La stabilità governativa non è effetto solo di equilibri elettorali e parlamentari, ma di equilibri sociali più ampi
Di
cosa si accusava la cosiddetta Prima Repubblica? D’inefficienza e
corruzione. Il sistema dei partiti era troppo frammentato, ciò
ingenerava troppa competizione, che destabilizzava l’esecutivo e
paralizzava l’azione di governo, suscitando pure fenomeni gravissimi di
corruzione politica. Di qui il transito alla seconda repubblica, via
riforma elettorale. Essa avrebbe sanato tutti questi vizi, rimesso sotto
controllo pubblici bilanci e debito pubblico, rilanciato il sistema
produttivo, moralizzata la vita pubblica e chi più ne ha più ne metta.
A fare i conti, dopo vent’anni, quale di questi risultati è stato conseguito? I pubblici bilanci sono al collasso, il debito è cresciuto a ritmi ignoti in precedenza, il Mezzogiorno è allo stremo, le amministrazioni pubbliche boccheggiano, il livello della moralità pubblica mai è stato così infimo. I soli risultati all’attivo sono la continuità – non la stabilità – dei governi e l’ingresso nell’euro.
Lasciamo perdere l’euro, fingendo che se non ci fosse staremmo molto peggio. E’ possibile, benché non certo. Ma la continuità governativa è stata un bluff. Strattonata da ogni parte l’azione di governo, vi è motivo di ritenere che i sopracitati disastri sono il prezzo pagato per la stabilità governativa. Oltre ai ricatti palesi, tocca ricordarlo, come quelli della Lega, ci sono infatti i ricatti occulti.
La stabilità governativa non è effetto solo di equilibri elettorali e parlamentari, ma di equilibri sociali ben più ampi. Le ribellioni rumorose di produttori di latte e tassisti, e quelle silenziose di notai e farmacisti, provano come i governi siamo ricattabili anche fuori dal parlamento. Già, perché in democrazia anche il governo più solido deve prima o poi affrontare la prova delle urne e in una società pluralistica – anzi iperpluralistica come quelle postmoderne – il sostegno elettorale si paga e si paga molto caro.
In verità, all’attivo del bipolarismo c’è pure lo smantellamento del welfare. Perché metterlo all’attivo? Perché era la posta più succulenta di molti fautori delle riforme istituzionali. Rendere la democrazia italiana “normale” significava normalizzarne le forme – sotto vesti bipolari – e adeguarla agli standard di governo delle democrazie occidentali: ossia applicare le ricette neoliberali e dare in testa allo Stato interventista. E questo è successo davvero. Tra svendite del patrimonio pubblico, terribili tagli a pensioni, sanità, istruzione, ecc e precarizzazione esasperata del lavoro, l’Italia è diventata un paese per ricchi. C’è anzi riuscita così bene che si è creata una forbice delle disuguaglianze unica tra i paesi occidentali. Questi, detti in breve, i brillanti risultati del bipolarismo.
C’è da domandarsi se il bipolarismo avrebbe potuto dare anche altri frutti. La domanda è difficile. Regole e istituzioni danno frutti diversi secondo i contesti e i tempi in cui sono applicate. Non esistono risposte generalmente valide. A guardarci però un poco intorno, di questi tempi, in maniera più o meno elegante, tutte le democrazie bipolari danno frutti simili. Per tanto tempo ci è stata additata a modello la Spagna. Che oggi sta malissimo. La Francia è in condizioni non dissimili dalle nostre e pure la Gran Bretagna se la passa molto male. Si salva la Germania, cui l’euro ha permesso di scaricare sui paesi vicini molte sue difficoltà. Ma se i paesi vicini non si risollevano dalla crisi, prima o poi toccherà pure ai tedeschi.
Viviamo tempi difficili in un mondo difficile. I regimi democratici occidentali sono tutti stretti in una micidiale tenaglia. Da un lato la concorrenza globale, dall’altro le urgenze elettorali, che assediano ogni classe politica. Il bipolarismo non è un rimedio, dato che anzi aggrava il vincolo elettorale. Chi perde le elezioni, perde tutto. Né è un rimedio il commissariamento, cui è stata sottoposta la Grecia e, dopotutto, anche l’Italia. I greci si stanno ribellando e rifiutano di trangugiare l’amarissima medicina che si vuol loro imporre. E infatti il governo cerca di ottenere il consenso di tutte le forze politiche, che però pensano al loro futuro elettorale. Dovranno tornare i colonnelli?
Nel mondo in cui viviamo, di alternative ne resta pertanto una sola: quella di suscitare una vasta ondata di consenso. Ma per riuscirci il risanamento – in Grecia e altrove – andrebbe molto graduato e socialmente distribuito, ovvero inteso in tutt’altro modo. E a questo fine né commissariamento né bipolarismo possono funzionare.
Eppure, incuranti dei danni che stiamo pagando, i nostri maggiori partiti insistono, dandoci dentro con la riforma elettorale e con quella delle istituzioni. Promettono di farci scegliere i nostri rappresentanti. Sarà l’ennesima presa in giro. Quando sarebbe l’occasione per dichiarare fallito il bipolarismo e decidersi a tornare indietro. Non ai tempi di Altissimo e Longo. Quel multipolarismo è largamente migliorabile. Si può evitare la frammentazione estrema, dettata unicamente da artificiose dispute della politica. Ma un multipartitismo controllato, in grado di promuovere un paziente e faticoso lavoro di sutura e persuasione tra forze politiche eterogenee e forze sociali non meno eterogenee è il solo rimedio ragionevole. Di qui si ricomincia, o saremo punto e daccapo. Anzi, andremo peggio. Errare è umano, perseverare è diabolico.
A fare i conti, dopo vent’anni, quale di questi risultati è stato conseguito? I pubblici bilanci sono al collasso, il debito è cresciuto a ritmi ignoti in precedenza, il Mezzogiorno è allo stremo, le amministrazioni pubbliche boccheggiano, il livello della moralità pubblica mai è stato così infimo. I soli risultati all’attivo sono la continuità – non la stabilità – dei governi e l’ingresso nell’euro.
Lasciamo perdere l’euro, fingendo che se non ci fosse staremmo molto peggio. E’ possibile, benché non certo. Ma la continuità governativa è stata un bluff. Strattonata da ogni parte l’azione di governo, vi è motivo di ritenere che i sopracitati disastri sono il prezzo pagato per la stabilità governativa. Oltre ai ricatti palesi, tocca ricordarlo, come quelli della Lega, ci sono infatti i ricatti occulti.
La stabilità governativa non è effetto solo di equilibri elettorali e parlamentari, ma di equilibri sociali ben più ampi. Le ribellioni rumorose di produttori di latte e tassisti, e quelle silenziose di notai e farmacisti, provano come i governi siamo ricattabili anche fuori dal parlamento. Già, perché in democrazia anche il governo più solido deve prima o poi affrontare la prova delle urne e in una società pluralistica – anzi iperpluralistica come quelle postmoderne – il sostegno elettorale si paga e si paga molto caro.
In verità, all’attivo del bipolarismo c’è pure lo smantellamento del welfare. Perché metterlo all’attivo? Perché era la posta più succulenta di molti fautori delle riforme istituzionali. Rendere la democrazia italiana “normale” significava normalizzarne le forme – sotto vesti bipolari – e adeguarla agli standard di governo delle democrazie occidentali: ossia applicare le ricette neoliberali e dare in testa allo Stato interventista. E questo è successo davvero. Tra svendite del patrimonio pubblico, terribili tagli a pensioni, sanità, istruzione, ecc e precarizzazione esasperata del lavoro, l’Italia è diventata un paese per ricchi. C’è anzi riuscita così bene che si è creata una forbice delle disuguaglianze unica tra i paesi occidentali. Questi, detti in breve, i brillanti risultati del bipolarismo.
C’è da domandarsi se il bipolarismo avrebbe potuto dare anche altri frutti. La domanda è difficile. Regole e istituzioni danno frutti diversi secondo i contesti e i tempi in cui sono applicate. Non esistono risposte generalmente valide. A guardarci però un poco intorno, di questi tempi, in maniera più o meno elegante, tutte le democrazie bipolari danno frutti simili. Per tanto tempo ci è stata additata a modello la Spagna. Che oggi sta malissimo. La Francia è in condizioni non dissimili dalle nostre e pure la Gran Bretagna se la passa molto male. Si salva la Germania, cui l’euro ha permesso di scaricare sui paesi vicini molte sue difficoltà. Ma se i paesi vicini non si risollevano dalla crisi, prima o poi toccherà pure ai tedeschi.
Viviamo tempi difficili in un mondo difficile. I regimi democratici occidentali sono tutti stretti in una micidiale tenaglia. Da un lato la concorrenza globale, dall’altro le urgenze elettorali, che assediano ogni classe politica. Il bipolarismo non è un rimedio, dato che anzi aggrava il vincolo elettorale. Chi perde le elezioni, perde tutto. Né è un rimedio il commissariamento, cui è stata sottoposta la Grecia e, dopotutto, anche l’Italia. I greci si stanno ribellando e rifiutano di trangugiare l’amarissima medicina che si vuol loro imporre. E infatti il governo cerca di ottenere il consenso di tutte le forze politiche, che però pensano al loro futuro elettorale. Dovranno tornare i colonnelli?
Nel mondo in cui viviamo, di alternative ne resta pertanto una sola: quella di suscitare una vasta ondata di consenso. Ma per riuscirci il risanamento – in Grecia e altrove – andrebbe molto graduato e socialmente distribuito, ovvero inteso in tutt’altro modo. E a questo fine né commissariamento né bipolarismo possono funzionare.
Eppure, incuranti dei danni che stiamo pagando, i nostri maggiori partiti insistono, dandoci dentro con la riforma elettorale e con quella delle istituzioni. Promettono di farci scegliere i nostri rappresentanti. Sarà l’ennesima presa in giro. Quando sarebbe l’occasione per dichiarare fallito il bipolarismo e decidersi a tornare indietro. Non ai tempi di Altissimo e Longo. Quel multipolarismo è largamente migliorabile. Si può evitare la frammentazione estrema, dettata unicamente da artificiose dispute della politica. Ma un multipartitismo controllato, in grado di promuovere un paziente e faticoso lavoro di sutura e persuasione tra forze politiche eterogenee e forze sociali non meno eterogenee è il solo rimedio ragionevole. Di qui si ricomincia, o saremo punto e daccapo. Anzi, andremo peggio. Errare è umano, perseverare è diabolico.
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