di Vincenzo Vita
Le anticipazioni della proposta del premier Renzi sulla Rai
fanno pensare ad una brusca controriforma. Ad un brusco
risveglio al tempo che precedette la riforma del 1975. Quella che —
con una piccola rivoluzione copernicana — spostò le competenze
sull’azienda radiotelevisiva dal potere esecutivo al Parlamento.
Il vecchio monopolio di Stato a baricentro democristiano (la Dc,
però, qualche spazio lo lasciava anche agli altri) divenne così il
servizio pubblico italiano.
Certamente non furono rose e fiori. No, l’agognato
pluralismo degenerò nella ruvida lottizzazione partitica.
Intendiamoci. L’allora "pentapartito" fece la parte del leone,
lasciando fuori dal comando chi era in odore di comunismo. Benché
quest’ultimo si coniugasse nella storia italiana alle punte alte
e prestigiose della cultura. Tuttavia, dopo la legge n.103
nacquero esperienze coraggiose e di avanguardia, come ad esempio
quella del gruppo di "Cronaca". E, ovviamente, le esperienze belle
e prefiguranti della seconda rete televisiva diretta da Massimo
Fichera, nonché del tg2 di Andrea Barbato. Fino a che il "fattore K"
si sciolse e si appalesò la tv cult di Curzi e Guglielmi. Pure il
tradizionale e pacioso primo canale tenne conto del cambiamento ed
assunse interessanti tratti nazional-popolari.
Ecco, ora arriva il flash back e una vicenda così densa viene mestamente azzerata dalla
leggerezza non calviniana di Renzi. Che di controriforma si
tratti è evidente, se verranno davvero messe in prosa giuridica le
anticipazioni de la Repubblica. Il governo diviene il dominus,
scegliendo il capo azienda che, naturalmente, si chiama
amministratore delegato. Dire direttore generale sa troppo di
antico, anche il linguaggio ha i suoi simboli. Il resto (consiglio
di amministrazione, la stessa commissione parlamentare) è noia,
punteggiava il Califfo. Appunto, la velocità futurista (per dire)
del Presidente del consiglio non ammette confronti,
articolazioni, bilanciamenti.
Dunque, è un salto all’indietro? Certo. È la messa
in soffitta della giurisprudenza costante della Corte
costituzionale, sempre tesa a sottolineare la centralità delle
Camere? Altrettanto evidente. Ma attenzione. Non è solo una
restaurazione. È pure peggio. Se leggiamo il capitolo Rai nel
contesto dei conflitti in corso — revisione del bicameralismo,
legge elettorale, Jobs Act, normalità della decretazione d’urgenza
— la luce si accende in modo più forte e inquietante. I media non sono
"altro", magari espressioni di una sfera autonoma e indipendente:
ma parte integrante dell’oligarchia consensuale. Quella cosa che
i politologi chiamano "post-democrazia". E la Rai in Italia
è sempre stata un avamposto prefigurante, un laboratorio
anticipatore dei passi successivi del e nel sistema politico.
Forse, allora, la controriforma di Renzi sposta sì le lancette
indietro di quarant’anni, ma insieme le mette di qualche minuto
avanti.
In tutto questo ci sono progetti impegnativi già depositati in Parlamento: Civati/Sel; Marazziti; Mov5Stelle. Ci
faccia il piacere, Presidente. Almeno il governo depositi il suo
testo, prima che la Rai si fermi e si blocchi, aspettando di capire da
che parte andare, come Gassman nell’indimenticabile "Armata
Brancaleone".
Riforma Rai, il No di Rifondazione comunista: "Indietro di 40 anni"
La
cosddetta riforma della Rai che Renzi porterà al Consiglio dei ministri
a giorni sta sollevando un vespaio di polemiche. Lo schema è quello di
affidare maggiori poteri, se non proprio tutti, ad un amministratore
delegato togliendo di mezzo sia il direttore generale che il consiglio
di amministrazione e lasciando una vigilanza molto ridimensionata al
Parlamento, che a quel punto non potrebbe eleggere nemmeno il cda.
Se sono vere le notizie apparse sui giornali, la “controriforma” di
Renzi del servizio pubblico radiotelevisivo, secondo Rifondazione
comunista, come si legge in una nota a firma di Stefania Brai, "ci
riporta indietro di esattamente 40 anni, a quando cioè prima della
grande riforma del ’75 la Rai era tutta sotto il controllo del governo".
Così Renzi, con la banale scusa di “allontanare i partiti” dalla
gestione dell’azienda pubblica "dà il potere di nominare un
“amministratore unico” ai soli partiti che stanno al governo. Con
l’eliminazione della figura del presidente nominato dal consiglio di
amministrazione e di quella del direttore generale si raggiunge un
duplice obiettivo: assumere tutto il controllo della Rai da parte del
governo ed iniziare una vera privatizzazione del servizio pubblico
equiparandolo a qualunque azienda privata".
Rifondazione comunista si batterà insieme alle forze sociali,
culturali e professionali perché la Rai possa tornare a svolgere quel
ruolo di volano dell’industria culturale italiana che spetta al servizio
pubblico radiotelevisivo. E si dichiara contro qualunque tentativo di
ulteriore privatizzazione delle istituzioni che producono conoscenza,
cultura e sapere. "Occorre invece lavorare per la ricostruzione di un
tessuto di partecipazione reale - si legge ancora nella nota - per
ridiscutere il ruolo di un servizio pubblico radiotelevisivo all’altezza
delle sfide tecnologiche di oggi e di domani mettendo intorno a un
tavolo non i 30 esperti di Renzi ma tutte le professionalità coinvolte
insieme le forze sociali e culturali, all’associazionismo e ai
movimenti".
Per il Prc, occorre elaborare un grande progetto culturale che
riporti la Rai ad essere un’azienda realmente democratica e autonoma,
decentrata e partecipata, che possa ridare vita a tutta la produzione
indipendente diffusa su tutto il territorio nazionale, pluralistica
nella sua offerta culturale nel rispetto dei tanti “pubblici” e
sganciata dalle logiche di mercato.
"Una Rai governata da un consiglio di amministrazione conclude Brai
- formato da personalità del mondo della cultura, dell’informazione,
del lavoro e della produzione culturale, nominate in base a curricula
pubblici in modo tale da garantire professionalità indipendenza e
autonomia dai partiti e dai governi".
vedi anche: http://ilconfrontodelleidee.blogspot.it/2015/03/togliere-la-rai-ai-partiti-per-darla-chi.html
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