domenica 20 maggio 2012

Al di là della fine di Marco D'Eramo, Il Manifesto


Il conto alla rovescia per l’euro è già cominciato. E il summit del G8 aperto a Camp David ieri sera (ora italiana) ha pochissimi strumenti, a parte un’ostentata buona volontà, per evitare il collasso della moneta unica. Perché è chiaro: un’uscita della Grecia dall’euro innescherebbe una reazione a catena capace di smantellare tutta la costruzione valutaria. Non per nulla il premio Nobel per l’economia e columnist del New York Times , Paul Krugman, titolava ieri «L’apocalisse, ben presto». Né rassicuravano le voci circolate per tutta la giornata: un commissario diceva che tutto era pronto per un euro senza Grecia, mentre altri commissari smentivano; una stamperia londinese si diceva pronta a coniare dracme. Certo, la finanza internazionale si è premunita contro il crac greco. Ormai l’esposizione delle banche Usa nei confronti di Atene è scesa da 18 miliardi di dollari a fine 2009 a 5,8 miliardi di dollari (pur tuttavia una bella sommetta) a fine 2011. Mentre si calcola che l’uscita della Grecia costerebbe alla Germania pressappoco 100 miliardi di euro e alla Francia la metà (50 miliardi), cioè circa il 3 % del Prodotto interno lordo (Pil) di ciascun paese: grave, ma sopportabile. Il problema però non è tanto il costo immediato, quanto l’effetto a cascata. Bisogna considerare che i «mercati», cioè gli agenti di borsa, agiscono come mute di mastini, si comportano da predatori, e non perché siano feroci, ma perché – proprio come i leoni con le gazzelle -i profitti sono massimizzati attaccando le prede più deboli. Perciò per i mercati il crollo della Grecia ha un solo significato: che l’intera costruzione dell’euro è vulnerabile e quindi è possibile aggredire altri paesi. Il candidato più accreditato per il primo attacco dovrebbe essere la Spagna, visti i drammatici problemi del suo sistema creditizio, ma almeno in prima istanza, la Spagna è too big to fail (anche se per gli stati sovrani sembra che non ce ne sia proprio nessuno «troppo grande per essere lasciato fallire»).
Perciò, se la Grecia cadrà (ma ormai il problema è più del «quando» piuttosto che del «se»), il primo bersaglio della speculazione sarà il Portogallo, poi l’Irlanda. Lo spread dei titoli di stato portoghesi rispetto a quelli tedeschi (che ha toccato un massimo di 1.400 a gennaio), si aggira tuttora intorno a 750 punti e tende a salire. Sia Irlanda che Portogallo hanno un debito alto (118% del Pil l’una, 113% l’altro). E tutti e due sono attaccabili dalla speculazione. Basterebbe un’offensiva di pochi miliardi di euro per far uscire Lisbona dall’euro. E a quel punto non ci sarebbe più diga che tenga. La Spagna si troverebbe in prima fila, seguita a ruota dall’Italia. Ma in questo caso ha ragione Krugman a evocare l’apocalisse, perché la tempesta non si fermerebbe all’Europa. Investirebbe anche gli Stati uniti: i fondi d’investimento Usa detengono ancora 205 miliardi di dollari di debiti sovrani in euro. La prima vittima collaterale di questa nuova crisi sarebbe Barack Obama che potrebbe dire addio alla propria rielezione. Di fronte a questo scenario, cosa può fare il G8? Qui non è più questione di chiedere alla cancelliera tedesca Angela Merkel di ammorbidire la sua linea dura sull’austerità o di sganciare qualche spicciolo per favorire un po’ la crescita. Forse sarebbe bastato un anno fa. Ora simili misure sono pateticamente insufficienti. Serve una decisa inversione di rotta. Anzi, come dice l’ Economist , elencare quel che serve «somiglia a una barzelletta sui vari paesi»; dovrebbero la Francia cedere un po’ della propria sovranità, la Germania smettere di essere rigida e l’Italia adottare una trasparenza di bilancio. Servirebbe un New Deal per tutta l’Europa, o un nuovo Piano Marshall per l’Europa del sud. Ma non si vede chi e come potrebbe illuminare la Merkel sulla via di Camp David come lo fu Paolo su quella di Damasco: per valutare l’atmosfera tedesca, basti pensare che ieri né la Frankfurter Allgemeine , né la Süddeutsche Zeitung avevano un titolo sul vertice G8 nella prima pagina dei loro siti. Possiamo perciò ragionevolmente scommettere che da Camp David uscirà una promessa di «crescita e rigore», abbastanza vaga da gettarci tutti nel panico.

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