo luogo, come messo in evidenza, in particolare, in ambito postkeynesiano, le scelte individuali sono effettuate in condizioni di “incertezza radicale”, così che le aspettative non possono realisticamente essere assunte razionali, bensì dipendenti da ondate di ottimismo/pessimismo, da effetti di imitazione, consuetudini, abitudini.
2) La riduzione della spesa pubblica accresce gli investimenti privati. Ciò si verifica a ragione del fatto che la spesa pubblica ‘spiazza’ la spesa privata, sia perché sottrae quote di mercato agli operatori privati (il che accade soprattutto se lo Stato interviene mediante la produzione diretta di beni e servizi), sia perché l’aumento della spesa pubblica accresce i tassi di interesse e, per conseguenza, riduce gli investimenti. E poiché si assume che l’operatore privato è più efficiente dell’operatore pubblico10, ne deriva che un’economia con la minima “interferenza” pubblica sia un’economia nella quale è massima l’efficienza produttiva (e, date le risorse disponibili, è massimo il tasso di crescita). Ne deriva che è compito del Governo manovrare la politica fiscale in modo da ridurre l’indebitamento pubblico, a fronte del fatto che, in questo contesto, è semmai la politica monetaria a dover essere gestita con segno espansivo, in modo da contribuire a generare crescita11.
Si tratta, anche in questo caso, di una tesi controversa, suscettibile di una duplice critica. In primo luogo, le decisioni di investimento da parte delle imprese private non dipendono esclusivamente dai tassi di interesse, essendo profondamente influenzate dagli animal spirits degli imprenditori. In secondo luogo, si ritiene che sussistano nessi di complementarietà fra spesa pubblica e spesa privata, dal momento che la spesa pubblica, accrescendo i mercati di sbocco, accresce i profitti attesi e, di conseguenza, accresce gli investimenti12.
Se, tuttavia, si accoglie la tesi secondo la quale la riduzione della spesa pubblica accresce consumi e investimenti privati, ne deriva che le politiche di austerità sono espansive.
Il biennio 2010-2012 è stato caratterizzato da una forte accelerazione delle. politiche di austerità, nella gran parte dei Paesi aderenti all’Unione Monetaria Europea, con particolare riferimento ai c.d. PIIGS. In linea generale, le politiche di austerità si manifestano sotto forma di riduzione della spesa pubblica e di aumento dell’imposizione fiscale, assumendo come parametro di riferimento il pareggio del bilancio pubblico13. Nel periodo considerato, queste politiche sono state attuate in Italia attraverso numerosi provvedimenti emanati in un intervallo temporale relativamente breve: la Legge Finanzaria 2010 (Legge 23 dicembre 2009, n.191), la Legge di Stabilità 2011 (Legge 13 dicembre 2010, n.220), la Legge di Stabilità 2012 (Legge 12 novembre 2011, n. 183), il Disegno di legge di stabilità 2013, il D.L. n. 201/ 2011, c.d. “SalvaItalia”, – Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici., il D. L. n. 87 /2011 - Misure urgenti in materia di efficientamento, valorizzazione e dismissione del patrimonio pubblico. di razionalizzazione dell’amministrazione economico-finanziaria, nonché misure di rafforzamento del patrimonio delle imprese del settore bancario, il D.L. n. 152/ 2012, convertito con modifiche in Legge n.94/2012 c.d. “Spending Review”, - Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica, il D. L. n. 95 /2012 (Spending review 2) – Riduzione della spesa a servizi invariati.
Si tratta, con ogni evidenza e come messo in evidenza da pressoché tutti gli economisti italiani, di misure recessive. Sia qui sufficiente richiamare i seguenti dati: il tasso di disoccupazione è passato dal 7% del 2009 all’11% del 2012, con un tasso di disoccupazione giovanile che si attesta intorno al 38% al novembre 2012; sono circa 200 le crisi aziendali in corso; l’Italia sperimenta la più diseguale distribuzione del reddito fra i Paesi OCSE e il più elevato grado di immobilità sociale, insieme a UK e USA. Infine – dato estremamente rilevante – mentre le politiche di austerità sono pensate per ridurre l rapporto debito pubblico/PIL, esse generano l’effetto opposto: il rapporto debito/PIL è aumentato di 7 punti percentuali dal 2011 al 2012, decretandone la palese irrazionalità14 che non può non spiegarsi con l’altrettanto palese irrazionalità dell’architettura istituzionale di questa Europa.

6. L’irrazionale architettura istituzionale europea

Fra i “compiti a casa” che l’Unione Monetaria Europea ci chiede di fare c’è anche la riduzione dei c.d. costi della politica. Va detto che la convinzione diffusa – “anti – casta” – secondo la quale i costi della politica, in Italia, sono eccessivamente elevati andrebbe ridimensionata alla luce dei fatti. Su fonte Ministero dell’Economia e delle Finanze, si calcola che i fondi pubblici destinati ai partiti sono in costante diminuzione e che, dal 2013, saranno di importo inferiore a quelli erogati ai partiti politici rappresentati nel Parlamento tedesco15. Il problema appare, dunque, connesso a ragioni di equità e di legittimazione del sistema, ma, per quanto riguarda il dato puramente contabile, non sembra che di problema (rilevante) si tratti. D’altra parte – ed è cosa ovvia – la politica costa e merita di essere ricordato che la politica costa anche per consentire di praticarla a chi, diversamente, non potrebbe permetterselo.
L’ideologia “anti-casta” è ancor più privata di fondamento se ci si riferisce alla convinzione – anch’essa assai diffusa – che la gran parte delle tasse pagate dai contribuenti italiani serva a foraggiare partiti politici ed Enti locali (province, innanzitutto) “inutili”. L’aumento vertiginoso della pressione fiscale, soprattutto nel corso del 2012, che ha raggiunto il massimo storico del 57% a gennaio 2013, è servito in larghissima misura a generare avanzi di bilancio destinati alla contribuzione italiana al bilancio generale dell’Unione Europea. Su fonte Ragioneria Generale dello Stato, si registra che l’Italia è, da anni, un contributore netto del bilancio europeo e che i versamenti effettuati sono stati di gran lunga superiori ai rientri, in particolare nel corso del 201216. Gli ordini di grandezza dei costi della politica e dei costi del mantenimento di questa Europa sono incomparabili17. Ma ciò che maggiormente conta è interrogarsi sull’uso che, in Europa, viene fatto delle risorse prelevate ai contribuenti.
Lo schema sul quale regge l’attuale assetto dell’Unione Monetaria è così schematizzabile, almeno per quanto riguarda l’Italia: aumento della tassazione → aumento dei contributi erogati al c.d. Fondo Salva Stati → aumento dei profitti bancari → speculazione bancaria sui titoli del debito pubblico, configurando una gigantesca operazione di ridistribuzione del reddito dal lavoro (e dal capitale) alla rendita finanziaria. Si tratta di un’architettura che contiene tre fondamentali elementi contraddittori, se, come dichiarato, l’obiettivo è ripristinare un sentiero di crescita economica.
1) L’attività speculativa delle banche è destabilizzante, sia perché costituisce un pericoloso potenziale “boomerang” (non potendosi escludere nuove ondate di attacchi speculativi sui nostri titoli pubblici trainati proprio dalle banche che, come contribuenti, finanziamo), sia perché è alla base della restrizione del credito. In altri termini, potrebbe considerarsi razionale un’operazione di “salvataggio” di istituti di credito se finalizzata a porre le condizioni per il finanziamento degli investimenti. La si può decretare del tutto irrazionale se, come sta accadendo, finisce per porre le condizioni per alimentare ondate speculative.
2) L’attività speculativa delle banche può anche manifestarsi con operazioni – più o meno riuscite – di fusioni o acquisizioni. Ciò rende il mercato del credito sempre più monopolistico. L’aumento del potere contrattuale delle banche nei confronti delle imprese genera un aumento dei tassi di interesse applicati sui finanziamenti degli investimenti e, dunque, una riduzione degli investimenti e, a seguire, dell’occupazione e del tasso di crescita. Si osservi che nel caso in cui (come per il Monte dei Paschi di Siena) queste operazioni non abbiano successo, lo Stato è chiamato – per l’obiettivo della tutela del risparmio – a interventi di “salvataggio” (circa 4 miliardi di euro per il Monte dei Paschi di Siena).
3) Per quanto riguarda, in particolare, l’economia italiana, la sequenza delineata sopra non fa che accelerare la recessione, innanzitutto per gli effetti che la restrizione del credito esercita sugli investimenti. Vi è di più. La restrizione del credito pone le imprese nella condizione di poter competere solo riducendo i salari (o licenziando, o a non assumendo), per l’ovvia ragione che il vincolo della scarsità di risorse finanziarie disponibili pone un limite al monte salari. A ciò si aggiunge che il calo dei profitti rende le imprese sempre meno disponibili ad accordare incrementi retributivi e sempre più spinte semmai a ridurre i costi. Il combinato della riduzione degli investimenti e dei consumi genera caduta (ulteriore) della domanda interna, dell’occupazione e della produzione, in una spirale viziosa per la quale quanto più l’Italia si impegna a “salvare” l’Unione Monetaria Europea tanto più danneggia sé stessa e potenzialmente l’Europa stessa (dal momento che gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico non riguardano necessariamente l’Italia). In questo scenario, la questione rilevante non è tanto chi paga (ovvero come eventualmente ridistribuire il carico fiscale), a maggior ragione se si ritiene che si debbano ridurre i costi della politica per recuperare risorse sufficienti, ma perché pagare (o comunque perché pagare così tanto), ovvero perché tenere elevata la pressione fiscale per finanziare, in ultima analisi, attività speculative destabilizzanti e concausa della recessione. Va rilevato, a riguardo, che il rapporto del novembre 2012 della commissione europea sul sistema bancario dell’eurozona evidenzia il fatto che l’assunzione di rischio, da parte degli istituti di credito europei, è diventato eccessivo, e che occorrerebbe una più incisiva regolamentazione del settore18riconoscendo la sostanziale inefficacia delle regole fin qui introdotte. In una fase che si vuol far passare come post-ideologica, la nazionalizzazione delle banche non può essere un tabù: si tratta peraltro di operazioni già diffusamente sperimentate, indipendentemente dal colore politico dei Governi che le hanno fatte, come interventi di “riforma” guidati dalla necessità o, se si vuole, dal buon senso.
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NOTE
* Università del Salento, Dipartimento di Scienze Sociali. Email: guglielmo.forges@unisalento.it.
1 Su questo aspetto si rinvia a www.letteradeglieconomisti.it.
3 Il tema della creazione bancaria di mezzi di pagamento è diffusamente trattato, in particolare, da A.Graziani, The monetary theory of production, Cambridge, Cambridge University Press 2003.
4 Si vedano, in particolare, L.L. Pasinetti, The myth (or folly) of the 3% defict/GDP Maasstricht ‘parameter’, “The Cambridge Journal of Economics”, 1998, vol.VIII, pp.103-116; P.Krugman, End this depression, now!, Norton and Co. 2012
6 Sulle difficoltà di raggiungere questo obiettivo, con particolare riferimento al federalismo europeo, si segnala il dibattito fra Sergio Cesaratto e Guido Montani ospitato dalla rivistawww.economiaepolitica.it lo scorso anno: http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/la-germania-litalia-e-leuropa/
8 Posto in termini diversi e più facilmente comunicabili, si ritiene che un aumento dei nostri redditi oggi – nel caso in cui ciò derivi da un aumento dell’indebitamento pubblico – comporta un impoverimento dei nostri figli.
9 Si tratta di rilievi che, nel dibattito recente di politica economica in Italia, sono in larga misura contenuti in un appello per la stabilizzazione del debito pubblico sottoscritto da oltre cento economisti nel 2007 e visionabile su www.appellodeglieconomisti.it. I promotori dell’appello hanno successivamente costituito una rivista on-line (www.economiaepolitica.it), i cui contributi sono collocabili su posizioni decisamente contrarie alle politiche di austerità.
10 La convinzione che la spesa pubblica sia, per sua natura e con particolare riferimento all’Italia, “improduttiva”, fonte di corruzione, di ‘sprechi’, di inefficienze’ è un topos nella letteratura di ispirazione liberista. Vi è, in questo ambito teorico, un diffuso consenso in merito al fatto che – per conseguire l’obiettivo della riduzione del rapporto debito pubblico/PIL – sia necessario ridurre la spesa e non sia desiderabile un aumento della tassazione. Francesco Giavazzi, in particolare, è fra i più prolifici e autorevoli commentatori che hanno insistito su questo aspetto. Fra i suoi numerosissimi articoli, si segala (con Alberto Alesina), Dieci proposte (a costo zero) per dare una scossa all’Italia, “Il Corriere della Sera”, 24 ottobre 2011. Si può ricordare che Francesco Giavazzi è stato incaricato dal Governo Monti di rivedere gli incentivi alle imprese nell’ambito della spending review, proponendo un sistema di incentivi per le imprese legato alla loro capacità di generare esternalità positive.
11 Il tema è stato trattato, fra gli altri, da Guido Tabellini (La spirale da spezzare per ripartire, “Il Sole-24 ore”, 23 maggio 2012).
12 Questo nesso sembra operativo particolarmente nel caso italiano e, ancor più, nel caso del Mezzogiorno, dal momento che la struttura produttiva italiana, con poche eccezioni, è costituita da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e scarsamente internazionalizzate. In questo contesto, l’attuazione di politiche di austerità riduce i mercati di sbocco, potendo determinare riduzioni dei profitti monetari e fallimenti.
13 Le politiche di austerità sono state associate, nel caso italiano, a una ulteriore accelerazione delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, in particolare, nel periodo considerato con la c.d. riforma Fornero (L. 92/2012, modificata dal D.L. n. 83/2012, c.d.decreto sviluppo, convertito in Legge n. 134/2012). Per ragioni di spazio, non è questa la sede per soffermarsi su questi aspetti.
14 Come, peraltro, recentemente (e tardivamente) messo in evidenza dal Fondo Monetario Internazionale, sulla base dell’errata quantificazione del moltiplicatore della politica fiscale.

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