Il secondo mandato . Guantanamo, l’impotenza nei confronti del governo di Israele, il silenzio sui paesi est europei che stanno tornando agli anni trenta. Tante parole sulla Russia e nemmeno una sull’Ungheria di Orban. Forse le delusioni in politica estera superano quelle in politica interna
Il
presidente Obama ha fatto una puntata a Roma con 50 macchine di
scorta, cibo e acqua ‘sicuri’, come se Roma fosse in Alabama. Nel suo
paese a meno di due anni dall’uscita di scena i repubblicani lo
bersagliano con ogni mezzo, ogni giorno, mentre i democratici
sussurrano critiche temendo contraccolpi elettorali. Secondo il
sondaggio di Real Clear Politics ha un gradimento del 42%. I più
importanti e potenti opinionisti scrivono che questo
sofisticato intellettuale nero non sa fare il presidente, non
accetta consigli, aiuti. Dietro Nixon, Reagan, i due Bush vi erano
uomini che facevano funzionare il governo nella direzione propria
al paese del primato dell’economia. Anche Clinton vi si adattò.
Obama no.
Nel primo mandato egli era stato eletto con il fondamentale sostegno delle élite finanziarie, ostili al big business del petrolio e ai dinosauri militari-industriali repubblicani. Meglio investire su un appassionato di information technology
in grado di capire l’economia finanziaria. A garantire che i suoi
emozionanti discorsi “sul cambiamento possibile” erano promesse
elettorali, provvedeva Tim Geithner, il segretario al Tesoro,
brillante cultore del capitalismo contemporaneo. Ma quando nel
2008 scoppiò la crisi di quel capitalismo, la reazione della nuova
Casa Bianca fu ambigua. Da un lato quasi impose il fallimento della
banca Lehmans, dall’altro si mosse perché i giochi finanziari
riprendessero nel tempo più breve. L’ambiguità stava nel
comportamento personale del presidente. Nel fatto che intanto
stava dimostrando di tenere alle promesse elettorali. Non solo alla
riforma sanitaria, ma anche agli punti della sua politica progetto.
Il presidente — eletto con i voti paradossalmente congiunti dei
finanzieri, dei sindacati, dei neri e degli ispanici, del 70% degli
ebrei e degli studenti universitari, dell’elettorato
tradizionalmente democratico – prometteva: pace tra
repubblicani e democratici; la chiusura del carcere di
Guantanamo; misure per l’ammodernamento delle infrastrutture, treni,
autostrade, scuole pubbliche; l’aumento del salario minimo;
sostegno ai disoccupati, vittime della globalizzazione. Dal
bilancio quasi concluso risulta che Obama non è stato in grado di far
fronte al suo programma. Eppure egli non viene solo dall’attivismo
sociale nelle comunità urbane, degradate dalla delocalizzazione ma
anche dalla machine politics di Chicago. E’ là che si
è imposto sino a diventare senatore. Ed è là che poteva imparare da
Lyndon Johnson, il presidente della Great Society, il
politico che usò ogni leva su Senato e Congresso per dare anche agli
americani un po’ del welfare europeo. Le misure di welfare di Obama
sono state respinte con una virulenza quasi impolitica, quasi
razziale. Come se l’elettorato bianco si fosse stretto al suo
establishment bianco, nel big business e nelle sedi
politiche, per dimostrare a Obama che i suoi studi ad Harvard e le
sue esperienze a Chicago, non bastavano a farlo riconoscere come il
loro “comandante in capo”. Al quale si dovrebbe rispetto che invece
i mass media, grandi e piccoli, gli negano attribuendogli anche la
perdita di prestigio dell’America nel mondo.
L’accusa è che il mondo ha smesso di
avere paura dell’America. Proprio quando con l’invenzione dei droni,
con l’autonomia per il gas e con la grande finanza tornata a brillare,
il grande paese dimostra la sua potenza.
Una potenza che il presidente
assicura non sarà usata nella vecchia maniera. E dunque come
promesso si deve andar via dall’Iraq e dall’Afganistan, non
intervenire in Siria (a memoria del rovinoso intervento a metà in
Libia), mentre qui e lì, nel grande Medio Oriente, l’uso dei droni
elimina singoli nemici, individuati come tali dai servizi segreti.
Nelle relazioni internazionali molte sono le contraddizioni da
parte di colui che diventando presidente tante aspettative fatto
nascere. Da un lato c’è quel famoso discorso al Cairo nel 2009 “sul
nuovo inizio” nelle relazioni con i paesi islamici, ritenuto in gran
misura all’origine delle primavere arabe, e peraltro appassite come
si sa. Dall’altro lato vi sono i passi indietro su Guantanamo,
l’impotenza nei confronti del governo di Israele, il silenzio sui
paesi est europei che stanno tornando agli anni trenta. Tante parole
sulla Russia e nemmeno una sull’Ungheria di Orban. Forse le delusioni
in politica estera superano quelle in politica interna.
Egli è entrato alla Casa Bianca con una
“sua” politica progetto, ne uscirà con un contratto milionario per
un libro in cui si difenderà. La realtà è che l’intellettuale outsider
non è stato in grado di imporsi sull’establishment del suo paese, che
è il paese dei film dei fratelli Cohen. Il paese conosciuto prima da
ragazzo nero, e da community organizer e poi da avvocato
e poi da politico di Chicago. Un paese sul cui cambiamento aveva
scommesso di farcela. E in tanti avevano creduto che proprio per le
sue esperienze ce l’avrebbe fatta. Grande è la delusione.
RITA DI LEOda il manifesto
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