lunedì 6 febbraio 2012

Quelle ferrovie che non ci uniscono più - di Paolo Berdini, Il Manifesto


Cronache di un disastro annunciato. Dopo giorni di avvertimenti sull’avvicinarsi di una perturbazione, il sistema paese è andato in frantumi. Autostrade bloccate. Interi comprensori senza elettricità per ore e ore. Comuni colpiti dalle politiche del rigore monetarista che non hanno i mezzi per riaprire la viabilità secondaria. Treni fermi per guasti a Carsoli o per problemi di linea a Cesano, comune di Roma, capitale di un paese disgregato dal neoliberismo.
La rete ferroviaria costruita nell’Italia post-unitaria aveva alla base l’obiettivo di unificare fisicamente il paese. Attraverso l’uso della spesa pubblica si perseguì l’obiettivo di mettere in rete ogni angolo, anche il più remoto, dell’Italia.
I treni avevano all’epoca tre classi. C’era dunque una concezione molto gerarchica della società e non mancarono scandali. Ma c’era anche il pensiero che il paese intero dovesse beneficiare del miglioramento economico e sociale. Con il trionfo della cultura neoliberista sono state spese decine di miliardi di euro (Ivan Cicconi li ha contati uno ad uno) per costruire la linea di alta velocità tra Napoli e Torino. Il resto è stato abbandonato a se stesso. Non è conveniente dal punto di vista economico, ci dicono i grandi strateghi del fallimento. Città e regioni del sud e delle aree interne sono stati abbandonati a se stessi. Milioni di persone non contano nulla: la competitività si gioca tra le aree forti e lo Stato ha abdicato alla funzione principale sancita dalla Costituzione, quella di rendere più uguale e giusta la società e gli individui.
Il pilastro ideologico che ha reso possibile questa devastante involuzione è la cultura delle privatizzazioni. Ferrovie dello Stato, come tutte le società pubbliche, è stata privatizzata e disarticolata in tante società, ognuna delle quali ha perseguito l’unico obiettivo del fare cassa. Licenziando, diminuendo le tutele ai lavoratori e alla stessa rete. La tragedia di Viareggio è inscritta in questa logica. Non paghi di quanto hanno provocato, i super stipendiati strateghi del liberismo stanno completando il disegno. Da qualche settimana le sale d’aspetto, ad eccezione di Roma e Bologna sono state chiuse. Chiuse e basta. Uno dei paesi più ricchi del mondo non può permettersi di “sprecare” metri quadrati senza valorizzarli. Lunedì scorso, in un dibattito sulla prima rete radiofonica, un dirigente di Grandi stazioni (uno dei pezzi dell’ex FS) nascondendo a stento il fastidio per le mie argomentazioni, ha affermato che non c’è nessuna necessità di sedersi: meglio camminare tra negozi e gadget.
Questo disprezzo delle persone in carne ed ossa, degli anziani, di chi viaggia per motivi di salute, o per le tante vicissitudini della vita, mi è tornato in mente ieri sera nell’apprendere che in ogni angolo del paese – ad eccezione della tratta dell’alta velocità, naturalmente – i treni si erano fermati. Potevano seguire il consiglio del nostro intrepido manager di cartone. Potevano scendere e camminare nel buio di una notte senza fine cui ci sta condannando la troppo lunga stagione del liberismo.


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