Dal Pds di Occhetto al Pd di Bersani, passando per i Ds di D’Alema, Veltroni, Fassino e parentesi breve dell’ex Ppi Franceschini
Da vent’anni a questa parte un uomo solo torreggia alla guida del
centrodestra. Dall’altra parte, invece, il turn over dei segretari è
stato vertiginoso, e ciascuno ha aggiunto la sua pietra o pietruzza al
monumento funebre di quello che oggi si chiama Pd.
Il primo fu Achille Occhetto però non se lo ricorda nessuno: in un rigurgito di soviettismo reale ne hanno cancellato anche la memoria. Pur di eliminare ogni pur minima traccia del suo passaggio terreno, nel febbraio 1998 cambiarono persino il nome del partito che aveva fondato sette anni tondi prima. Modifica chirurgica e mirata: eliminarono la «P» dal Pds e tutto quel che potesse ricordare il fondatore. Punto. Democratici sì, ma con quel tanto di moscovita che non guasta.
Occhetto era un di quei tipi che non sanno dove andare però ci vanno. A gente così capita di cambiare idea a ripetizione e il segretario-fondatore si guadagnò per questo l’epiteto di «ondivago». Non che fosse immeritato, ma confrontato a quelli che l’hanno seguito era un modello di tetragona coerenza.
Più che una strategia aveva in mente una visione, oltretutto tra le più fumose. Parlava di «carovane» invece di pensare alle alleanze. Profetizzava tremolanti orizzonti invece di mettersi lì a fare la conta dei voti e delle convenienze. Fu il primo, ma non l’ultimo, a rimanere vittime delle sue stesse certezze: covintissimo di avere già in tasca la vittoria nelle elezioni del 1994 e non si preoccupò più che tanto di ramazzare consensi con una campagna elettorale efficace. Berlusconi lo fece nero in due riprese: la sconfitta nelle politiche di marzo e subito dopo quella nelle europee, che gli affibbiò il colpo di grazia. Lasciò come pensate eredità l’incapacità costitutiva di adottare una linea politica precisa: il primo tra i tanti nodi arrivati al pettine negli ultimi tre giorni di passione e agonia.
Il segretario prossimo venturo, Massimo D’Alema, aspettava solo il momento giusto per sbalzare di sella l’odiatissimo rivale. Poco diplomatico, un secondo dopo i risultati delle europee gli chiari la situazione senza delicatezze: «Sei obsoleto». Lui, Massimino la Volpe, era di tutt’altra tempra. Basta baloccarsi con carovane e visioni profetiche, che la politica è una cosa seria: alleanze, giochi di corridoio, manovre tanto complicate che alla fine ci si perdeva lui stesso. Si liberò di Berlusconi in pochi mesi con metodi che chiamarli discutibili sarebbe un eufemismo, poi però lo nominò padre costituente inventandosi una bicamerale che avrebbe dovuto riscrivere la Carta. S’inventò la candidatura Prodi, lo portò al governo, poi, essendo l’indole quella che è, iniziò a brigare per farlo fuori proprio come aveva fatto con Occhetto. L’uomo è fatto così: uno di quei casi che attengono alla patologia più che alla politica.
Centrò l’obiettivo anche stavolta. Conquistò palazzo Chigi e ci passò un annetto e mezzo. Giusto il tempo di scaricare un po’ di bombe sulla ex Jugoslavia e condannare così il suo partito a certa sconfitta prima nelle Regionali del 2000, che gli costarono il governo, e l’anno dopo anche nelle politiche.
Tra tutte le eredità venefiche che ogni segretario ha lasciato al partito, la sua è di gran lunga la peggiore: la politica come intrigo e spregiudicatezza camuffata da paroloni altisonanti. Un flagello.
Mentre la volpe bombardava sia la Serbia che il centrosinistra da palazzo Chigi, al suo posto subentrava l’amico-nemico di sempre, il gemello diverso Walterino Veltroni. Aveva in mente lo stesso identico modello, una sinistra di destra, ma tutt’altro stile: quintalate di melassa pura, di quella che ti fa capire perché i cattivi di solito mettono meno paura dei buoni e cultura varia disseminata un po’ alla ‘ndo cojo cojo, come si dice a Roma. La differenza tra lui e l’eterno rivale era questione di facciata, se non per la capacità del nuovo segretario di cadere sempre e comunque in piedi. Mentre il suo partito correva come un treno ad alta velocità verso la tranvata elettorale del 2001 il pilota saltò giù all’ultimo secondo per andare a fare il sindaco di Roma. Impagabile.
Però al peggio non c’è mai fine, così nel 2001 l’ambito scettro passò nelle scheletriche mani di Piero Fassino, quello che quando parla un dirigente Fiat va in deliquio per default. Della sua segreteria si ricorda poco: giusto le crisi isteriche, peraltro frequentissime e una telefonata con una banca per argomento che gli costò qualche milione di voti. Evviva, abbiamo una banca! Per il resto fece un onesto sforzo per rendere i Ds moderni, cioè pronti a vendersi mamma, nonni e amato micio in nome della compatibilità. Il dirigente che ogni salariato e precario incontra quando dorme. Si chiamano incubi.
Tra una sbraitata e l’altra, l’adoratore del Lingotto portò i Ds all’appuntamento con la fondazione del partito numero 3, il Pd, poi passò la guida al redivivo Walterino, che accetto giusto per senso di responsabilità: «Volevo andare in Africa a fare il missionario, ma se la patria chiama…».
Appena insediato il risegretario iniziò a mitragliare il governo Prodi, che aveva fretta di tornare al voto. Per sostanziare la sua bizzarra teoria sociale piazzò come capolista nel Veneto Massimo Calearo, industriale dai denti a sciabola, uno che Forza Italia ce l’aveva nel cuore e, dicono, persino nella suoneria del telefonino. Scaricò la sinistra, che ci mise del suo per identica miopia, scoprì la «vocazione maggioritaria», grazie alla quale consegnò al Berlusca una maggioranza mai vista nella storia patria. Un geniaccio.
L’ultimo segretario Bersani il Crocefisso, ha commesso errori a valanga e chi mai lo negherà? Ma se avesse vicino un avvocato difensore invece che solo avvoltoi otterrebbe facilmente le attenuanti. Il Partito che ha ereditato dai suddetti gentiluomini era quello che era. Le corde che lo stanno strangolando erano state tese da quindici anni e da sei segreterie (senza contare la segreteria pro-tempore Franceschini, la più anonima e forse la meno dannosa). Non è stato capace di raddrizzare la barra. Non ci ha nemmeno saputo provare. Però non era facile. Forse non era possibile.
Il primo fu Achille Occhetto però non se lo ricorda nessuno: in un rigurgito di soviettismo reale ne hanno cancellato anche la memoria. Pur di eliminare ogni pur minima traccia del suo passaggio terreno, nel febbraio 1998 cambiarono persino il nome del partito che aveva fondato sette anni tondi prima. Modifica chirurgica e mirata: eliminarono la «P» dal Pds e tutto quel che potesse ricordare il fondatore. Punto. Democratici sì, ma con quel tanto di moscovita che non guasta.
Occhetto era un di quei tipi che non sanno dove andare però ci vanno. A gente così capita di cambiare idea a ripetizione e il segretario-fondatore si guadagnò per questo l’epiteto di «ondivago». Non che fosse immeritato, ma confrontato a quelli che l’hanno seguito era un modello di tetragona coerenza.
Più che una strategia aveva in mente una visione, oltretutto tra le più fumose. Parlava di «carovane» invece di pensare alle alleanze. Profetizzava tremolanti orizzonti invece di mettersi lì a fare la conta dei voti e delle convenienze. Fu il primo, ma non l’ultimo, a rimanere vittime delle sue stesse certezze: covintissimo di avere già in tasca la vittoria nelle elezioni del 1994 e non si preoccupò più che tanto di ramazzare consensi con una campagna elettorale efficace. Berlusconi lo fece nero in due riprese: la sconfitta nelle politiche di marzo e subito dopo quella nelle europee, che gli affibbiò il colpo di grazia. Lasciò come pensate eredità l’incapacità costitutiva di adottare una linea politica precisa: il primo tra i tanti nodi arrivati al pettine negli ultimi tre giorni di passione e agonia.
Il segretario prossimo venturo, Massimo D’Alema, aspettava solo il momento giusto per sbalzare di sella l’odiatissimo rivale. Poco diplomatico, un secondo dopo i risultati delle europee gli chiari la situazione senza delicatezze: «Sei obsoleto». Lui, Massimino la Volpe, era di tutt’altra tempra. Basta baloccarsi con carovane e visioni profetiche, che la politica è una cosa seria: alleanze, giochi di corridoio, manovre tanto complicate che alla fine ci si perdeva lui stesso. Si liberò di Berlusconi in pochi mesi con metodi che chiamarli discutibili sarebbe un eufemismo, poi però lo nominò padre costituente inventandosi una bicamerale che avrebbe dovuto riscrivere la Carta. S’inventò la candidatura Prodi, lo portò al governo, poi, essendo l’indole quella che è, iniziò a brigare per farlo fuori proprio come aveva fatto con Occhetto. L’uomo è fatto così: uno di quei casi che attengono alla patologia più che alla politica.
Centrò l’obiettivo anche stavolta. Conquistò palazzo Chigi e ci passò un annetto e mezzo. Giusto il tempo di scaricare un po’ di bombe sulla ex Jugoslavia e condannare così il suo partito a certa sconfitta prima nelle Regionali del 2000, che gli costarono il governo, e l’anno dopo anche nelle politiche.
Tra tutte le eredità venefiche che ogni segretario ha lasciato al partito, la sua è di gran lunga la peggiore: la politica come intrigo e spregiudicatezza camuffata da paroloni altisonanti. Un flagello.
Mentre la volpe bombardava sia la Serbia che il centrosinistra da palazzo Chigi, al suo posto subentrava l’amico-nemico di sempre, il gemello diverso Walterino Veltroni. Aveva in mente lo stesso identico modello, una sinistra di destra, ma tutt’altro stile: quintalate di melassa pura, di quella che ti fa capire perché i cattivi di solito mettono meno paura dei buoni e cultura varia disseminata un po’ alla ‘ndo cojo cojo, come si dice a Roma. La differenza tra lui e l’eterno rivale era questione di facciata, se non per la capacità del nuovo segretario di cadere sempre e comunque in piedi. Mentre il suo partito correva come un treno ad alta velocità verso la tranvata elettorale del 2001 il pilota saltò giù all’ultimo secondo per andare a fare il sindaco di Roma. Impagabile.
Però al peggio non c’è mai fine, così nel 2001 l’ambito scettro passò nelle scheletriche mani di Piero Fassino, quello che quando parla un dirigente Fiat va in deliquio per default. Della sua segreteria si ricorda poco: giusto le crisi isteriche, peraltro frequentissime e una telefonata con una banca per argomento che gli costò qualche milione di voti. Evviva, abbiamo una banca! Per il resto fece un onesto sforzo per rendere i Ds moderni, cioè pronti a vendersi mamma, nonni e amato micio in nome della compatibilità. Il dirigente che ogni salariato e precario incontra quando dorme. Si chiamano incubi.
Tra una sbraitata e l’altra, l’adoratore del Lingotto portò i Ds all’appuntamento con la fondazione del partito numero 3, il Pd, poi passò la guida al redivivo Walterino, che accetto giusto per senso di responsabilità: «Volevo andare in Africa a fare il missionario, ma se la patria chiama…».
Appena insediato il risegretario iniziò a mitragliare il governo Prodi, che aveva fretta di tornare al voto. Per sostanziare la sua bizzarra teoria sociale piazzò come capolista nel Veneto Massimo Calearo, industriale dai denti a sciabola, uno che Forza Italia ce l’aveva nel cuore e, dicono, persino nella suoneria del telefonino. Scaricò la sinistra, che ci mise del suo per identica miopia, scoprì la «vocazione maggioritaria», grazie alla quale consegnò al Berlusca una maggioranza mai vista nella storia patria. Un geniaccio.
L’ultimo segretario Bersani il Crocefisso, ha commesso errori a valanga e chi mai lo negherà? Ma se avesse vicino un avvocato difensore invece che solo avvoltoi otterrebbe facilmente le attenuanti. Il Partito che ha ereditato dai suddetti gentiluomini era quello che era. Le corde che lo stanno strangolando erano state tese da quindici anni e da sei segreterie (senza contare la segreteria pro-tempore Franceschini, la più anonima e forse la meno dannosa). Non è stato capace di raddrizzare la barra. Non ci ha nemmeno saputo provare. Però non era facile. Forse non era possibile.
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