Alcuni libri sono come le ciliegie… uno tira l’altro. E’ capitato così che leggendo La bolla del dollaro, un libro che consideriamo davvero importante e che a breve recensiremo, ci siamo imbattuti in un volume altrettanto importante scritto da Duccio Basosi e pubblicato nel 2006 dai tipi delle Edizioni Polistampa: Il governo del dollaro.
Sulla scorta di fonti originali e poco conosciute il testo affronta uno degli snodi più importanti della storia recente del capitalismo, ovvero il passaggio dal gold-dollar standard uscito dalla conferenza di Bretton Woods al dollar standard su cui ancora oggi poggia il sistema monetario internazionale. Forse potrà sembrare strano star qui a sottolineare l’importanza di un libro che affronta avvenimenti ormai vecchi di oltre quarant’anni eppure l’analisi di quanto avvenne allora si rivela indispensabile per comprendere le radici della crisi che dal 2007 scuote il modo di produzione capitalistico e, al contempo, le contraddizioni interimperialistiche che caratterizzano il presente.
Da questo blog abbiamo più volte sottolineato come la crisi finanziaria rappresenti solo l’epifenomeno di una crisi sistemica ben più profonda legata alla caduta tendenziale del tasso medio di profitto e all’esaurimento del ciclo di accumulazione fordista che aveva caratterizzato i “gloriosi” 30 anni post bellici. Abbiamo anche scritto di come tutto questo si sia tradotto in una crisi di egemonia dell’imperialismo statunitense costretto a confrontarsi in primo luogo con l’emersione del blocco imperialista europeo. Ebbene il testo di Basosi contribuisce a far luce proprio sulla genesi di questa situazione rivelandosi dunque di estrema utilità ed interesse non solo per lo storico o l’economista ma anche per il militante politico, ma procediamo con ordine…
La sera del 15 agosto del 1971 il pubblico americano era in attesa che iniziasse un nuovo episodio di Bonanza ma invece degli attori della fortunata serie televisiva sugli schermi apparve il faccione del presidente Richard Nixon che annunciava l’adozione di quattro importanti provvedimenti di politica economica destinati a cambiare le sorti del mondo e a cui lui stesso aveva dato il nome di New Economic Policy, NEP. Nonostante il richiamo involontario di Nixon alle disposizioni leniniane del 1921 le quattro misure prevedevano:
a) Stimoli alla crescita e agli investimenti
b) Blocco totale dei salari e dei prezzi per 90 giorni
c) Sospensione unilaterale della convertibilità aurea del dollaro
d) Istituzione di una sovrattassa temporanea del 10% su tutte le importazioni
Con queste misure il presidente statunitense assestò un colpo mortale al sistema monetario internazionale partorito nel 1944 a Bretton Woods, un sistema che gli stessi Stati Uniti avevano allora fortemente voluto e contribuito a realizzare. Il passaggio dai cambi fissi a quelli fluttuanti chiamò in causa la natura stessa del rapporto tra gli stati e tra questi e le forze economiche. Il passaggio alla libera fluttuazione delle valute avviò anche, nel lungo periodo, la transizione a nuove forme economiche e produttive che misero fine al capitalismo fordista-keynesiano così per com’era conosciuto.
Il lavoro di Basosi sottopone a revisione critica le interpretazioni dominanti su questo importante passaggio storico secondo cui gli stessi Stati Uniti furono travolti dalla crisi del sistema monetario internazionale riscontrando invece in quanto avvenuto il risultato di una precisa volontà politica dell’amministrazione statunitense. Ciò ha spinto l’autore ad allargare lo sguardo ben oltre la singola data del 15 agosto 1971 arrivando così ad abbracciare e ad analizzare la politica economica internazionale di Nixon lungo l’intero periodo del suo mandato presidenziale.
Il sistema di Bretton Woods era stato concepito come parte del “grande disegno” rooselveltiano ed estendeva le ricette macroeconomiche keynesiane su scala internazionale grazie ad un sistema di cambi fissi e ad una gestione “multilaterale” delle politiche economiche. Pur ridotto al solo campo occidentale il sistema aveva sancito l’egemonia statunitense sul mondo non sovietico attraverso il ruolo dominante del dollaro (convertibile in oro al prezzo di 35 dollari l’oncia) come mezzo di pagamento e strumento di riserva internazionale.
Fin dagli inizi il fatto che la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti fosse strutturalmente in deficit non aveva generato problemi né politici né economici per via del ruolo militare ricoperto dagli USA e per lo stato di minorità delle altre economie uscite distrutte dalla seconda guerra mondiale. La crescita impetuosa dell’economia europea e giapponese modificò questa condizione chiarendo agli stessi ambienti dell’amministrazione statunitense come la vera minaccia per gli USA, almeno dal punto di vista economico, provenisse proprio dai paesi capitalisti alleati che stavano progressivamente conquistando quote sempre più rilevanti del mercato mondiale.
Nel periodo tra il 1960 e il 1967 il tasso di crescita del Pil reale nei paesi europei fu mediamente del 5% mentre il Pil USA dal 1967 iniziò a decelerare dal 2,7% fino al -0,3% del 1970. Il reddito nazionale degli USA, che nel 1950 rappresentava il 36% del reddito mondiale, alla fine degli anni ’60 era sceso al 30%. Nello stesso periodo le esportazioni manifatturiere sul totale delle esportazioni dei 6 paesi più industrializzati erano passate dal 25 al 18.5%. Contemporaneamente le riserve auree erano scese dai 17.8 miliardi di dollari del 1960 ai 10.8 del 1968. Il 1960 segnò anche un altro punto di non ritorno, i dollari in circolazione all’estero avevano superato le riserve auree di cui disponeva la Federal Reserve
Subito dopo il suo insediamento, tra il 23 febbraio e il 2 marzo del 1969, Nixon fece un viaggio in Europa portando il tema della riforma del sistema monetario internazionale all’ordine del giorno degli incontri bilaterali anche se in termini ambigui per evitare di incrinare i rapporti con le varie leadership. La collaborazione europea era essenzialmente concepita come strumentale ad un disegno i cui termini erano tutti interni alla politica globale statunitense. Dunque, nonostante in quel periodo nell’amministrazione Nixon prevalessero ancora gli orientamenti “multilaterali e gradualisti”, già dal 1969 iniziò a prendere forma l’idea di un abbandono unilaterale del sistema di Bretton Woods e si cominciò a disegnare la strategia con cui “giustificare” tale scelta a livello internazionale.
A raffreddare definitivamente ogni speranza di riforma “condivisa” del sistema monetario internazionale arrivò poi la decisione dei sei paesi membri della Comunità Economica Europea di procedere verso la creazione di una Unione Economica e Monetaria (UEM). Si trattava di un percorso che per quanto di lungo periodo (un decennio) andava oggettivamente in una direzione diametralmente opposta a quella desiderata da Washington. Ad acuire ulteriormente le tensioni fra gli alleati contribuà inoltre la decisione da parte di Nixon di adottare una politica passiva di bilancia dei pagamenti. Violando volontariamente le regole di Bretton Woods Nixon mirava a neutralizzare, o quantomeno a limitare, i vincoli imposti proprio dalla bilancia dei pagamenti alla libertà di movimento globale degli Stati Uniti. In questo modo i paesi europei non solo erano chiamati a sorreggere il dollaro in virtù degli accordi di non conversione ma, per mantenere i propri tassi di cambio entro i margini consentiti da Bretton Woods, erano costretti ad aumentare corrispondentemente la propria offerta di moneta fino a renderla di fatto dipendente dalle scelte di Washington, con la conseguenza di importare inflazione.
Nella primavera del 1971 iniziò dunque a prendere forma concreta la chiusura unilaterale della finestra aurea dal momento che, agli occhi degli Usa, si era esaurita ogni possibile via negoziale alla riforma del sistema monetario internazionale e si stavano progressivamente contraendo i margini di manovra concessi dalla politica passiva di bilancio. Ma se il “che fare” era ormai chiaro, tempi e forme erano invece fortemente influenzati dalla percezione dei paesi europei come competitori economici. L’unificazione monetaria costituì dunque sia un campanello d’allarme sia un fattore decisivo nel determinare le forme con cui praticare una scelta già fatta,
Come ricorda l’Autore parte della storiografia ha sempre interpretato il periodo seguente al 15 agosto come il tentativo affannoso di rimettere insieme i cocci del sistema monetario internazionale. In realtà questo tentativo corrispondeva esclusivamente alla volontà europea, mentre per gli Stati Uniti la questione si poneva in termini assai diversi. Per gli Usa l’obiettivo non fu mai quello di tornare a prima della promulgazione della NEP ma quello di sfruttare i rapporti di forza che quest’ultima aveva creato per rilanciare il proprio ruolo globale.
Sulla scorta di una serie di vicende di politica internazionale (Vietnam, Iran, ecc) molte ricostruzioni storiche tendono ad enfatizzare la crisi attraversata dagli Stati Uniti nel corso dell’intero decennio degli anni 70. Secondo Basosi queste interpretazioni sembrano però non cogliere tutte le implicazioni della nuova posizione globale degli Stati Uniti proprio in relazione delle loro strategie di rilancio anche se è innegabile che, proprio in virtù del mutamento in atto nella struttura economica internazionale e nell’economia statunitense, la forma della proiezione globale Usa non sarebbe più stata la stessa.
Al fondo della politica statunitense stava prendendo forma la visione di un “nuovo mondo economico” mirante alla completa liberalizzazione dei flussi di capitali attraverso le frontiere. Questa nuova visione imponeva anche una serie di riflessioni sul ruolo del potere statale in un’economia sempre più sbilanciata verso il lassaiz-faire del mercato. La tendenza delle multinazionali a reinvestire i propri profitti direttamente all’estero era una tendenza ormai consolidata che nessuno si sognava di contrastare, essa implicava però un drenaggio continuo di risorse che minacciava di lasciare perennemente deficitaria la bilancia dei pagamenti statunitense.
Andava dunque ripensato il ruolo che il potere statunitense avrebbe dovuto svolgere in funzione di appoggio al processo di internazionalizzazione e deregolamentazione della produzione e della finanza, e al tempo stesso andava analizzato il rapporto tra l’avanzamento di questo processo e il mantenimento di un potere adeguato. L’estensione globale delle corporation e della finanza richiedeva cioè un’adeguata capacità globale di intervento politico e militare da parte degli Usa. In un contesto simile il dollar standard a cambi flessibili uscito dopo il 15 agosto del 71 presentava evidenti vantaggi per il governo degli Stati uniti che poteva maneggiare, ormai senza più il vincolo formale della convertibilità aurea, la valuta perno del sistema monetario internazionale.
La stampa dei dollari inflazionati non permetteva soltanto di contenere le tensioni sociali interne ma anche di scaricarle all’estero attraverso l’inflazione e il disordine dei mercati valutari determinando così continue difficoltà politiche oltre che economiche alla Comunità Europea. In questo contesto se la volontà europea di accelerare la costruzione dell’unione monetaria veniva rafforzata, le basi di un suo possibile successo si restringevano paurosamente mese dopo mese per via dei differenziali inflazionistici dei diversi paesi.
Tra il 1973 e il 1977 nonostante lo shock petrolifero avesse fatto quadruplicare i prezzi del greggio gli Stati uniti furono l’unico paese a vedere aumentati i propri consumi di petrolio (+20%). Potendo compensare gli acquisti di greggio con l’emissione di valuta di riserva del sistema monetario internazionale essi furono in grado di ammortizzare le difficoltà, che pure incontrarono, molto meglio degli altri paesi industrializzati. L’esplosione della crisi energetica trasformò in pochi mesi e in maniera radicale il problema monetario internazionale. Il dollaro, da valuta sovrabbondante e inflazionata, divenne ben presto il bene rifugio per eccellenza e il mezzo più ricercato per il pagamento del petrolio. Tra il 1975 e il 1982 il reinserimento nei circuiti economici dei “petrodollari” fu un affare enorme; gli enormi flussi di denaro che raggiunsero i paesi produttori non potevano essere reinvestiti in loco e, grazie al peso politico degli Usa, furono reinvestiti soprattutto a vantaggio delle più grandi banche statunitensi.
Nella prima metà degli anni 80 Reagan gettò il peso della finanza statunitense sul piatto della guerra fredda, a costo di un deficit commerciale enorme egli attrasse un flusso di capitali di dimensioni quasi analoghe attraverso cui fu finanziato un programma di innovazione tecnologica teso a ristabilire il primato militare sull’URSS. Nel 1999 il deficit Usa raggiunse la cifra di 346 miliardi di dollari mentre l’indebitamento netto toccò la cifra altrettanto strabiliante di 1704 miliardi di dollari, pari al 20% del Pil. Infine, le imprese multinazionali divennero, nel corso degli ultimi tre decenni del 900, protagoniste assolute della scena economica mondiale. Sulle prime cento di queste ben 27 sono nordamericane.
Attribuire alla politiche di Nixon la paternità di una quantità simile di avvenimenti è ovviamente fuori luogo. Anche perché a causa del Watergate Nixon potè essere protagonista solo in parte di quanto accadde dopo la fine di Bretton Woods. Solo dal punto di vista economico andrebbero citati, per esempio, almeno altri due passaggi significativi:
a) La definitiva svolta monetarista della FED avvenuta il 1° novembre del 1978 sotto la presidenza democratica di Carter;
b) Le politiche pro business adottate dal presidente Reagan a partire dalla fine del 1980
Resta il fatto però che, come ricorda l’Autore, rispetto all’insieme dei fenomeni descritti le scelte di Nixon ebbero un valore costituente.
Duccio Basosi, Il governo del dollaro, Edizioni Polistampa, 16 euro
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