Dainese, Omsa, Geox, Bialetti, Rossignol e tante altre aziende
scelgono di produrre all'estero per ridurre i costi. Situazione
particolarmente grave nel nordest per tessile e calzature. Per l'Isat,
nel 55 per cento dei casi la meta è un paese europeo. Nell'ultimo
decennio la casa automobilistica torinese ha cancellato ventimila posti
nel nostro paese
Sergio
Marchionne ventila l’ipotesi di chiudere due stabilimenti Fiat in
Italia che, evidentemente, sarebbero sostituiti da produzioni
all’estero. Non importa come e dove: non necessariamente negli Stati
Uniti, ma magari in Serbia o in Cina. Pochi gli ricordano che negli
ultimi dieci anni i posti di lavoro persi in Italia dal gruppo Fiat
a causa del fenomeno delle delocalizzazioni sono stati ben 20 mila.
Cinquemila quelli dei call center, altrettanti nella telefonia.
Delocalizzazioni come quella della Omsa fanno perdere all’Italia 400 posti di lavoro, mentre la Dainese di Molveno, la casa delle tute sportive e motociclistiche che rifornisce anche Valentino Rossi, sposta tutto in Tunisia, dove impiega già 500 persone, salvando solo 80 lavoratori su 250. E poi, ancora, il caso di Bialetti, Rossignol, Geox
e la complessa situazione del nord-est dove il fenomeno della
delocalizzazione nei settori del tessile e abbigliamento e calzaturiero è
stata devastante con le perdite, solo nel distretto tessile veneto
(Verona, Vicenza, Padova e Treviso) di decine di migliaia di posti con
un impatto sui piccoli laboratori artigiani che facevano da
sub-fornitori alle imprese medio-grandi.
Prendendo come base della propria ricerca le imprese italiane dell’industria e dei servizi con più di 50 addetti, l’Istat ha rilevato che nel periodo 2001-2006, circa 3. 000 imprese, pari al 13, 4 per cento delle grandi e medie imprese industriali e dei servizi, hanno avviato processi di questo tipo. L’internazionalizzazione ha interessato maggiormente le imprese industriali (17, 9 per cento) rispetto a quelle operanti nel settore dei servizi (6, 8). Ad attirare di più le imprese italiane nel periodo 2001-06 è stata l’Europa, verso la quale si è indirizzato il 55 per cento delle imprese internazionalizzate. Nel resto del mondo si distinguono Cina (16, 8) e Usa e Canada (complessivamente 9, 7), seguiti da Africa centro-meridionale (5) e India (3, 7). Per il periodo 2007-2009 l’Istat segnala una forte crescita degli investimenti in India, Africa e nei paesi europei extra Ue. Secondo i dati dell’European Restructuring Monitor, progetto che monitora i processi di ristrutturazione aziendale nei 27 paesi Ue più la Norvegia, la percentuale di incidenza degli stati asiatici è al 25 per cento.
La motivazione fondamentale di questa scelta è scontata, la riduzione del costo del lavoro e degli altri costi di impresa. Nelle brochure di consulenti aziendali come la Pricewaterhouse si può leggere che le opportunità della delocalizzazione sono date dalla crescita dei paesi emergenti, dal formarsi di una nuova classe media, dallo sviluppo delle infrastrutture e dall’emergere di sempre nuovi paesi (non solo est europeo ma anche Cina, Vietnam e Thailandia). Riguardo all’impatto sui posti di lavoro, secondo i dati dell’Erm, il 6,4 per cento dei posti di lavoro persi in seguito a ristrutturazioni aziendali è “imputabile a iniziative di delocalizzazione”. Numero che, per il 2009-10 significa circa 34 mila posti persi.
All’Italia va un po’ meglio di altri paesi europei che in termini di occupazione soffrono perdite maggiori: il 6,6 per la Francia, il 6,9 per la Germania e, addirittura, l’ 8,9 per cento per la Gran Bretagna. I comparti maggiormente colpiti sono quello tessile, l’abbigliamento e calzaturiero, la meccanica e le apparecchiature, industriali e per ufficio, la meccanica elettrica e il settore automobilistico (la Fiat in Serbia insegna).
Un ultimo sguardo sul fenomeno lo offrono i dati dell’Istituto per il commercio estero secondo i quali il numero di investitori italiani (gruppi industriali o imprese autonome) attivi sui mercati internazionali ammonta a quasi 5. 800 unità, per un totale di 17. 200 imprese estere partecipate a vario titolo con un numero di dipendenti totali pari a 1.120.550 unità per un fatturato realizzato dalle affiliate nel 2005 di quasi 322 miliardi di euro.
Per contro, le imprese italiane partecipate da società estere sono circa 7.000, con l’intervento di quasi 4.000 imprese investitrici, un totale di dipendenti in Italia di quasi 860.000 unità. Un saldo negativo per 260 mila posti di lavoro. Secondo la Banca d’Italia, la delocalizzazione è uno degli effetti della “nuova globalizzazione” in cui cresce l’interdipendenza tra imprese diverse collegate fra loro in una catena del valore. Ma, si domanda l’Istituto centrale, “occorre chiedersi che ruolo le imprese italiane stiano giocando, e possano in prospettiva giocare, in questo nuovo mondo”.
Prendendo come base della propria ricerca le imprese italiane dell’industria e dei servizi con più di 50 addetti, l’Istat ha rilevato che nel periodo 2001-2006, circa 3. 000 imprese, pari al 13, 4 per cento delle grandi e medie imprese industriali e dei servizi, hanno avviato processi di questo tipo. L’internazionalizzazione ha interessato maggiormente le imprese industriali (17, 9 per cento) rispetto a quelle operanti nel settore dei servizi (6, 8). Ad attirare di più le imprese italiane nel periodo 2001-06 è stata l’Europa, verso la quale si è indirizzato il 55 per cento delle imprese internazionalizzate. Nel resto del mondo si distinguono Cina (16, 8) e Usa e Canada (complessivamente 9, 7), seguiti da Africa centro-meridionale (5) e India (3, 7). Per il periodo 2007-2009 l’Istat segnala una forte crescita degli investimenti in India, Africa e nei paesi europei extra Ue. Secondo i dati dell’European Restructuring Monitor, progetto che monitora i processi di ristrutturazione aziendale nei 27 paesi Ue più la Norvegia, la percentuale di incidenza degli stati asiatici è al 25 per cento.
La motivazione fondamentale di questa scelta è scontata, la riduzione del costo del lavoro e degli altri costi di impresa. Nelle brochure di consulenti aziendali come la Pricewaterhouse si può leggere che le opportunità della delocalizzazione sono date dalla crescita dei paesi emergenti, dal formarsi di una nuova classe media, dallo sviluppo delle infrastrutture e dall’emergere di sempre nuovi paesi (non solo est europeo ma anche Cina, Vietnam e Thailandia). Riguardo all’impatto sui posti di lavoro, secondo i dati dell’Erm, il 6,4 per cento dei posti di lavoro persi in seguito a ristrutturazioni aziendali è “imputabile a iniziative di delocalizzazione”. Numero che, per il 2009-10 significa circa 34 mila posti persi.
All’Italia va un po’ meglio di altri paesi europei che in termini di occupazione soffrono perdite maggiori: il 6,6 per la Francia, il 6,9 per la Germania e, addirittura, l’ 8,9 per cento per la Gran Bretagna. I comparti maggiormente colpiti sono quello tessile, l’abbigliamento e calzaturiero, la meccanica e le apparecchiature, industriali e per ufficio, la meccanica elettrica e il settore automobilistico (la Fiat in Serbia insegna).
Un ultimo sguardo sul fenomeno lo offrono i dati dell’Istituto per il commercio estero secondo i quali il numero di investitori italiani (gruppi industriali o imprese autonome) attivi sui mercati internazionali ammonta a quasi 5. 800 unità, per un totale di 17. 200 imprese estere partecipate a vario titolo con un numero di dipendenti totali pari a 1.120.550 unità per un fatturato realizzato dalle affiliate nel 2005 di quasi 322 miliardi di euro.
Per contro, le imprese italiane partecipate da società estere sono circa 7.000, con l’intervento di quasi 4.000 imprese investitrici, un totale di dipendenti in Italia di quasi 860.000 unità. Un saldo negativo per 260 mila posti di lavoro. Secondo la Banca d’Italia, la delocalizzazione è uno degli effetti della “nuova globalizzazione” in cui cresce l’interdipendenza tra imprese diverse collegate fra loro in una catena del valore. Ma, si domanda l’Istituto centrale, “occorre chiedersi che ruolo le imprese italiane stiano giocando, e possano in prospettiva giocare, in questo nuovo mondo”.
Delocalizzazione, la mappa delle aziende emigrate oltreconfine
Da Fiat a Benetton, passando per Telecom e Ducati. Ecco una mappa
delle attività spostate all’estero da alcuni grandi gruppi italiani.FIAT: stabilimenti aperti in Polonia, Serbia, Russia, Brasile, Argentina. Circa 20. 000 posti di lavoro persi, dai 49. 350 occupati nel 2000 si arriva ai 31. 200 del 2009 (fonte: L’Espresso).
DAINESE: due stabilimenti in Tunisia, circa 500 addetti; produzione quasi del tutto cessata in Italia, tranne qualche centinaio di capi.
GEOX: stabilimenti in Brasile, Cina e Vietnam; su circa 30. 000 lavoratori solo 2. 000 sono italiani.
BIALETTI: fabbrica in Cina; rimane il marchio dell’ “omino”, ma i lavoratori di Omegna perdono il lavoro.
OMSA: stabilimento in Serbia; cassa integrazione per 320 lavoratrici italiane.
ROSSIGNOL: stabilimento in Romania, dove insiste la gran parte della produzione; 108 esuberi a Montebelluna.
DUCATI ENERGIA: stabilimenti in India e Croazia.
BENETTON: stabilimenti in Croazia.
CALZEDONIA: stabilimenti in Bulgaria.
STEFANEL: stabilimenti in Croazia.
TELECOM ITALIA: call center in Albania, Tunisia, Romania, Turchia, per un totale di circa 600 lavoratori, mentre in Italia sono stati dichiarati negli ultimi tre anni oltre 9. 000 esuberi di personale.
WIND: call center in Romania e Albania tramite aziende in outsourcing, per un totale di circa 300 lavoratori. H 3 G: call center in Albania, Romania e Tunisia tramite aziende in outsourcing, per un totale di circa 400 lavoratori impiegati.
VODAFONE: call center in Romania tramite aziende di outsourcing, per un totale di circa 300 lavoratori impiegati.
SKY ITALIA: call center in Albania tramite aziende di outsourcing, per un totale di circa 250 lavoratori impiegati. Nell’ultimo anno sono stati circa 5. 000 i posti di lavoro perduti solamente nei call center che operano nel settore delle telecomunicazioni, tra licenziamenti e cassa integrazione
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