venerdì 28 febbraio 2014

Oltre il limite di Renzo Massarelli

C'è sempre una goccia che fa traboccare il vaso. Questa volta è successo in via Enrico Dal Pozzo, una strada che costeggia prima il vecchio ospedale di Monteluce e poi il cimitero. Questa storia della residenza universitaria che si vuol costruire davanti a San Bevignate e accanto all'ingresso del cimitero sta facendo il giro della città perché c'è sempre una goccia, alla fine, che ci dice che si è andati oltre il limite sopportabile. Se avessero cercato, per rovinarlo, un posto più intoccabile di questo non lo avrebbero potuto trovare. Ciò che colpisce è la assoluta indifferenza di fronte ai luoghi e al loro valore storico e ambientale. E' come se il territorio fosse una landa indistinta che si può manomettere senza distinzioni e senza discernimento. In questo caso Adisu, l'agenzia regionale per il diritto allo studio, costruisce una residenza universitaria perché ci sono dei finanziamenti statali e un terreno di proprietà della Regione e così, per farlo, si sceglie un luogo di grande valore storico e paesaggistico.

In via Dal Pozzo non c'è soltanto una delle chiese più affascinanti di Perugia e, poco vicino, il cimitero monumentale. Non è neanche il caso di ricordare che le nuove costruzioni che si vorrebbero realizzare appartengono a una tipologia edilizia men che mediocre, ma anche se fossero state diverse la gravità della scelta non sarebbe cambiata.
Così, alla fine, ci si chiede: perché fanno queste cose? La risposta non è difficile. Le fanno perché le hanno sempre fatte. Questa vicenda ci rimanda al terreno di Maestrello, alle pendici del monte Tezio, dove sono stati collocati pannelli solari su una superficie grande come quattro campi di calcio, alle colline rivestite di pini D'Aleppo e poi sommerse da villette seriali davanti a via Tuderte e alla spalle di San Vetturino, paesaggi dal taglio insolitamente mediterraneo, ormai compromessi e alle altre lottizzazioni che hanno segnato pesantemente le colline e i territori di pregio di tante zone del comune.
La residenza universitaria lungo la strada che porta al cimitero avrà un fronte di oltre cento metri così che la chiamano già, prima ancora che venga realizzata, lo "steccone", anche se non è così alta e grossa come quello di Fontivegge. Li, proprio nel terreno degli ulivi che ora sono stati tagliati, si ritrovavano per poi prendere la strada di casa le lavandaie di Pretola. Questa piccola frazione perugina, sorta sulle sponde del Tevere, è stata per molto tempo la lavanderia di Perugia grazie all'acqua corrente e alle vasche sul fiume. Le lavandaie di Pretola seguivano un sentiero che ora è stato riscoperto e valorizzato partendo proprio dal terreno dei vecchi ulivi di San Bevignate. Questo sentiero prende la direzione del fosso alle spalle del cimitero, attraversa boschi e piccole vallate lungo la discesa che porta al molino e alla torre di Pretola.
Il versante posto a nordest del colle perugino, grazie anche alla forte pendenza dei fossi di Santa Margherita e del Bulagaio si è salvato, nel suo complesso, dalla cementificazione intensiva che ha colpito la parte opposta che guarda verso occidente, il lago e la Toscana. Una volta ci dicevano: la città compatta è cresciuta verso la stazione delle ferrovie dello Stato e non è stato possibile fare altrimenti, ma abbiamo salvato il vastissimo territorio che scende verso il Tevere.
Adesso sappiamo che nulla è impossibile e che non c'è territorio, in qualunque posizione si trovi, che possa sentirsi al sicuro. In quanto ai valori evocati da parole come paesaggio, natura, memoria storica, non è il caso di insistere. Lo sviluppo edilizio con il consumo intensivo di territorio, con le sue strade e rotonde, sempre utile ad accrescere opportunità e affari, è ciò che ha segnato la modernità di una città come Perugia.
Ci avevano detto che il ciclo del mattone e delle grandi opere sarebbe finito. Qui, in questo splendido luogo dell'anima che è il piccolo falsopiano di San Bevignate, intanto stanno per arrivare le ruspe. Forse stanno raschiando il fondo del barile, chissà.

Rottura definitiva tra Camusso e Landini

Rottura definitiva tra Camusso e Landini

Scontro frontale, senza più mediazioni. Ci siamo presi un giorno prima di scrivere del Direttivo Nazionale della Cgil, in modo da far sbollire le incazzature e i toni accesi e verificare meglio le cose. Ma non sono cambiate, nel frattempo.
E quindi. La Cgil terrà una – finta - consultazione degli iscritti sull’accordo sulla rappresentanza siglato il 10 gennaio insieme a Cisl, Uil e Confindustria. Il tutto dovrebbe avvenire entro il mese di marzo; è la stessa tempistica a suggerire che si tratterà di un “pro forma”, utile soltanto alla Camusso per “certificare” che la sua scelta è stata approvata e che questo è avvenuto con “procedure democratiche”. Chiunque abbia messo il naso in un'assemblea congressuale della Cgil, di questi tempi, sa benissimo che non è esattamente così. Tanto meno per quanto riguarda le procedure di voto, ridicolizzate dalla prassi dell'”urna itinerante” con un solo funzionario che va in giro a raccogliere “i voti”... e poi se li conta da solo (a meno che non ci sia anche un combattivo esponente del documento alternativo).
Il documento che fissa le modalità della consultazione non lascia spazio a interpretazioni dissonanti. “Una campagna di assemblee informative già definite tra Cgil, Cisl e Uil da tenersi nel mese di marzo”, al cui termine ci sarà il voto dei soli lavoratori iscritti alla Cgil” (in Cisl e Uil, ormai, non si fa più nemmeno finta di chiedere il parere degli iscritti). Ma nemmeno la votazione sarà così semplice; i seggi saranno infatti due. Da un lato “coloro che sono ricompresi nelle intese già raggiunte (Confindustria e Confservizi)”, dall’altro “coloro a cui estendere gli accordi”.
Da presa in giro definitiva anche il testo stampato sulla scheda: i lavoratori non saranno chiamati a votare sul merito dell’accordo sulla rappresentanza, ma un “sì” o un “no” al parere espresso dal segretario generale. Insomma: un referendum sulla fiducia al “segretario”, prendere o lasciare, “che mette l’accordo al riparo dalla consultazione. La Cgil non dice a Cisl, Uil e Confindustria che il testo è congelato fino al risultato del voto: l’accordo è già operativo. Si tratta di una doppia finta”. Parole di Landini, non nostre...
Non ci sarà spazio per presentare alcuna posizione alternativa, alcuna “lettura” che possa rivelare gli elementi assolutamente incostituzionali presenti del “testo unico sulla rappresentanza”.
La Fiom aveva chiesto procedure del tutto differenti, a cominciare dalla platea degli iscritti da ammettere al voto. Sostanzialmente proponeva di limitarla alle categoria industriali del settore privato (l'accordo in effetti vincola soltanto le imprese aderenti a Confindustria, oltre che i tre sindacati firmatari), in pratica soltanto un milione di iscritti sui 5,7 “ufficiali” dichiarati dalla Cgil; escludendo di fatto il pubblico impiego (che ha già da anni una regolamentazione della rappresentanza) e i pensionati (ormai fuori dalla contrattazione). I pensionati non voteranno, per decisione della segretaria, Carla Cantone, che si è così guadagnata a sua volta l'ostitlità perenne della Camusso; ma potranno farlo ben 2,7 milioni di “attivi”, anche se di fatto disinteressati alle norme previste in quell'accordo.
L’area che fa capo a Giorgio Cremaschi, rappresentata nel documento congressuale alternativo “Il sindacato è un'altra cosa”, non ha neppure partecipato al voto in sede di Direttivo, ritenendolo “illegittimo” ai sensi dello Statuto Cgil e della Costituzione italiana. L'altro ieri, del resto, avevamo pubblicato il suo intervento in quella sede, in cui accusava l'intero vertice della Cgil di falsificare i voti del congresso, “come fa Putin in Russia”, fino a chiedere le dimissioni della Camusso.
Anche Landini, Rinaldini e gli altri membri del Direttivo sulla stessa linea, sono usciti dalla sala al momento del voto, per non “legittimare” una decisione abnorme che rovescia il ruolo del sindacato nell'Italia del dopoguerra, riportandolo all'irrilevanza del “sindacato di regime” sancito dal “patto di Palazzo Vidoni”, del 1925.
Maurizio Landini e le tute blu diserteranno anche “la consultazione”, a questo punto. Ma soprattutto prepareranno iniziative potenzialmente dirompenti. Si parla di una grande manifestazione nazionale indetta dalla Fiom negli stessi giorni della consultazione. Una contrapposizione “fisica” di detonante significato politico. Di fatto, la “presentazione” pubblica sdi un altro sindacato, anche se (solo) formalmente ancora interno alla Cgil.
Non esistono dubbi sul fatto che il “treno blindato” in cui si è rinchiusa la segreteria confederale andrà avanti costi quel che costi. Probabile dunque che lo stesso Landini venga deferito ai probiviri (o come si chiama adesso la Commissione che deve decidere le punizioni per i “ribelli” alla linea del segretario), aprendo così le porte al “commissariamento” della stessa Fiom.
Ma anche a prescindere dalle vicende interne alla Cgil, l’accordo del 10 gennaio prevede la perdita dei diritti sindacali per chi non lo sottoscrive. Peccato che ci sia fresca fresca una sentenza della Corte Costituzionale – quella relativa proprio al contenzioso tra la Fiat e la Fiom sul “modello Pomigliano” - che vieta l'esclusione di qualsiasi sindacato che si sia rifiutato di sottoscrivere un accordo. Un bel guazzabuglio legale, oltre che politico-sindacale, che potrebbe aprire scenari di conflitto su tutti i piani anche all'interno del maggiore sindacato italiano.
“Faranno la fine dei Cobas”, mormorano i burocrati di Corso Italia quando parlano di Landini e della tute blu. Ed è probabile che, a conclusione del Congresso di Rimini, in maggio, o anche prima - se il “commissariamento” della Fiom avvenisse nelle prossime settimane – diventi un fiume quello che è ancora un torrente: delegati, iscritti e persino qualche dirigente Cgil che confluiscono nell'Usb (sull'esempio di Maurizio Scarpa, fino a un mese fa vice-presidente proprio del Direttivo Nazionale, e Franca Peroni).

Landini: “La Cgil imbroglia i lavoratori”

Antonio Sciotto, Il Manifesto
«I lavo­ra­tori non vanno imbro­gliati ma vanno rispet­tati». Mau­ri­zio Lan­dini è netto nel riba­dire che le moda­lità di voto appro­vate dal Diret­tivo Cgil mer­co­ledì sera sono «anti­de­mo­cra­ti­che» e «inac­cet­ta­bili». «Viene impe­dito di avere i due punti di vista: qua­lun­que cit­ta­dino nor­male, quando va a un refe­ren­dum, ha la pos­si­bi­lità di infor­marsi sul sì e sul no. In tutte le demo­cra­zie avviene così. Men­tre in Cgil, dopo la firma del Testo unico, adesso siamo al Pen­siero unico». Il segre­ta­rio Fiom non vuole anti­ci­pare quanto verrà deciso al Comi­tato cen­trale con­vo­cato per lunedì mat­tina, ma dalle sue dichia­ra­zioni si capi­sce che i metal­mec­ca­nici non sono inten­zio­nati a par­te­ci­pare a una con­sul­ta­zione che riten­gono non demo­cra­tica, e quindi non vincolante.
Eppure accet­tando di indire una con­sul­ta­zione, Susanna Camusso vi è venuta incontro.
Più che una solu­zione poli­tica a me pare un imbro­glio poli­tico: non si chiede di dire sì o no al Testo unico, ma a un giu­di­zio espresso dal Diret­tivo. Ma qui nes­suno ha mai chie­sto un voto sul gruppo diri­gente della Cgil, o di met­tere a veri­fica il segre­ta­rio: noi ave­vamo chie­sto un con­fronto sui con­te­nuti dell’accordo. Invece ora siamo messi davanti a un ple­bi­scito sul gruppo diri­gente della Cgil: e tra l’altro, parec­chio ano­malo. Mi chiedo io: ma se mai vin­cesse il no, visto che siamo sotto con­gresso, deca­drebbe tutto il gruppo diri­gente della Cgil?
Camusso spiega che solo ai Con­gressi si por­tano due tesi con­trap­po­ste, men­tre sugli accordi, per tute­lare l’unità dell’organizzazione di fronte alle con­tro­parti, è giu­sto venga por­tata solo una posi­zione: quella del Direttivo.
Vor­rei ricor­dare innan­zi­tutto che que­sto accordo, prima di essere fir­mato, non è mai stato discusso con nes­suno den­tro la Cgil: per come sono abi­tuato io, in genere si chiede un man­dato. Poi si sigla un’intesa, si porta come ipo­tesi al voto dei lavo­ra­tori, e infine si firma. Io mi vanto di non aver mai fir­mato nulla senza prima averlo sot­to­po­sto al voto degli inte­res­sati: e se mi scon­fes­sa­vano, tor­navo al tavolo per miglio­rarlo. Quanto alle regole della con­sul­ta­zione, la replica non mi pare fon­data: il Diret­tivo, in piena auto­no­mia, poteva deci­dere benis­simo di indire assem­blee con l’illustrazione pari­ta­ria di due tesi, pre­sen­tan­dole se voleva come una di mag­gio­ranza e una di mino­ranza; impo­nendo un voto uguale nei tempi e nei modi in tutte le sedi.
Però ver­ranno fatte delle assem­blee infor­ma­tive, unitarie.
Que­sto è ancora più para­dos­sale: a pre­sen­tare l’accordo ci sarà magari un rap­pre­sen­tante di Cisl o Uil, ma poi potranno votare solo gli iscritti Cgil. E per giunta non sull’intesa, ma sul parere del Diret­tivo. Ma è una presa in giro.
Camusso ha comun­que chia­rito che se vince il no riti­rerà la firma.
Ma se il refe­ren­dum è già fal­sato, se non c’è pari dignità e spa­zio per il sì e il no, che legit­ti­mità ha quel voto? Ai lavo­ra­tori devi sem­pre dire la verità, bella o brutta che sia, por­tar loro rispetto.
Cosa farete a que­sto punto? È natu­rale pen­sare che non par­te­ci­pe­rete alla con­sul­ta­zione, e che anzi la Fiom ne indirà una propria.
Non posso anti­ci­pare nulla, discu­te­remo tutto al comi­tato cen­trale. Riba­di­sco che non c’è una dua­lità Fiom-Cgil, non c’è uno scon­tro per­so­nale tra i segre­tari, e che anzi per­so­na­liz­zare ci dan­neg­gia. Per­ché invece noi chie­de­vamo di votare su con­te­nuti pre­cisi che non con­di­vi­diamo: 1) l’accordo intro­duce san­zioni alle orga­niz­za­zioni e ai dele­gati; 2) intro­duce l’arbitrato inter­con­fe­de­rale; 3) non pre­vede il voto dei lavo­ra­tori sugli accordi azien­dali; 4) riduce l’autonomia delle cate­go­rie, per­ché le Rsu pos­sono fare accordi da sole, dero­gando ai con­tratti; 5) non c’è pieno rispetto della sen­tenza della Con­sulta sul caso Fiat; 6) si can­cella il plu­ra­li­smo sin­da­cale, con il prin­ci­pio che la firma del 50%+1 dei sin­da­cati vin­cola anche il 49,9% in dis­senso, pre­ve­dendo per giunta delle sanzioni.
Su que­sti temi, affer­mate, non c’è mai stato confronto.
Ricordo solo che nel 2009 la Cgil non firmò l’accordo sul modello con­trat­tuale per 5 ragioni: intro­du­ceva arbi­trato, san­zioni, dero­ghe sul con­tratto; per­ché i lavo­ra­tori non vota­vano, e per­ché con l’Ipca si abbas­sa­vano i salari. Tutti punti che mi ritrovo in que­sto accordo che adesso la Cgil ha fir­mato, ma senza che si sia mai discusso un qual­che cam­bio di strategia.
Quanto alle prime mosse del governo Renzi, che idea si è fatta la Fiom sul taglio del cuneo?
Il tema di un alleg­ge­ri­mento fiscale delle buste paga dei lavo­ra­tori c’è tutto, e anzi io aggiungo che si dovrebbe finan­ziare la legge sui con­tratti di soli­da­rietà: si potrebbe arri­vare a decon­tri­buire le imprese del 30–40% per diversi anni, sal­vando i posti di lavoro gra­zie alla ridu­zione degli orari. Un punto però mi sta a cuore più di tutti: qual­siasi sgra­vio, Irap o altro, dai alle imprese, non si deve dare a piog­gia: ma si deve chie­dere quanti posti di lavoro salva e crea.
Avete avuto già qual­che con­tatto con la mini­stra Guidi?
Ancora nes­suno, ma pre­sto chie­de­remo un incon­tro: faremo pre­senti le nostre pro­po­ste, tra le quali c’è anche quella di coor­di­nare da Palazzo Chigi le poli­ti­che dei mini­steri del Lavoro e dello Svi­luppo. Per Renzi la prio­rità è il lavoro? Bene, anche per noi marzo sarà il mese del lavoro: indi­remo una grande Assem­blea con tutti gli eletti nei diret­tivi Fiom, per fis­sare le pros­sime ini­zia­tive e mani­fe­sta­zioni, non esclu­dendo degli scioperi.

Io segretaria di circolo, dopo la nascita del governo Renzi mi dimetto e lascio il Pd di Cecilia Alessandrini

Sperando di avere almeno "venticinque" lettori pubblico la lettera, inviata agli iscritti del circolo PD di cui sono segretaria, di dimissioni da tutti i piccoli incarichi che ho nel partito nella convinzione che abbia una valenza politica più ampia.
Carissime e carissimi, vi scrivo questa e-mail per comunicarvi la mia decisione irrevocabile di dimettermi dal ruolo di segreteria del circolo "Galvani Joyce Salvadori Lussu", da membro della Direzione provinciale del PD di Bologna e da membro dell'esecutivo della conferenza delle donne del PD di Bologna poiché intendo lasciare il partito e non militare più in esso.
Questa decisione sofferta è maturata dopo le ultime vicende che hanno portato, con la complicità del nostro partito, alla nomina da parte del Presidente della Repubblica del terzo ( Monti, Letta, Renzi) Presidente del Consiglio il cui progetto politico non è stato votato alle elezioni. L'unico dunque a non aver avuto neanche l'opportunità di andare alle camere per chiedere la fiducia e provare a fare un governo è stato Pierluigi Bersani il cui progetto politico, denominato "Italia Bene Comune", era stato quello effettivamente da me votato alle elezioni.
Poiché non credo alle coincidenze questa considerazione mi ha portato ad un'articolata riflessione rispetto allo stato di salute della democrazia italiana che trovo decisamente preoccupante. Dal mio punto di vista, sebbene sappia perfettamente che quanto accaduto sia pienamente legittimo e costituzionale, non c'è però motivazione alcuna per arrecare un vulnus alla nostra democrazia come quello di un avvicendamento di un Presidente del Consiglio sulla base dei risultati di un congresso di una partito ( le primarie per intenderci) al quale ha partecipato, circa, solo il 4% degli aventi diritti al voto in Italia.
Tuttavia tutto questo non sarebbe stato sufficiente a farmi demordere se non avessi ricevuto in questi giorni le dimissioni di quattro membri del direttivo del circolo di cui tre membri anche della segreteria. Mario, Elisa, Umberto e Fabrizio che hanno un'età compresa tra 36 e 18 anni. Sono tutte persone che non hanno cariche o ruoli da difendere nel partito e quindi sono sicura che il loro disagio è sincero e la loro credibilità non scalfita da alcun legittimo sospetto che invece, sinceramente, nutro osservando gli entusiasmi di altri. Un partito che spinge, in pochi mesi, persone valide, capaci, con il desiderio di impegnarsi a "fuggire" è un partito con dei problemi molto seri e non certo solo di rinnovamento. Io però mi pongo soprattutto un problema politico.
Tutti coloro che hanno frequentato il circolo in questi anni sanno che ho provato a costruire un progetto alternativo alla logica correntizia dominante da sempre nel PD ( nella segreteria e nel direttivo da me proposto erano rappresentate, ad esempio, tutte le mozioni congressuali) senza mai piegare la testa ai voleri, più o meno espliciti, di nessuno che avesse posizioni ben più potenti della mia nel PD e nelle istituzioni. Non posso negare che portare avanti questo progetto, con le sue peculiari caratteristiche, non è stato facile, è stato faticoso, frustrante e spesso avvilente a livello politico ed esistenziale per una certa opposizione interna al partito ovviamente spaventata da questo nostro essere fuori dagli schemi.
Voglio però ribadire che l'esperienza del circolo "Galvani Joyce Salvadori Lussu" è stata per me davvero molto positiva, forse la prospettiva più positiva che ho visto e praticato dentro al PD. Il circolo, così come dovrebbe essere, è stato in questi due anni / tre anni un luogo di confronto e di dibattito franco, sincero e pieno davvero di stimoli. Non ringrazierò mai abbastanza tutti quelli di voi che l'hanno animato e che hanno permesso che crescesse e voglio ribadire che è stato uno splendido lavoro di squadra di cui io ho solo fatto parte. Per queste ragioni ho sempre detto che ero disposta ad andare avanti, pur tra mille difficoltà, per portare avanti questo nostro piccolo esperimento e laboratorio ma con le dimissioni di ben quattro persone mi sento di poter dire che non ci siano più i presupposti perché io continui in questa lotta spesso sfiancante.
D'altra parte la mia stessa analisi rispetto alla situazione del PD è talmente impietosa che non lascia dubbi a ciò che devo fare. Il PD è un partito che di progressista non ha più nulla e non certo perché Renzi ne è il segretario. Il PD è un partito che non è più progressista da tempo. I suoi dirigenti, sui diversi livelli, ed anche parte della sua base mostrano una totale subalternità di idee e di azione al pensiero dominante. Nessuna idea di rottura, nessun coraggio, nessuna capacità di prospettiva, nessuna volontà di buttare il cuore oltre l'ostacolo solo un dimenarsi infinito tra le idee preconfezionate e imposte attraverso i grandi media dall'establishment italiano sia esso universitario, imprenditoriale, politico. Mi spiace ma a me questa logica di continua subalternità non sta bene.
Io ho scelto di essere di sinistra non tanto per "cambiare" il mondo ma per costruirne uno nuovo con nuove logiche e nuovi rapporti di forza. Per questo me ne vado oggi, perché nel PD immaginare di costruire un mondo nuovo non è neanche possibile, solo a professare questa volontà si è malvisti, ci si sente diversi, le "pecore nere", sembra che alla maggioranza del partito il mondo vada benissimo così com'è, al massimo con qualche "aggiustamento strutturale" da fare, magari in peggio, ma nulla di più.
Questa logica è ancora più difficile da sopportare in un clima che vede "costretta", sotto minaccia di espulsione, la sua parte più critica, e dunque vitale, a votare a favore di un governo contro la formazione del quale ha votato in Direzione nazionale. Siamo oggettivamente al paradosso. Se alla subalternità e all'assoggettamento al sistema si aggiunge anche l' impossibilità di dissentire, che precedentemente non è mai mancata e che è stata ampiamente usata e "abusata" da tutti, a mio avviso vuol dire che non c'è davvero più spazio per un agire politico autonomo.
Credo che il PD continuando a scegliere, ormai da anni, il male minore si dimentichi di scegliere comunque un male e stia facendo oggettivamente un danno all'Italia privandola in un momento storico, in cui crescono le disuguaglianze sociali, di un partito strutturato che difenda davvero gli interessi dei deboli, degli sfruttati. Poiché sono sicura che la storia non ci assolverà preferisco andarmene prima di iniziare a sentirmi troppo complice.
Voglio ringraziare davvero sinceramente coloro tra voi che in questi anni mi hanno sostenuta, supportata, aiutata, ascoltata , abbracciata e consolata nei momenti difficili, chi mi ha fatto arrivare le sue critiche costruttive facendomi in questo modo crescere, sono sicura che ci ritroveremo in qualche altro luogo anche più ameno di questo, a tanti altri che invece apprenderanno con sollievo di questa mia decisione dico solo che il fatto di saperli sollevati sarà sempre e per sempre il mio vanto. Mi dispiace se qualcuno si sentirà tradito o abbandonato da questa mia scelta (e so che succederà) ma vi prego di considerarla come un atto di coerenza assolutamente necessario.
Vi saluto con affetto.
Cecilia

giovedì 27 febbraio 2014

GRAZIE di Emiliano Brancaccio

In queste ore ho ricevuto moltissime esortazioni ad accettare la proposta di candidatura alle elezioni europee con la lista Tsipras, per la circoscrizione Sud. In tutta franchezza non mi aspettavo una tale mobilitazione intorno al mio nome. Sono sinceramente onorato per gli appelli e le raccolte di firme a sostegno della mia candidatura e per i tanti messaggi di apprezzamento che ho ricevuto. Con rammarico, tuttavia, devo comunicare che non posso accettare la proposta di candidatura alle europee: il personale contributo alla critica dell’ideologia dominante non termina ed anzi trova adesso nuove ragioni, ma in questo momento della mia vita il mio posto deve essere all’università, con gli studenti.
Le persone a cui vorrei dire grazie sono numerosissime. Ne cito solo alcune e chiedo scusa ai tanti che per mere ragioni di spazio non menzionerò. Vorrei ringraziare Barbara Spinelli, che ha speso parole di elogio nei confronti del “monito degli economisti” e Paolo Flores d’Arcais, che mi aveva annunciato l’intenzione dei comitati a sostegno della lista Tsipras di indicarmi per la candidatura. Ringrazio anche Vladimiro Giacché, con il quale condivido molte tesi e previsioni. E ringrazio Gianni Rinaldini, che mi aveva onorato comunicandomi l’appoggio di tante compagne e compagni della FIOM. Tengo inoltre a ringraziare Paolo Ferrero, Fausto Sorini, Claudio Grassi e gli altri dirigenti dei partiti che hanno sostenuto con convinzione la mia candidatura. Ringrazio i compagni e gli amici delle varie realtà di movimento, con i quali avevo collaborato ai tempi del social forum di Firenze e che in questi giorni hanno rinnovato parole di fiducia nei miei confronti. A tutti dico che non farò mancare il mio contributo di analisi e di proposta alle future iniziative che abbiano come fulcro l’interesse delle lavoratrici e dei lavoratori. Interesse che un tempo, a giusta ragione, si riteneva coincidente con l’interesse generale dell’intera collettività.
Permettetemi anche di esprimere due brevissime considerazioni di ordine politico.
In primo luogo, auspico che ci si liberi presto dall’illusione che la tremenda crisi economica e democratica che stiamo attraversando possa essere affrontata assecondando i fatui fuochi dell’individualismo narcisistico, il cui nefasto corrispettivo politico è sempre costituito dal leaderismo plebiscitario. Per affrontare le colossali sfide del tempo presente la funzione dei singoli, per quanto illuminati, è pressoché irrilevante. Piuttosto, sarebbe utile dare inizio a un investimento generazionale, un lavoro critico e costruttivo per delineare una nuova concezione del collettivo, in particolare della forma-partito.
La seconda considerazione che vorrei condividere con voi è maggiormente legata alla campagna per le elezioni europee. L’attuale scenario politico può esser ben descritto tratteggiando un orrido trittico: al centro l’arrocco intorno alle leve del potere dei pasdaran favorevoli all’euro e all’austerity; al fianco di quell’arrocco la comparsa di un nuovo liberismo gattopardesco, pronto a sbarazzarsi dell’euro pur di proseguire con le politiche di smantellamento dei diritti sociali; ed infine, all’orizzonte, l’avanzata in certi casi poderosa di nuove forze ultranazionaliste e xenofobe. Ebbene, è stato detto che all’interno di questo cupo scacchiere politico esisterebbe per la sinistra uno spazio ancora inesplorato. In effetti, nel mio pur modesto ambito, ho avuto modo di verificare che uno spazio in cui esercitare un efficace antagonismo contro i tre gruppi descritti sussiste davvero: lo testimonia il fatto che la protervia dei pasdaran pro-euro e dei gattopardi anti-euro si scioglie sistematicamente, come neve al sole, in ogni confronto dialettico che sia fondato su basi scientifiche; e che nelle società europee è ancora possibile trovare anticorpi sociali e culturali contro la funesta avanzata dell’ultranazionalismo reazionario.
Tuttavia, se questa è la durissima sfida nella quale ci si vuol cimentare, allora mi permetto di avanzare una duplice riflessione. L’idea che una forza orientata a sinistra possa vincere una battaglia di tali proporzioni scimmiottando le ipocrite banalizzazioni interclassiste dei gattopardi anti-euro è ovviamente assurda. Ma la stessa battaglia rischia di esser perduta in partenza se si rimarrà subalterni al dominio ideologico degli apologeti dell’euro e si commetterà quindi l’errore di considerare l’eurozona un dato fuori discussione. Un errore strategico, che pregiudicherebbe ogni margine di manovra politica in Europa, e che diventerebbe quindi previsionale.
Da questo punto di vista, è inutile negarlo, Alexis Tspiras è in una posizione delicata. Per molte ragioni, non ultima la sua possibile ascesa al governo della Grecia, egli potrebbe continuare a tenere la sua dialettica confinata nei limiti angusti di una incondizionata fedeltà all’euro. Se così fosse, il perimetro della sua azione potrebbe restringersi al punto da soffocare l’indubbia forza attrattiva della sua candidatura alla presidenza della Commissione europea. Eppure, nel testo di investitura, egli ha scritto che “l’Unione Europea sarà democratica o cesserà di esistere. E per noi, la Democrazia non è negoziabile”. La Democrazia, per l’appunto: non la moneta unica, né il mercato unico europeo. Sarebbe un dato interessante se Tsipras centrasse la campagna su queste sue stesse parole. La lista italiana e le altre forze europee che lo sostengono ne trarrebbero notevole vantaggio. Staremo a vedere.

Aldo Nove: “Renzi? Una catastrofe per la sinistra. La speranza è Tsipras”



colloquio con Aldo Nove di Giacomo Russo Spena
 
 Lo scrittore si confessa a MicroMega parlando del suo rapporto con la politica: “Percepisco solo sconcerto generale”. E, orgogliosamente di sinistra, attacca le larghe intese volute da Napolitano e dal segretario del Pd. Neanche il M5S rappresenta per lui un reale cambiamento e alle Europee è intenzionato a votare la lista Tsipras.


Renzi? “Un incubo, quale cambiamento”. Napolitano? “Ha attuato il killeraggio della sinistra”. L’alternativa è il M5S? “Mosso da buoni propositi, nel tempo il progetto è sfumato, e mi fa orrore la gestione padronale di Casaleggio”. Netto e deciso. Alla faccia dei tempi postideologici, Antonio Centanin – in arte Aldo Nove – si dichiara convintamente di sinistra: “Neanche mi immagino dall’altra parte. Non mi riguarda, non è me”.

Umanista, intellettuale e scrittore di successo. Qual è il suo rapporto con la politica?

Come tutte le persone vive non posso essere indifferente a ciò che accade intorno. Sono un osservatore e percepisco chiaramente solo uno sconcerto generale, un livello mai visto prima di percezione di incomprensibilità.

È appena nato il governo di Matteo Renzi. La stampa italiana lo sta incensando e incoronando come portatore di “aria fresca”. Lei crede che possa veramente migliorare le sorti del Paese?

Su di lui ho un giudizio catastrofico. Innanzitutto si è insediato mostruosamente, con un’operazione bizantina, shakespeariana: quell’hashtag su twitter #enricostaisereno passerà alla storia. Per il resto non mi sembra rappresenti nulla di nuovo. Anzi: finora ha già rilegittimato Berlusconi – un condannato escluso dal Senato, che dovrebbe essere estromesso dalle attività istituzionali – trovando con lui una messa in scena di accordo su riforme e legge elettorale. È l’annullamento dei poli contrapposti, negli anni ’70 si chiamava compromesso storico ora larghe intese, la gente non distingue più le differenze tra i vari schieramenti. Siamo alla negazione della politica in quanto tale. Mi piace ricordare l’efficacia di Norberto Bobbio quando, nell’impostazione del gioco democratico, tracciava le distinzioni tra destra e sinistra: la prima incarna la competitività, la seconda la solidarietà. Così il gioco funziona.

Si reputa un uomo di sinistra?

Non posso che essere tale. Mai mi vedrei dall’altra parte.

In realtà alle scorse elezioni si è evidenziato in Italia lo sviluppo di un terzo polo e la conseguente crisi del bipolarismo. Il M5S può essere un valido antidoto contro le larghe intese?

Il M5S è una cosa complessa, all’interno ha molte anime in contrasto tra loro. All’inizio ha rappresentato una reattività di pancia e un sintomo di un malessere generale. Pure, partendo da critiche legittime è finito ad uno scontro demagogico e astratto tra “noi” (i buoni) contro “loro” (la Casta) che non ha prodotto né risultati né reale cambiamento. Poi c’è l’aspetto padronale di Casaleggio che controlla dall’alto la propria creatura finendo per indottrinare ed irreggimentare gli adepti.

E in vista delle prossime elezioni europee, ha già deciso chi voterà?

Sono interessato agli sviluppi della lista Tsipras, anche se non mi piace il nome scelto: si chiama infatti “L’altra Europa” sottintendendo ce ne sia già una. In realtà quella esistente non è Europa ma un manipolo di poteri bancari e finanziari che governano sopra la testa dei cittadini: una nube oscura che ci sovrasta e che non è amata da nessuno. L’Europa va ancora iniziata.

Da noi c’è voluto il “Papa straniero” per imporre i concetti di un’Europa dei popoli, federalista, più equa e che rispolveri i valori del Manifesto di Ventotene… non lo trova surreale?

Siamo un Paese culturalmente stanco e vecchio. In fase di decadimento. Mentre l’agonizzante Grecia, martoriata dalle politiche di austerity e utilizzata come cavia dalla Troika, ha avuto la forza di generare nuove energie e di organizzarsi. Inoltre bisogna iniziare a ragionare in chiave europea e non nazionalista: Tsipras è europeo come noi, non è “straniero”. Italiano vuol dire anche greco, e greco vuol dire europeo.

La riuscita di tale lista potrebbe far nascere un polo di alternativa nel Paese a sinistra e autonomo dal Pd?

La speranza è questa. Ci troviamo in un mondo mutato e si tratta di preservare i valori della sinistra e di svincolarli dalle due recenti, e non felici, sortite elettorali della cosiddetta sinistra radicale. Ricominciare daccapo. In una forma nuova, partecipativa, in cui si dà potere decisionale alle persone. Ragioniamo su cosa ha rappresentato, soprattutto a livello sociale, il governo Monti e come esso ha rafforzato la condizione di predominanza della finanza sulla politica. Un incubo. I cittadini devono riprendere il potere in modo attivo. Oltre ai moti di pancia – penso ai Forconi – sono necessari il cuore e la testa. La pancia da sola di fatto è strumentale al sistema.

Per lei il Pd è ancora una forza che incarna i valori della sinistra?

Con Renzi ha definitivamente rinunciato a qualsiasi identità di sinistra.

Qual è il suo giudizio sul Presidente Giorgio Napolitano? Che ruolo ha svolto?

È figlio di un processo storico che lui ha vissuto dagli anni ’70 ad oggi e che ha portato all’autoeliminazione della sinistra.
Quindi ha avuto responsabilità sulle larghe intese e sull’inciucio Pd-Forza Italia…
Ha riproposto il compromesso storico in un’altra chiave e all’interno di un differente contesto. E ha utilizzato tutto il suo potere, non so nemmeno se in maniera legittima o meno. Sarà la storia a giudicarlo. Ha commesso comunque un killeraggio della sinistra, mi sembra chiaro: è stato fautore di una negazione di una sana lotta politica tra schieramenti contrapposti.

Cambiamo discorso. Qual è l’opera scritta che più la rappresenta?

Il prossimo libro che uscirà per Bompiani: “Tutta la luce del mondo”. È un testo molto positivo per me e spero per chi lo leggerà. Bisogna essere positivi. Anche per costruire l’Europa e una nuova società.

Abbiamo messo alle spalle quindi l’altro suo libro “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese” e i drammi sociali causati dalla crisi?

Lì esprimevo una realtà emergente che si voleva negare. Nel 2003 si faticava a parlare di precarietà, la si negava, purtroppo l’italiano si scuote soltanto in stato di apnea. Ora, subito, è il momento di agire: il cambiamento non è Renzi, muoviamoci alla svelta in altra direzione.

Sel - Venti di scissione? di Ciuenlai



La parola opposizione, oggi in Italia, si coniuga con il vocabolo tempesta. Non sono solo i 5 stelle a dover fare i conti con rotture e spaccatura interne. La situazione di Sel infatti è esplosiva, quanto quella dei grillini. Il recente congresso, conclusosi con una improvvisa giravolta di 360 gradi che ha stravolto il documento iniziale, soprattutto sulle vicende europee, ha spaccato,  quasi a metà, il gruppo parlamentare. Ma, proprio per non farsi mancare niente, questa  seconda parte si è, a sua volta, divisa tra quelli di Gennaro Migliore che hanno già optato per continuare la loro “battaglia” all’interno del partito ( ma i maligni sussurrano che è solo una finta perché  Migliore e Fratoianni farebbero solo il gioco delle parti per tenere tutti insieme sotto l’ombrello, “pieno di buchi”, di Vendola) e quelli di Claudio Fava che , invece, sembrano fermamente intenzionati a navigare verso altri lidi della sinistra.
L’unica cosa in discussone sarebbero i tempi. Prima o dopo le elezioni di maggio. E naturalmente, avendo tutte queste piccole correnti degli agganci a livello regionale, questo potrebbe determinare qualche sconquasso anche in Umbria. Per non smentire Roma, nei congressi locali, anche la Perugia di Sel si è spaccata in due parti praticamente uguali per consistenza e numeri, creando non poche difficoltà all’impostazione di un’attività politica condivisa.  E gli effetti si sono visti subito. Il Coordinatore Regionale non è stato ancora eletto per effetto di un ricorso, con il quale è stata chiesta, addirittura, l’invalidazione del Congresso regionale stesso. Ricorso al quale la direzione nazionale non avrebbe ancora dato una risposta. Il segretario Provinciale di Perugia sarebbe stato eletto con appena 21 voti su 40. Ma c’è di più, una parte considerevole di questa seconda metà sarebbe propensa a seguire Fava in caso di scissione. Ma rispetto alla situazione romana ci sarebbe una diversità non da poco.
Quelli a cui Fava non piace, non farebbero opposizione interna, ma entrerebbero nella grande area degli stand by della sinistra, determinando, di fatto, un doppio abbandono. “Ci troviamo di fronte – afferma uno dei possibili scissionisti – a due linee politiche per certi versi inconciliabili. Noi restiamo fedeli al progetto iniziale di Sel, quello di un nuovo e largo soggetto politico della sinistra, che superi tutte le altre forme del passato e che liquidi, una volta per tutte, la cultura del minoritarismo. Cercare espedienti per sopravvivereavendo come unico obiettivo quello di trovare un posto a qualcuno in Parlamento o nelle amministrazioni locali, non ci interessa”. Queste voci attendono , naturalmente, la prova dei fatti. Quello che è certo e che per Giuliano Granocchia, neosegretario provinciale di Sel, trovare la quadra non sarà semplice. 

Il partito padronale


18d41385897d068bc5cea7bada40266e-kwfC-U10202802234337jS-568x320@LaStampa.itCom’era prevedibile anche il Movimento 5 Stelle sta facendo i conti in questi giorni con la peggiore malattia della democrazia italiana, il partito padronale. I quattro parlamentari espulsi dai M5S non hanno violato alcuna regola del movimento, non hanno votato contro una proposta grillina, non hanno trafficato per ottenere una poltrona dal nuovo governo, non hanno rubato né si sono macchiati di comportamenti immorali. Semplicemente, i quattro hanno osato criticare la performance di Beppe Grillo da Matteo Renzi. Una critica non solo legittima, ma doverosa. L’atteggiamento di Grillo nei pochi minuti di consultazione con il premier incaricato era di un’arroganza insopportabile. Non solo e non tanto al cospetto di Renzi, del quale potremmo serenamente infischiarcene, ma nei confronti dei militanti 5 Stelle, i quali avevano chiesto con un referendum online che il leader accettasse di partecipare alle consultazioni.
Ora, Grillo avrebbe potuto benissimo decidere da solo di non andarci. Ma siccome è schiavo di tutta una retorica per cui lui sarebbe un semplice portavoce in un movimento dove «uno conta uno», ha finto di affidare la decisione a una consultazione. Una volta ottenuto un risultato a lui non gradito, il sì all’incontro con Renzi, il capo ha deciso comunque di fregarsene in maniera plateale, come tutti hanno potuto vedere. Qualunque parlamentare grillino dotato di un minimo di dignità avrebbe dovuto protestare contro un simile disprezzo della democrazia interna. L’hanno avuta soltanto quattro. Per questo coraggio oggi il padrone li fa mettere alla porta dai servi.
È una storia vissuta cento volte in questi venti anni, da quando la discesa in campo di Berlusconi ha inaugurato la stagione dei partiti padronali. E stavolta non dobbiamo prendercela con la casta, stavolta la colpa è tutta nostra, di noi italiani, sempre contenti di votare a destra, a sinistra, oppure «né a destra né a sinistra», partiti che hanno per unica ideologia un nome e un cognome. Sono passati vent’anni di disastri e ancora la schiacciante maggioranza degli italiani crede alla colossale panzana che un uomo solo al comando possa garantire più efficacia, decisionismo e magari trasparenza.
In questi vent’anni i nuovi partiti padronali si sono rivelati assai meno decisionisti dei vecchi e finanche più corrotti. Hanno garantito una penosa selezione del personale politico, miracolando corti familiari o personali d’infimo livello. In qualsiasi Paese un simile, clamoroso fallimento avrebbe provocato una totale inversione di rotta. Invece da noi, la giusta ribellione che cosa ha prodotto? Un partito ancora più padronale degli altri, dove il proprietario ha addirittura depositato il marchio alla camera di commercio e il partito gli serve anche (o soprattutto?) per vendere la pubblicità sul blog, sempre di sua proprietà. Non è comico, è grottesco.
Non sorprende dunque che alcune ottime persone, appassionate e in buona fede, finite quasi per caso nel mazzo dei maggiordomi di turno, si ribellino contro il padre e padrone del movimento. Stupisce semmai che siano così poche. I dissidenti sono quattro, i solidali un’altra decina, quelli disposti a lasciare il movimento se verranno espulsi i primi, un’altra dozzina. Ma dev’essere frustrante anche per buona parte degli altri 120 parlamentari grillini rendersi conto, giorno dopo giorno, d’essere ostaggi della semplice mania di grandezza di un leader. Grillo non vuole cambiare nulla in questo Paese, come tutti i padroni di partito che l’hanno preceduto, da Bossi e Berlusconi a Bertinotti e Di Pietro. L’unico scopo di tutti lor signori è sfruttare le disgrazie per ottenerne vantaggi.
Se Grillo avesse voluto cambiare l’Italia, avrebbe partecipato all’elezione di un presidente della Repubblica contrario alle larghe intese. Se poi avesse voluto abbattere davvero le larghe intese, l’avrebbe già ottenuto cercando in Parlamento alleanze su singole leggi e su sacrosante battaglie, come quella contro l’acquisto degli F35 o i diritti civili, che avrebbero inevitabilmente portato a separare la sinistra dalla destra. Se volesse cambiare l’Italia, Grillo oggi parteciperebbe al processo di riforma istituzionale, dalla legge elettorale all’abolizione del Senato, mettendo in seria crisi il patto di ferro fra Renzi e Berlusconi.
Ma Grillo e Casaleggio sanno benissimo che qualsiasi scelta in positivo comporterebbe una perdita di consenso, a destra o a sinistra, come dimostra la vicenda dello ius soli, mentre una protesta generica contro la casta si continuerebbe a vendere benissimo sul mercato alla più vasta clientela possibile. Si tratta di un calcolo molto cinico e quindi, per come funziona l’Italia, esatto. Senza aver portato un solo risultato a casa in un anno intero e con un esercito di 156 parlamentari a disposizione, il M5S otterrà di sicuro un grande risultato alle elezioni europee di maggio. Il che è del tutto inutile al Paese, ma assai vantaggioso per la Grillo&Casaleggio spa.
Questo non toglie che le brave persone, gli onesti parlamentari grillini, si ribellino a un simile scempio della volontà popolare. I giornalisti al seguito, una categoria fiorita negli ultimi tempi intorno a Grillo come a chiunque altro abbia acquistato potere politico, sostengono che Orellana e compagnia siano in procinto di ottenere poltrone dal nuovo governo. Penso si tratti di un’infamia lanciata contro chi dimostra un minimo di spirito critico. È probabile che Orellana e compagni non entreranno nel governo Renzi e neppure nella maggioranza, anzi si dimetteranno come hanno fatto altri bravi e onesti militanti pentastellati prima di loro, offesi e delusi, lasciando il campo agli opportunisti. Se sarà così, onore a loro.
CURZIO MALTESE
da la Repubblica

Nasce “La sinistra per Marsciano”, rompiamo gli indugi, mandiamo a casa questa amministrazione.

La Sinistra Marsciano (1)Dopo una fase di consultazioni e contatti tra le diverse realtà della sinistra Marscianese, è nata “La sinistra per Marsciano”, una lista da costruire con i cittadini per una sinistra del lavoro e dei diritti, che saprà proporre una nuova prospettiva oltre ad una radicale critica dell’Amministrazione uscente. Quella che stiamo costruendo in questi giorni è la coalizione dell’alternativa, il posto per tutti coloro che non si rassegnano a scegliere tra una politica intesa come spartizione di postazioni e interessi particolari e un’antipolitica avventurista, rabbiosa e velleitaria. La sinistra per Marsciano è uno spazio civico aperto a chiunque abbia un’idea innovativa da condividere nell’orizzonte progressista; un’esperienza che farà tesoro dei temi che si respirano tra la nostra gente: la sfiducia delle persone nella politica, il populismo insinuatosi negli angoli più remoti del nostro pensiero.
Per questo vogliamo rompere gli indugi, costruire una coalizione di liste credibili, che metta al centro le problematiche specifiche delle persone, non le polemiche politicistiche ed elettorali. Marsciano ha bisogno di unire la dirittura morale e la trasparenza amministrativa con delle competenze e delle capacità pronte a raccogliere la sfida di governo, un governo finalmente diverso. Proporremo una serie di iniziative pubbliche per scrivere il nostro programma, il programma dell’alternativa. Lo discuteremo con i cittadini, i commercianti, i tecnici, e gli addetti ai lavori; non la solita serie di spot elettorali ma proposte amministrative valide, utili e applicabili sul tema del lavoro, dell’urbanistica, degli spazi verdi, dell’ambiente, sul ciclo dei rifiuti, sulla gestione del personale, sulle infrastrutture tecnologiche e la lotta alla criminalità.
Vogliamo condividere questo percorso con i consiglieri che hanno rappresentato l’opposizione di sinistra in Consiglio comunale in questi 5 anni, con la volontà di coinvolgere le tante e diverse realtà sociali di Marsciano. Ci appelliamo a tutti i cittadini che condividono con noi la voglia di una reale svolta per Marsciano, che pensano ci sia un’alternativa di concepire il concetto di bene comune, che credono nel valore aggiunto di una coalizione plurale in cui convivono prassi ed ideali differenti che lavorino assieme per dare a Marsciano una ventata di novità e cambiamento. Il nostro indirizzo e-mail è sinistrapermarsciano@gmail.com: mettetevi in gioco con noi, in prima persona, dateci i vostri spunti programmatici, le vostre idee per uscire da questa crisi che attanaglia Marsciano. Saranno la linfa vitale del nostro programma.
Bruno capoccia, Michelle Polverino, Fabrizio Baiocco, Santi Federico, Giulia Pacchiarotti Giacomo Miseria, Salah Ezzahar, Gianni Babucci, Giorgiana Saccarelli, Daniele Ferranti, Lorenzo Giannoni

Il metodo Delrio come dottrina di governo di Il Simplicissimus

images (9)In 48 ore dalla definitiva acclamazione Renzi, ha già speso tra i 120 e i 140 miliardi per farci star meglio: restituzione integrale dei debiti della pubblica amministrazione tramite la Cassa depositi e prestiti, abbattimento del cuneo fiscale non si sa bene con quale metodo, sussidio di disoccupazione a tutti, megapiano di risanamento degli edifici scolastici e magari anche qualche altra cosa che mi è sfuggita. Insomma un vero cambiamento di verso.
Peccato che tutte queste cose assieme siano semplicemente impossibili anche se in qualche modo verranno tenute in ballo fino alle europee: basta utilizzare il metodo Delrio che non a caso è sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ovvero quello di lanciare un sasso a casaccio per far vedere che si fa qualcosa e poi ritirare il braccio. Il tutto nella scivolosa liscivia culturale e antropologica della sacrestia. Non mi riferisco all’improvvida uscita sulla tassazione dei bot, petardo stonato nell’insieme dello spettacolo pirotecnico, ma all’ ingannevole creazione dell’ Anci Riscossioni, attuata quando il Graziano era presidente dell’Associazione comuni italiani.
Correva l’estate del 2012, Monti cominciava a traballare e la polemica contro Equitalia era al suo diapason, così Delrio assieme al segretario Anci, Rughetti, oggi altro renziano di provata fede, ha una bella pensata: quella di costituire una società di riscossione più morbida rispetto a quella di Befera, alla quale i comuni possano rivolgersi per gestire i loro crediti. Lo scopo è quello di raccogliere consenso con minima spesa: 10 mila euro di capitale ed ecco pronta l’Anci Riscossioni srl, bella lucente e pronta a rombare in caso sempre più probabile di elezioni anticipate. Il 10 agosto, due settimane dopo la costituzione Delrio spiega che l’intento è di lanciare ”un nuovo modo di riscossione, più attento alle persone, alle fasce deboli, con trasparenza ed efficienza. Come Anci vorremmo poter offrire ai nostri sindaci una società meno preoccupata di fare utili e dare più servizi ai cittadini. Non vogliamo allestire l’ennesimo carrozzone pubblico, ma un nuovo operatore che possa presentarsi al mercato, magari con obiettivi e criteri diversi da quelli di Equitalia. Un po’ come Ryanair, che nel settore del trasporto aereo è riuscita a offrire un prodotto di qualità e di basso prezzo”.
Con calma pero: passano mesi prima che si faccia un bando per trovare un gestore e l’offerta vincente sembra essere quella della Romeo Gestioni, senonché il titolare Alfredo Romeo viene coinvolto in fosche vicende giudiziarie anche in relazione a questa gara e alla fine verrà condannato a 3 anni per corruzione. Nel frattempo Delrio, divenuto ministro con Letta, lascia la poltrona dell’Anci a Fassino e la società per le riscossioni, rimasta peraltro sempre “inattiva”, viene messa in liquidazione. E’ singolare la motivazione che ne dà l’attuale vice segretario dell’Anci, nonché ex amministratore unico della srl: intervistato da “La notizia” dice che il fallimento dell’impresa è dovuta a “norme di apertura del settore della riscossione locale che alla fine non sono mai entrate in vigore”. Peccato che fosse proprio Delrio, in quanto ministro per le Regioni e le autonomie locali a doversi occupare direttamente di queste normative.
Come si vede c’è già tutto il timbro di una governance a suon di annunci e di ritirate nel completo silenzio dei media. Il meraviglioso mondo della buona volontà a costo zero e della cattiva coscienza a un prezzo spropositato per il Paese.

M5S allo sbando, Grillo perde pezzi

Carlo Lania
«Via». «Fuori». «A casa!». Que­sta volta la rete non ha smen­tito Beppe Grillo. Ha obbe­dito al richiamo del capo di cac­ciare i sena­tori dis­si­denti ade­rendo in pieno all’appello del «meglio pochi ma più coesi e più forti» spa­rato dal blog ieri mat­tina insieme al solito son­dag­gio per sapere dagli atti­vi­sti cosa fare con i ribelli. Demo­cra­zia fatta in casa. Il risul­tato, anche se non scon­tato, era comun­que pre­ve­di­bile. Lorenzo Bat­ti­sta, Fabri­zio Boc­chino, Fran­ce­sco Cam­pa­nella e Luis Alberto Orel­lana sono fuori dal Movi­mento 5 Stelle. A votare per la loro cac­ciata sono stati in 43.368, dei quali 29.883 favo­re­voli all’espulsione e 13.485 con­trari. «Gra­zie a tutti» saluta il lea­der chiu­dendo i bat­tenti del tri­bu­nale vir­tuale. I fede­lis­simi, i tale­bani di Grillo festeg­giano, ma molti sena­tori a cin­que stelle, e non solo i quat­tro epu­rati, hanno le lacrime agli occhi e minac­ciano le dimis­sioni in massa. Fino a ieri sera almeno sei, oltre ai quat­tro ribelli, ave­vano già pre­pa­rato al let­tera da con­se­gnare al pre­si­dente del Senato. Ma secondo il sena­tore Roberto Cotti sareb­bero almeno una tren­tina quelli pronti a lasciare. Alla Camera, invece, ha già lasciato il gruppo il depu­tato Ales­sio Tac­coni e altri cin­que sareb­bero in pro­cinto di farlo.
Quella che si apre adesso è una par­tita tutta da gio­care. Boc­chino, Orel­lana e Bat­ti­sta hanno annun­ciato di volersi dimet­tere da sena­tori in soli­da­rietà con i col­le­ghi che li hanno difesi e che si pre­pa­re­reb­bero a lasciare il movi­mento. La pro­ce­dura vuole che le dimis­sioni ven­gano votate dall’aula che, per con­sue­tu­dine, la prima volta le respinge. Ma sul tavolo c’è anche un’altra pos­si­bi­lità. Ci sareb­bero infatti i numeri per la costi­tu­zione di un nuovo gruppo. Per farlo a Palazzo Madama bastano dieci sena­tori e se i sei-sette, oltre ai quat­tro espulsi, che ieri hanno annun­ciato di voler lasciare il M5S, non faranno mar­cia indie­tro (i ten­ta­tivi in que­sta dire­zione sono già comin­ciati) la pos­si­bi­lità potrebbe diven­tare reale. E non è detto che inte­ressi solo il M5S. «La fuo­riu­scita dei sena­tori 5 stelle è un’operazione a cui guar­diamo con inte­resse», dice ad esem­pio il civa­tiano Cor­ra­dino Mineo, che con il col­lega Wal­ter Tocci segue da tempo i tor­menti interni ai 5 stelle. «Sono per­sone serie — pro­se­gue l’ex diret­tore di Rai­news par­lando dei dis­si­denti — per­sone che cre­dono nei valori del M5S e che ritengo deb­bano essere aiu­tati. E’ una grossa prova di demo­cra­zia. Io ho votato la fidu­cia per dovere, ma aspetto il governo alla prova dei fatti. Intanto guardo con inte­resse alla pos­si­bi­lità che al Senato ci sia una gruppo che valuta di volta in volta i prov­ve­di­menti del governo».
Altro che stracci. Fos­sero volati solo quelli ieri per Grillo e Casa­leg­gio sarebbe andata anche bene. Invece la pic­cola Pom­pei del M5S si con­suma in un clima di veleni: per­sone che fino a a 48 ore prima sede­vano fianco a fianco si scam­biano offese pesan­tis­sime. Ad accen­dere la mic­cia ci pensa come al solito il buon Beppe. Durante la notte depu­tati e sena­tori riu­niti insieme votano per l’espulsione dei quat­tro dis­si­denti in un clima pesan­tis­simo. Al mat­tino Grillo invi­tava la rete a fare lo stesso avviando il son­dag­gio tra gli atti­vi­sti. E, tra frasi al limite del deli­rio, evo­cando sce­nari ucraini, si dice pronto a «dare il san­gue sulle strade» in vista delle ele­zioni euro­pee, lascia sci­vo­lare il sospetto che die­tro le cri­ti­che a lui e Casa­leg­gio ci sia ben altro. «Si ter­ranno tutto lo sti­pen­dio, 20 mila euro al mese fanno comodo, capi­sco anche quello», dice il lea­der. La solita accusa rove­sciata su chiun­que si per­metta di cri­ti­carlo. «Grillo mente, è un bugiardo», replica il sena­tore Orel­lana. «I sena­tori non pren­dono 20 mila euro ma 14 mila, che sono sem­pre tanti soldi ma noi abbiamo sem­pre resti­tuito». E anche il depu­tato Wal­ter Riz­zetto attacca il lea­der: «Met­terla solo sui soldi è una vera caz­zata. Guarda i ren­di­conti dei quat­tro e di altri».
Al Senato intanto si svolge un’altra riu­nione dai toni dram­ma­tici. La sena­trice Sere­nella Fuck­sia chiede al capo­gruppo Mau­ri­zio San­tan­gelo di inva­li­dare il voto con­giunto della notte. «Prima dove­vano riu­nirci noi sena­tori», afferma. Per rego­la­mento, inol­tre, l’espulsione va votata dalla metà dei par­la­men­tari, e così non sarebbe stato. Alla richie­sta della Fuck­sia si asso­cia anche Lorenzo Bat­ti­sta, uno dei dis­si­denti: «Chiama Grillo e digli che l’assemblea di ieri non era valida», chiede al capo­gruppo, che per tutta rispo­sta lo manda via dall’assemblea. Bat­ti­sta esce, ma con lui esce anche un’altra decina di sena­tori: Ben­cini, Romani, Pepe, Fedeli, Vac­ciano, Bignami, Cam­pa­nella, Boc­chino, Orel­lana, Ian­nuzzi. «Siete peg­gio dei fasci­sti, gri­dano agli orto­dossi. La sena­trice Ben­cini lascia l’aula in lacrime. Anche la col­lega Elena Fat­tori, fedele a Grillo, ammette: «Forse abbiamo fatto un errore, evi­den­te­mente qual­cuno ha rife­rito a Grillo le cose in maniera sbagliata».
A sera, quando l’espulsione è ormai uffi­ciale, i sena­tori tor­nano a riu­nirsi. Que­sta volta però sono divisi anche fisi­ca­mente: da una parte quello che resta del gruppo del M5S. In un’altra stanza i quat­tro dis­si­denti con i col­le­ghi pronti a dimet­tersi. A san­cire che la rot­tura ormai è consumata.

Rappresentanza, Cgil sbatte la porta in faccia a Landini. E la Fiom affila le armi

Il direttivo del sindacato decide una consultazione che si terrà a marzo, blindando l'accordo. Le tute blu si preparano a disertare quel voto le cui modalità ritengono "inaccettabili": "C'è una crisi democratica, noi non parteciperemo"

di , Il Fatto Quotidiano
Rappresentanza, Cgil sbatte la porta in faccia a Landini. E la Fiom affila le armi
 
La consultazione degli iscritti Cgil sull’accordo sulla rappresentanza si terrà a marzo. Ma, come previsto alla vigilia, rappresenterà l’ennesimo strappo interno alla Cgil. La Fiom, infatti, si prepara a disertare quel voto le cui modalità Maurizio Landini ritiene “inaccettabili”. Ed è pronta a nuove iniziative eclatanti.
Al termine del direttivo, la Cgil ha definito un documento che stabilisce le modalità con cui si svolgerà la consultazione. Ci sarà “una campagna di assemblee informative già definite tra Cgil, Cisl e Uil da tenersi nel mese di marzo” e, “nello stesso periodo” un’ulteriore espressione di voto di lavoratori iscritti alla Cgil”. A votare saranno questi ultimi che però avranno due seggi: da una parte “coloro che sono ricompresi nelle intese già raggiunte (Confindustria e Confservizi)” e dall’altra “coloro a cui estendere gli accordi”. Consultazione e risultati delle operazioni di voto saranno a cura delle categorie. Infine, i lavoratori non voteranno sul testo dell’accordo ma su un “quesito” in cui, ricordando che il giudizio della Cgil sull’accordo stesso è “positivo” si chiede di apporre un “sì” o un “no”. Susanna Camusso aveva già spiegato questa modalità, in mattinata, allo stesso Landini presentatosi a un incontro a quattrocchi con in mano le richieste di modifica della Fiom: “Ma non ne hanno accettata nemmeno una” spiega al Fatto.
Non sarà consentito, come chiedeva il segretario Fiom, presentare la posizione alternativa. Né il voto limitato solo al milione di lavoratori interessati: voteranno invece i 2,7 milioni di “attivi” esclusi i pensionati. La segretaria dello Spi, Carla Cantone, si è infatti tirata fuori dalla contesa proponendo una mediazione in grado di superare “gli errori” fatti in questi mesi. Un intervento che, però, è stato accolto gelidamente dalla segreteria nazionale. Landini, invece, parla di “una crisi democratica mai vista” contestando anche il metodo di voto sul “quesito”: “Nei fatti è un referendum sul gruppo dirigente che mette l’accordo al riparo dalla consultazione. La Cgil non dice a Cisl, Uil e Confindustria che il testo è congelato fino al risultato del voto: l’accordo è già operativo. Si tratta di una doppia finta”.
La decisione è stata presa a larga maggioranza con la sola opposizione della Fiom e dell’area di Cremaschi, che non hanno partecipato al voto perché ritenuto illegittimo. Cremaschi, inoltre, reduce dall’aggressione subita al Teatro Parenti di Milano, ha mosso un attacco durissimo al vertice della Cgil accusato di aver falsificato i voti del congresso, “come fa Putin in Russia” e chiedendo, anche per quanto avvenuto a Milano, le dimissioni di Susanna Camusso. Sono invece rientrati i distinguo dell’area di Lavoro-Società che, tranne un esponente Fiom, Augustin Breda, ha votato a favore del provvedimento. La questione, ora, è sapere cosa succederà nei prossimi giorni. La maggioranza, dopo aver chiuso qualsiasi ipotesi di dialogo con la Fiom, andrà avanti senza esitazioni. “Il vero problema della Fiom? L’autolesionismo” si dice nei corridoi.
L’accordo del 10 gennaio, infatti, una volta applicato, provocherà la perdita di alcuni diritti sindacali per chi non lo riconosce, come avvenuto a Pomigliano. Solo che, nel caso della Fiat, la Fiom ha visto riconosciute le proprie prerogative da una sentenza della Corte costituzionale. Quindi si annunciano contenziosi rilevanti. Ma in gioco, in questa partita, c’è anche altro. Camusso e compagni non possono accettare la richiesta di autonomia che avanza la Fiom. D’altro canto, quest’ultima non può accettare un modello contrattuale in cui “sindacati confederali e aziende decidono al posto delle Rsu o delle categorie”. “Faranno la fine dei Cobas” si ribadisce in Cgil. “Loro invece diventeranno come la Cisl”, è la risposta che si può ascoltare tra i dirigenti Fiom. A guardarli da fuori sono già due sindacati.
La Fiom, ieri, non ha partecipato al voto e non parteciperà nemmeno a una consultazione ritenuta “non democratica”. Landini ha già annunciato che riunirà i suoi organismi per decidere cosa fare. Si pensa a una grande manifestazione nazionale, una sorta di Stati generali della Fiom, in contemporanea alla consultazione, riunendo alcune migliaia di delegati e dirigenti per dimostrare, anche fisicamente, di essere, appunto, un altro tipo di sindacato. La lotta continua.
 

Lo sbarramento al 3% è incostituzionale


Lo sbarramento al 3% è incostituzionale
di Jacopo Rosatelli – il manifesto –
 
GERMANIA. La Corte costituzionale boccia la soglia fissata nella legge elettorale per le europee
Potranno fare finta di niente il par­la­mento e il governo ita­liani? Forse sì, appel­lan­dosi alla (pre­sunta) man­canza dei tempi tec­nici neces­sari. Ma la sen­tenza di ieri della Corte costi­tu­zio­nale tede­sca è desti­nata a fare discu­tere anche da noi, per­ché la noti­zia è di quelle che pesano: i giu­dici di Karl­sruhe hanno dichia­rato inco­sti­tu­zio­nale la soglia di sbar­ra­mento al 3% nella legge elet­to­rale per le euro­pee in vigore nel loro Paese.
I cit­ta­dini della Repub­blica fede­rale, per­tanto, vote­ranno il 25 mag­gio con un sistema pro­por­zio­nale «puris­simo». Ben diverso da quello che abbiamo in Ita­lia, che Bar­bara Spi­nelli ha defi­nito con ragione un euro­por­cel­lum: un pro­por­zio­nale appa­rente, per­ché vani­fi­cato da una soglia del 4%, intro­dotta in fretta e furia da Pd e Ber­lu­sconi 5 anni fa, con lo scopo dichia­rato (e poi rag­giunto) di far fuori le forze minori. Come le due liste di sini­stra — Prc/Pdci e Sini­stra e Libertà — che alle euro­pee del 2009 otten­nero rispet­ti­va­mente il 3,4% e il 3,1%, restando senza rappresentanza.
La deci­sione di ieri è di grande signi­fi­cato pro­prio per­ché viene dalla Ger­ma­nia, un Paese nel quale è pre­vi­sto uno sbar­ra­mento del 5% alle ele­zioni poli­ti­che. C’è con­trad­di­zione, dun­que? No, spie­gano i custodi della Costi­tu­zione tede­sca: nel voto per il par­la­mento nazio­nale, la soglia ha la fun­zione di tute­lare la «capa­cità d’azione» della camera legi­sla­tiva, met­ten­dola al riparo dal rischio di un’eccessiva fram­men­ta­zione che la con­duca alla para­lisi. Siamo in Ger­ma­nia, e lo spet­tro della Repub­blica di Wei­mar — dila­niata dai con­tra­sti sino all’ascesa del nazi­smo — aleg­gia sem­pre. Discorso diverso nel caso del par­la­mento di Stra­sburgo: allo stato attuale, argo­men­tano i giu­dici, non si giu­sti­fica in alcun modo il biso­gno di pro­teg­gerlo da rischi di «troppo» pluralismo.
Can­tano vit­to­ria i ricor­renti, quei pic­coli par­titi da sem­pre esclusi de facto e de iure dalle com­pe­ti­zioni elet­to­rali: «E’ un suc­cesso per la demo­cra­zia», hanno com­men­tato a caldo i loro rap­pre­sen­tanti pre­senti alla let­tura della sen­tenza. Stor­cono invece il naso le grandi for­ma­zioni, in par­ti­co­lare demo­cri­stiani (Cdu/Csu) e social­de­mo­cra­tici (Spd), attual­mente alleati di governo nella grosse Koa­li­tion: «Que­sta deci­sione inde­bo­lirà la rap­pre­sen­tanza tede­sca nell’Europarlamento», ha dichia­rato alla tv pub­blica Ard Tho­mas Sto­bel, vice­pre­si­dente del gruppo demo­cri­stiano al Bun­de­stag. Sod­di­sfa­zione per la noti­zia giunta da Karl­sruhe è stata espressa dalla Linke, unico par­tito rap­pre­sen­tato in par­la­mento ad essere dalla parte dei ricorrenti.
Secondo i giu­dici tede­schi, in assenza della neces­sità di «pro­teg­gere» l’Eurocamera dal rischio di fram­men­ta­zione, la soglia di sbar­ra­mento va eli­mi­nata per­ché in con­tra­sto con i prin­cipi costi­tu­zio­nali dell’eguaglianza del voto di cia­scun cit­ta­dino e dell’eguaglianza di oppor­tu­nità dei par­titi. Ugua­glianza del voto non signi­fica sol­tanto, cioè, che cia­scuno disponga di un sin­golo voto al pari di ogni altro, ma che cia­scun voto espresso con­tri­bui­sca con lo stesso ’peso’ di ogni altro a deter­mi­nare la com­po­si­zione della rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare. Ed egua­glianza di chan­ces fra i par­titi vuol dire che la pos­si­bi­lità di otte­nere un seg­gio non deve cre­scere espo­nen­zial­mente con l’aumento dei voti otte­nuti da una lista: in altre parole, un voto deve valere sem­pre uno, sia che se lo aggiu­di­chi un par­tito grande, sia uno pic­colo o piccolissimo.

La Lista-Tsipras, i comunisti e il lavoro che nessuno farà al nostro posto di Dino Greco


La Lista-Tsipras, i comunisti e il lavoro che nessuno farà al nostro posto
Ora l’Istat rileva che i contratti in attesa di rinnovo a gennaio sono ben 51 e riguardano circa 8,5 milioni di dipendenti, corrispondenti al 66,2% del totale, la quota più alta dal gennaio del 2008. In pratica due lavoratori su tre stanno aspettando. La crisi ha dunque anche questo volto e, per dirla com’è, rivela la sua natura e il suo intimo scopo, perseguito con cinica determinazione dai fautori dell’austerity continentale: comprimere i salari, abbattere le tutele sindacali, individuali e collettive, estinguere progressivamente, ma da qualche tempo a tappe forzate, il sistema di protezione sociale, trasformare i diritti di cittadinanza (lavoro, istruzione, sanità, previdenza, assistenza), da obblighi precipui dello Stato a merci destinate esclusivamente ad una clientela solvibile, a privilegiati paganti.
Perché questa colossale operazione di redistribuzione di ricchezza si realizzi occorre che le classi dominanti dispongano di un potere di deterrenza formidabile nei confronti delle classi subalterne. Quest’arma letale, oggi come sempre, è la disoccupazione che aumenta ogni giorno in ogni classe di età, ma specialmente fra i giovani e nel Mezzogiorno. Gli architetti dell’Europa consegnata alle banche e irretita dall’ideologia monetarista raccontano che la rigidità contabile (dal patto di Maastricht al Fiscal compact, passando per il vincolo del pareggio di bilancio trasformato in dettato costituzionale) produce benefici per tutti. In realtà essa è lo strumento attraverso il quale annichilire la spesa pubblica sociale e disintegrare, quasi in forza di una legge economica incontestabile, ferrea come una legge di natura, il sistema solidaristico di garanzie sociali costruito dalle lotte operaie nei trent’anni seguiti alla sconfitta del fascismo e del nazismo.
Racconta, ancora, l’oligarchia finanziaria che regna sull’Europa, che la crisi è il frutto di una caduta della domanda, mentre è vero l’esatto opposto: sono la negazione dei bisogni sociali, la contrazione forzosa degli investimenti, il cappio imposto alla programmazione e all’intervento della mano pubblica, la concentrazione della ricchezza nelle mani di un vorace ceto proprietario che patrimonializza e rende improduttivi gli immensi capitali accumulati, a generare la crisi sistemica, la caduta della domanda aggregata che strangola i popoli d’Europa. Il capitale, nell’epoca della presente inaudita finanziarizzazione dell’economia, sta volgendo la propria vocazione predatoria contro le forze produttive e contro ogni sopravvivenza delle democrazie costituzionali.
Il dramma condiviso dal proletariato europeo è che gran parte delle forze politiche, tanto quelle conservatrici e reazionarie, quanto quelle di antica (e ormai tramontata) estrazione socialdemocratica, si muovono nell’alveo della medesima ideologia liberista. I contorni politici sono sempre più labili, le identità si confondono, le strategie si intrecciano sino a divenire del tutto intercambiabili.
Il caso italiano è fra i più emblematici. Ieri abbiamo ricordato come Matteo Renzi, l’enfant prodige della politica italiana, il nuovo messia assurto alla guida (carismatica?) del Pd ed ora del Paese, stia portando a compimento la definitiva e irreversibile trasmutazione del partito di cui è divenuto padrone, ormai approdato alle rive del mercatismo integrale. La sua intervista al “Foglio” dell’8 giugno 2012 ne rappresenta il manifesto politico più eloquente: “Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo – aveva detto – ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore”.
Questa è la situazione in cui, mutatis mutandis, versa l’intera Europa nella quale, tuttavia, qualcosa faticosamente si muove a sinistra. L’Italia è certo uno dei punti più arretrati, scontando essa gli effetti duraturi di una delle più potenti (e devastanti) abiure culturali, politiche ed ideologiche della sinistra storica da cui essa fatica a riprendersi.
Anche qui da noi tuttavia, si avvertono segni, tenui finché si vuole, ma comunque reali, di una consapevolezza avvertita, magari confusamente, in strati sociali non più marginali, che così non si può andare avanti. Ora arriva l’appuntamento europeo ad offrirci una chance: non per confidare in esso come nell’ennesimo evento salvifico, ma per connetterci al movimento di una sinistra europea dai tratti nitidamente antiliberisti. L’aggregazione che si sta formando intorno alla Lista- Tsipras è multiforme e non priva di interne evidenti contraddizioni. Ma occorre, più che mai ora, guardare alla sostanza delle cose, a come ciò che sta accadendo può fare muovere le cose nella giusta direzione.
Scriveva Lenin, nel 1905, nel pieno della fase democratico-borghese della rivoluzione russa, che “la rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente (senza tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna lotta rivoluzionaria); e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere (…). Colui che attende una rivoluzione sociale pura non la vedrà mai; egli è un rivoluzionario a parole che non capisce cos’è la vera rivoluzione”.
Evidentemente, noi non stiamo vivendo una fase “rivoluzionaria”, ma il metodo proposto da Lenin, l’atteggiamento da tenere, la lotta per l’egemonia in un territorio minato, parlano anche a noi.
E sarà nostro compito fare germinare – dal pur contraddittorio concorso di forze e di soggettività che stanno dando vita alla coalizione contro l’austerity e contro l’oligarchia finanziaria che tiene in pugno l’Europa – qualcosa di profondamente nuovo anche in Italia. Occorrerà tempo, molto lavoro, molte lotte ed altri passi in avanti. Ma le scorciatoie sono le illusioni dei pigri, non sono roba per i comunisti.