giovedì 2 febbraio 2012

Monotono, troppo monotono, Salavatore Cannavò, Il Fatto Quotidiano

“Monotono, troppo monotono. Non era per me. Mia madre non ci credeva, mio padre non ha fatto in tempo a vedere quanta tristezza e noia si accumulava dentro di me. Quel posto fisso…. Ogni mattina gli stessi orari, lo stesso ufficio, le stesse facce, la stessa mansione, lo stesso, mesto, ritorno a casa. E poi, figurati, ogni mese ero pagato puntualmente, mi versavano i contributi regolari, lavoravo in un’azienda sopra i 15 dipendenti e quindi, se mi avessero licenziato senza giusta causa, sarebbero stati costretti a reintegrarmi. Avevo la malattia pagata, potevo prendere dei permessi, godevo di tredicesima e, addirittura, quattordicesima. E, in effetti, in dieci anni di quel lavoro ho risparmiato qualcosa, pensa ce l’ho ancora, mi dà sicurezza per il futuro… Ma, bando alla nostalgia, non facciamoci prendere dalla tenerezza. Quel lavoro era una noia, le ferie pagate sì, erano gustose, ma poi bisognava tornare. E così ho detto basta! Basta a quella giostra sempre uguale, a quella fissità, qui ci vuole movimento – mi sono detto -  dinamicità, ritmo. E così mi sono licenziato e ho iniziato a cambiare lavoro, perché cambiare lavoro è molto più divertente. Avevo quarant’anni e anche una discreta formazione. Mi sono presentato in altri uffici, in altre aziende, e mi hanno preso. E quando hanno saputo delle mie ragioni mi hanno sorriso e aperto ancora di più la porta: “Ma davvero? Lei è uno di quelli che rinuncia al posto fisso perché è noioso? Ma bravo, complimenti, grazie per il coraggio, lei sì che indica un futuro diverso a questo paese, ce ne fossero così”. Bene, bravo, bis. E così, improvvisamente si è aperto davanti a me il rutilante mondo del lavoro flessibile e della vita movimentata. E che movimento!”.

“Avevo un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, un co.co.co. Già il nome sembra una danza sudamericana. La mattina mi alzavo a orari sempre diversi perché ogni giorno aveva un ritmo diverso da rispettare. “Domani vieni prima che c’è da lavorare al lancio del nuovo prodotto?”. Certo. “Domani vieni un po’ dopo che tanto la mattina abbiamo una riunione del consiglio di amministrazione e non possiamo fare niente?“. Va bene. Ho iniziato ad avere problemi con la sveglia, a volte non ricordavo se dovevo alzarmi prima oppure potevo restare a letto un po’ di più. Per non sbagliare ho iniziato a svegliarmi alla stessa ora, che tanto fa bene.

Fino a quando sono arrivate le richieste più “divertenti”: “Senti, siccome quel prodotto è stato rinviato e abbiamo problemi con la distribuzione, prossimi due mesi non riusciamo a rispettare gli impegni. Se per te va bene, sospendiamo la collaborazione per questo periodo e poi la riprendiamo, ok?”. Come rifiutarsi? Più che una richiesta, sembrava un comunicato.  Salvo che, in quei due mesi in cui stavo cercando una soluzione alternativa all’erosione dei miei risparmi, insomma cercavo un’occupazione temporanea per riempire il buco, mi richiamano per dirmi che hanno bisogno di me per una settimana. “Ci sei vero?”. Certo che ci sono, che faccio rinuncio a questa collaborazione? In fondo è un lavoro importante, non ho orari, mi muovo molto, batto la noia. E così l’occupazione temporanea, che nel frattempo avevo trovato, la lascio stare. Torno in ufficio per una settimana, lavoro dieci ore al giorno – perché c’è un picco e in effetti il lavoro è tanto – e poi torno a casa. Se ne riparla fra un mese e mezzo. Intanto mi sono accorto che a casa ci sto meno, rientro sempre abbastanza tardi. E dopo due anni di questo lavoro mi accorgo di aver guadagnato meno di prima e ho scoperto che i contributi che mi vengono versati sono circa il 10 per cento in meno di quando avevo il contratto fisso. Non ho ferie né malattia. E non godo nemmeno della disoccupazione. Ho quarantadue anni e me ne mancano venticinque alla pensione. In realtà, non sono sicuro di avercela una pensione. Però non fa niente, mi diverto, non mi annoio. Spero solo di sopravvivere”.

Non so se abbiamo reso l’idea. La testimonianza è quella di una amico. Il posto fisso non lo ha più e ha capito che non lo avrà più. Se potesse, mi ha confessato, tornerebbe indietro. Ma la strada per tornare indietro è sbarrata. Poi mi spiega una cosa: “Quando dicono che il posto fisso è una noia e che occorre poter cambiare, hanno ragione. Ma pensano sempre a una realtà che assomiglia ai film americani, a una mobilità che nella realtà non esiste. Il lavoro flessibile non è quello che viene promesso, tranne che per super-consulenze aziendali o impieghi di fascia molto alta”.
Mario Monti dovrebbe saperlo, anzi lo sa benissimo a meno che non pensi che la realtà sia solo quella che vede lui tra Milano e Bruxelles, tra il Rettorato di un’università e la stanza luminosa di un ufficio europeo”. Sì, Mario Monti dovrebbe saperlo, per quanto il governo dei tecnici dia spesso l’impressione di relazionarsi a una realtà, tecnica, appunto, appresa su fogli e diagrammi più che nella vita reale. Ma poi mi viene in mente anche un’altra cosa. Quando andavo all’università, negli anni 80, un dirigente del Partito socialista, credo fosse Gianni De Michelis, disse ai giovani che il loro futuro avrebbe dovuto basarsi su un principio molto semplice e una parola d’ordine molto chiara: Arrangiatevi!”. Mario Monti non fa che riproporre quella cosa lì.

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