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europa
Si terrà domani, lunedì 20 gennaio, alle 17,30 a Firenz
Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2014/tutta-unaltra-europa-un-convegno-per-capire-il-futuro-dellunione-con-parlamentari-costituzionalisti-societa-civile-e-no-profit/#.Uu01b7TDjNE
Copyright © gonews.it
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Si terrà domani, lunedì 20 gennaio, alle 17,30 a Firenz
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L'Europa è a un bivio. Da una parte c'è una strada già segnata e intensamente frequentata dagli organi centrali dell'Unione europea (Commissione, Consiglio e BCE), dal Fondo Monetario Internazionale (IMF), dai Governi dei paesi membri,
dai partiti che li sostengono e, soprattutto, dall'alta finanza che
domina il mondo. Quella non è che è l'assetto attuale del capitalismo
che si manifesta in Europa nelle politiche di austerity, imposte senza
alcuna considerazione per i danni che provocano, portando alla
dissoluzione l'intero edificio. Ma è anche una strada su cui transitano
persone e merci sorde di fronte ai rischi a cui stanno portando i
mutamenti climatici, la produzione di armi di distruzione di massa,
l'inquinamento di aria, suoli e acqua, la distruzione della
biodiversità, l'imperativo di produrre sempre di più perché.
Dal lato opposto c'è una strada ancora in gran parte da costruire:
manca per ora un progetto organico, ma soprattutto non è ancora emerso
un numero di attori sufficiente a metterla all'ordine del giorno, a
realizzarla, a cominciare a frequentarla. E' la direzione di un'umanità
che vuole rappacificarsi con l'ambiente senza rinunciare ai benefici che
l'evoluzione della scienza e della tecnica consente; che non intende
rinunciare al conflitto ma vorrebbe riportarlo in un ambito che escluda
sangue e violenza; che cerca di difendere la propria dignità e lavora
per recuperare autonomia e benessere personale in contesti di
condivisione.
Lungo questo percorso l'attenzione si concentra sui meccanismi che
bloccano la spesa pubblica, vagheggiando il ritorno a un mondo di ieri,
in cui il potenziamento del welfare e il supporto di un'industria di
stato o di una politica industriale dirigista aveva garantito trent'anni
di sviluppo quasi ininterrotto. Premessa di questa prospettiva è la
rinegoziazione radicale dei trattati che vincolano le politiche
economiche ai diktat della finanza: fiscal compact, pareggio di bilancio, two packs, ecc.
Tuttavia affidare occupazione, redditi e benessere alla
riproposizione di un massiccio sostegno a domanda e offerta delle
produzioni che hanno sorretto la crescita in passato non farebbe che
accelerare la corsa verso il baratro: verso un disastro planetario per
quanto riguarda l'ambiente; e verso una competizione sempre più serrata
di tutti contro tutti destinata a scaricarsi dalle imprese sui
lavoratori perché producano sempre di più guadagnando sempre meno: che è
ciò che ha portato all'impasse dei giorni nostri.
Serve invece una radicale riconversione verso produzioni nuove, per
recuperare rapporti rispettosi dell'ambiente e ricondurre economia e
gestione dei territori entro i limiti della sostenibilità. Una
transizione che non può essere affidata solo all'innovazione tecnologica
e a produzioni più sostenibili (la cosiddetta green economy), perché richiede radicali cambiamenti di paradigma nella loro gestione.
Per questo molti sottolineano le trasformazioni politiche e
istituzionali che entrambi questi approcci richiedono: l'Europa deve
trasformarsi in federazione di popoli governati in modo democratico,
decentrato, partecipato, capace di sottoporre a un controllo dal basso
gli strumenti di governo dell'economia, della politica estera e delle
politiche sociali.
Quei tre approcci costituiscono ovviamente un programma di lunga
lena, ma tutti e tre vedono nell'Europa un terreno irrinunciabile della
lotta politica che porti a una maggiore integrazione culturale,
economica e istituzionale e a una maggiore eguaglianza sia tra paesi
membri che all'interno di essi. Per questo sono approcci opposti a
quelli che individuano la strada per uscire dalla crisi in un ritorno
alle sovranità nazionali in campo monetario ("uscita dall'euro" e
svalutazioni competitive), tariffario (protezionismo), fiscale (spesa
pubblica finanziata da una banca centrale nazionale) e produttivo
(nazionalizzazioni: senza prospettare nuove forme di controllo delle
comunità sulle imprese). Il paradosso di queste proposte è che, pur
presentandosi come alternativa al liberismo, rimangono interamente
interne alla sua logica: per recuperare competitività sui mercati
internazionali con la svalutazione della propria valuta, in una gara di
al ribasso tra paesi impegnati tutti sulla stessa strada, bisognerebbe
che ciò che è stato possibile alla Germania in Europa o alla Cina nel
mondo sia replicabile per tutti; senza tener conto del fatto che ai
surplus commerciali dei "vincenti" devono corrispondere i deficit dei
perdenti. Che è il ruolo fatto giocare all'Italia e ai PIIGS
in questi anni. Inoltre, un approccio mirato sa recupero di una
evanescente sovranità nazionale non tiene conto dell'impatto ambientale
delle produzioni in essere, né del fatto che ciò che aveva favorito lo
sviluppo economico tra sessanta e trent'anni fa non funziona più né
adesso né funzionerà più in futuro, perché altre sono le cose da fare e
da produrre.
Il problema è quindi far camminare un progetto che integri quei tre
approcci europeisti alla luce delle indicazioni che si possono ricavare
dalle dinamiche dei movimenti sociali in atto o in gestazione. Il
problema di costruire un'Europa che raccolga le istanze espresse dalle
lotte di questi anni viene così a coincidere con quello
dell'organizzazione. Come allargare, connettere e omogeneizzare i
tanti spezzoni di resistenza e di opposizione al dominio della attuale
governance europea su tutte le problematiche del tessuto
socio-istituzionale europeo?
Si tratta di creare un "ponte", anzi, molti "ponti" (Alex Langer,
che era un vero europeista, amava questa metafora, che ben si combina
con quella della strada da costruire) tra realtà differenti per
dimensioni, rilevanza, composizione sociale, cultura, tradizione,
radicamento territoriale e, ovviamente, per nazionalità e lingua madre. E
qual è la leva che può portare a una progressiva interconnessione tra
questi elementi? A mio avviso è la conversione ecologica di produzioni e
consumi; tema che ingloba quello della giustizia sociale e ambientale. La
conversione ecologica è anche un passaggio graduale dal grande al
piccolo, dal concentrato al diffuso, dal gerarchico al partecipato, in
un generale orientamento alla riterritorializzazione dei processi
economici.
Per esempio, dai grandi impianti di estrazione, trasporto,
combustione, raffinazione dei combustibili fossili, e di trasporto
dell'energia elettrica o dal carburante che se ne ricava, allo
sfruttamento delle fonti rinnovabile e all'efficienza energetica in
modalità diffuse, distribuite su tutto il territorio, con impianti
piccoli e diversificati per fonti e per carichi, individuati con il
coinvolgimento degli utenti. O il passaggio dalle coltivazioni intensive
che consumano dieci volte più calorie di origine fossile di quante ne
producano in termini biologici, a una agricoltura di prossimità,
ecologica e multifunzionale. O, ancora, il passaggio da quella
incentrata sull'auto privata a una mobilità flessibile, fondata sulla
condivisione dei veicoli, ecc. Sono tutti indirizzi che creano molta
occupazione e tendono alla rilocalizzazione di molti processi
produttivi. Ma la conversione ecologica deve anche ridimensionare (con
una politica di accordi diretti tra produttori e utilizzatori o
consumatori finali) quella competizione globale, dove per vincere si
spingono verso il basso salari, condizioni di lavoro, tutele
dell'ambiente e della salute, condizioni di vita, sostegno ai più
deboli, trasformando tutti in soldati di un esercito al comando dei
rispettivi capitani d'industria o dei gestori della finanza pubblica del
proprio paese.
Decisivo in questo processo saranno le amministrazioni locali, perché
la riterritorializzazione può venir promossa solo restituendo ai
governi locali, adeguatamente sostenuti da una democrazia partecipata di
prossimità, i poteri necessari a realizzare questo obiettivo.
Rinegoziazione dei vincoli finanziari, conversione ecologica,
riterritorializzazione delle produzioni e federalismo municipale si
possono dunque saldare in un programma comune che ha il suo perno nella
trasformazioni delle produzioni e dei servizi essenziali in "beni
comuni".
Naturalmente, tutto ciò sarebbe possibile solo in un quadro di
drastico ridimensionato del potere dell'alta finanza: un obiettivo
difficilmente realizzabile in modo consensuale. E' assai più verosimile
che esso si materializzi in una serie traumatica di shock. Per questo
anticipare i processi di riterritorializzazione è anche un modo per
difendersi e prevenire gli effetti più devastanti di probabili
ritorsioni.
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