Consiglio a tutti di leggere con assiduità il sito Eddyburg, dell’urbanista Edoardo Salzano.
Ce ne fossero di urbanisti come lui ben lontani dalla logica oggi
imperante del consumo di territorio a tutti i costi. Ebbene, proprio in
un suo editoriale del 25 gennaio scorso trovo questa acuta
considerazione:
Pensavo che fosse uno scherzo quando ho letto il primo articolo del decreto sulle liberalizzazioni, inviatomi qui a Kigali (Rwanda) da un amico dall’Italia. Poi ho capito che era vero: si trattava dei provvedimenti per consentire la ripresa della “crescita” del paese. Tra questi mi ha particolarmente colpito l’abolizione, di fatto, della “pianificazione autoritaria: il colpo che non era riuscito a Maurizio Lupi e ai suoi alleati di destra e di sinistra.
Il decreto Monti dispone infatti l’abrogazione delle norme «che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi».
Il significato di questa abrogazione (deregolamentazione) è chiaro. La pianificazione e programmazione degli enti pubblici elettivi (“autoritativa”) deve avere quale suo obiettivo principale, cui tutti gli altri sono subordinati, lo sviluppo delle attività economiche. Poiché (e finché) “le finalità pubbliche perseguite” (la “crescita”, l’aumento del Pil, la produzione di maggiore valore di scambio) non saranno raggiunte, ogni altro obiettivo sarà ad esso sacrificabile. La tutela dei beni culturali e del paesaggio, il benessere degli abitanti delle città e dei territori, la salute, l’equità nell’accesso ai beni comuni, quindi un’organizzazione dello spazio che consenta di soddisfare queste esigenze, tutto ciò diventerà, insieme al lavoro, variabile subordinata della “crescita”.
Domandiamoci qual è, nell’Italia di oggi, la “crescita” che trova ostacoli nella pianificazione e programmazione “autoritative”. E’ forse quella caratterizzata dall’innovazione e dalla ricerca, dal perseguimento del migliore valore d’uso del prodotto? Certamente no. L’attività economica più redditizia, quella alla quale si sono pesantemente convertite, fin dagli ani Settanta del secolo scorso, le stesse aziende capitalistiche “moderne e avanzate”, è quelle del mattone: dell’incremento e della massima valorizzazione della rendita fondiaria urbana.
Mi riconosco il piccolissimo merito di non essermi unito al coro di coloro che inneggiavano a Monti, come al salvatore della patria, ed anzi di aver evidenziato che dal punto di vista ambientale, con le banche al governo, la situazione in Italia non poteva che peggiorare. I fatti mi stanno dando ragione, come evidenzia Salzano in questo suo breve commento. Purtroppo, questo decreto non fa che dare un’ulteriore accelerazione ad un processo già in atto da anni, e cioè quello della abbreviazione delle procedure volte ad autorizzare le opere private (o pubbliche) sul territorio, e dell’abdicazione della mano pubblica dal controllo su di esse. In pratica, tradotto: costruire perché costruire significa crescita. Un tempo si diceva che al capitalismo non importava delle sorti dell’umanità. Direi più propriamente che oggi al capitalista non importa neppure del futuro dei propri figli.
Pensavo che fosse uno scherzo quando ho letto il primo articolo del decreto sulle liberalizzazioni, inviatomi qui a Kigali (Rwanda) da un amico dall’Italia. Poi ho capito che era vero: si trattava dei provvedimenti per consentire la ripresa della “crescita” del paese. Tra questi mi ha particolarmente colpito l’abolizione, di fatto, della “pianificazione autoritaria: il colpo che non era riuscito a Maurizio Lupi e ai suoi alleati di destra e di sinistra.
Il decreto Monti dispone infatti l’abrogazione delle norme «che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi».
Il significato di questa abrogazione (deregolamentazione) è chiaro. La pianificazione e programmazione degli enti pubblici elettivi (“autoritativa”) deve avere quale suo obiettivo principale, cui tutti gli altri sono subordinati, lo sviluppo delle attività economiche. Poiché (e finché) “le finalità pubbliche perseguite” (la “crescita”, l’aumento del Pil, la produzione di maggiore valore di scambio) non saranno raggiunte, ogni altro obiettivo sarà ad esso sacrificabile. La tutela dei beni culturali e del paesaggio, il benessere degli abitanti delle città e dei territori, la salute, l’equità nell’accesso ai beni comuni, quindi un’organizzazione dello spazio che consenta di soddisfare queste esigenze, tutto ciò diventerà, insieme al lavoro, variabile subordinata della “crescita”.
Domandiamoci qual è, nell’Italia di oggi, la “crescita” che trova ostacoli nella pianificazione e programmazione “autoritative”. E’ forse quella caratterizzata dall’innovazione e dalla ricerca, dal perseguimento del migliore valore d’uso del prodotto? Certamente no. L’attività economica più redditizia, quella alla quale si sono pesantemente convertite, fin dagli ani Settanta del secolo scorso, le stesse aziende capitalistiche “moderne e avanzate”, è quelle del mattone: dell’incremento e della massima valorizzazione della rendita fondiaria urbana.
Mi riconosco il piccolissimo merito di non essermi unito al coro di coloro che inneggiavano a Monti, come al salvatore della patria, ed anzi di aver evidenziato che dal punto di vista ambientale, con le banche al governo, la situazione in Italia non poteva che peggiorare. I fatti mi stanno dando ragione, come evidenzia Salzano in questo suo breve commento. Purtroppo, questo decreto non fa che dare un’ulteriore accelerazione ad un processo già in atto da anni, e cioè quello della abbreviazione delle procedure volte ad autorizzare le opere private (o pubbliche) sul territorio, e dell’abdicazione della mano pubblica dal controllo su di esse. In pratica, tradotto: costruire perché costruire significa crescita. Un tempo si diceva che al capitalismo non importava delle sorti dell’umanità. Direi più propriamente che oggi al capitalista non importa neppure del futuro dei propri figli.
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