sabato 27 aprile 2013

Addio università, oltre il 40% si ferma al diploma di Michele Trotta


La promozione dell'ignoranza è da anni la cifra genetica di tutti i ministri dell'istruzione, da Lombardi e Berlinguer a Profumo, passando per Gelimini, ecc.

Promozione dell'ignoranza perseguita in due modi: prima dequalificando al massimo la formazione offerta (corsi semestrali, proliferazione di università, dipartimenti, corsi di laurea senza docenti all'altezza, ecc), e in secondoluogo alzando le tasse di iscrizione oltre la soglia delle possibilità delle famiglie meno ricche. Un dispositivo classista mirante esplicitamente a bloccare la scala sociale, lasciando ai piani bassi chi da lì parte (per le singole eccezioni, naturalmente una soluzione si trova sempre e  non contraddice la regola).
Abbassando al massimo il rapporto qualità-prezo, infatti, si ottiene esattamente questo risultato: i rampolli delle famiglie benestanti vanno immediatamente verso le università private (detto fra noi: con ben poche "eccellenze" in cattedra, compresi gli economisti), mentre quelli "da lavoro dipendente" rarefanno le iscrizioni anno dopo anno.
Non sono mancati i complici, naturalmente. Dagli ex portaborse ricollocati come "docenti", ai profesori pavidi tutti desiderosi di diventare capi-dipartimento (e quindi favorevoli per decenni alla proliferazione insensata di nuovi corsi inutili), a quella parte di studenti che pensava di essere ribelle quando chiedeva un "apprendimento lento" e "compatibile con le esigenze di vita".

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Sempre più cara, sempre più d’elite, sempre meno di massa. Che l’università italiana stesse vivendo un periodo non facile in termini di immatricolazioni, di qualità della didattica e di appeal, gli studenti lo denunciavano da anni con le loro mobilitazioni. Nei giorni scorsi è però arrivato il dato che certifica una situazione che va ben oltre la criticità: nell’anno 2012/2013 solo il 57,7% dei diplomati hanno poi deciso di proseguire gli studi.

Calcolare il tasso di diplomati che ogni anno si immatricolano è molto semplice: basta incrociare i dati forniti dal Ministero dell’Istruzione che quantificano in numeri assoluti i diplomi annuali con quelli resi noti dalle Università. Il risultato documenta il drammatico fallimento del sistema d’istruzione italiano che negli ultimi 10 anni ha visto pericolosamente abbassarsi il tasso di laureandi e di laureati. In realtà, andando molto indietro nel tempo, il record negativo toccato quest’anno regge per ben 30 anni, visto che nel 1982 oltre 7 giovani diplomati su 10 proseguirono gli studi. Un dato che è risultato in crescita costante sino al picco del 1991/1992 quando gli immatricolati fuorono il 79,9% dei diplomati. Da allora risultati altalenanti ma comunque positivi negli anni ‘90, fino al continuo trend negativo degli anni 2000 e al record negativo di quest’anno, che ragionando in termini assoluti rende ancor più l’idea delle proporzioni del fenomeno: in soli 12 mesi il sistema universitario italiano ha perso quasi 100mila immatricolazioni.

Un risultato, quello italiano, ancor più grave se si travalicano i confini nazionali per fare un confronto col contesto europeo. Con il suo misero 19,8% di popolazione compresa tra i 30 e i 34 anni fornita di laurea, l’Italia è il paese europeo con il minor tasso di laureati. Lontanissime Germania e Francia, che rispettivamente registrano tassi del 30% e del 43%. Altrettanto irraggiungibili, allo stato dei fatti, gli obiettivi fissati dall’Unione Europea che per il 2020 prevedeva percentuali del 40%. Cifre astronomiche, soprattutto per l’Italia, che ricordiamo essere stato uno dei pochissimi paesi che in tempo di crisi ha cercato di reperire risorse proprio dal mondo dell’istruzione, con tagli al bilancio tra il 2010 e il 2012 nell’ordine del 10%. Così, mentre l’Italia nel 2008 si apprestava a sforbiciare 100mila cattedre, la Germania incrementava il numero degli insegnanti del 13% e la Turchia guidava il filotto di paesi che puntavano sull’istruzione con un aumento del 16,5% degli investimenti.

Il perché in tempo di crisi in molti puntino sull’istruzione è molto semplice: solo con una qualificazione della mano d’opera e con lo sviluppo tecnologico è possibile reggere la concorrenza di sistemi economici impostati sullo sfruttamento e sul basso costo del lavoro. La considerazione non è nemmeno troppo d’avanguardia se è vero che molti economisti negli ultimi anni si sono spesi nel definire l’istruzione e la cultura due veri e propri volani per l’economia. Investire oggi per quadruplicare i benefici domani è però una teoria che solo i nostri governanti non hanno compreso. Persino dalle parti di Bruxelles, dove i conti li sanno fare bene, si sono convinti dell’importanza degli investimenti in università e ricerca, tanto che proprio l’Italia è stata nei mesi scorsi oggetto di un forte richiamo da parte della Commissione, che per bocca di Androulla Vassiliou commentava: "Se gli Stati membri non investono adeguatamente nella modernizzazione dell'istruzione e delle abilità ci troveremo sempre più arretrati rispetto ai nostri concorrenti globali e avremo difficoltà ad affrontare il problema della disoccupazione giovanile".

Parole che suonano come un’accusa nemmeno troppo velata contro le politiche messe in campo dagli ultimi governi che avrebbero dovuto, nelle intenzioni sbandierate, snellire e rilanciare l’università italiana nel segno della meritocrazia, e che invece hanno solo avuto l’effetto di rendere alienante la didattica (a causa della riduzione e dell’invecchiamento dei professori) e di aumentare i costi chiudendo le porte ai meno abbienti. Un vero disastro, dunque, che sembra non dispiacere però a qualche nostro miope politico visto che per il nascente governo Letta qualcuno ha fatto il nome di Mariastella Gelmini per il ministero dell’istruzione. Come a dire, al peggio non c’è mai fine.

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