Di questi tempi in rapida mutazione, per molti protagonisti del dibattito pubblico nazionale c’è il rischio di ritrovarsi a cavalcioni sul baratro: una gamba di qua, l’altra di là.
Sicché, assistiamo ai primi riposizionamenti strategici; molti altri si possono prevedere.
Sicché, assistiamo ai primi riposizionamenti strategici; molti altri si possono prevedere.
Incrollabili
guardiani del primato partitico ora scoprono che il grillismo – magari
proprio perché dato in crescita elettorale – non è più “antipolitica”.
Lapalissiano: antipoliticità è sputtanare la politica, non pretenderne
una meno abietta (ferma restando la discussione sul come questa istanza
vada promossa effettivamente, senza svicolare nella pura testimonianza o
– peggio – nei narcisismi da “angelo vendicatore”).
Commentatori
che hanno campato decenni raccontando la scena berlusconizzata nei
facili toni del truculento e del pecoreccio, ora si trovano in panne cromatica
davanti alla quotidianità montizzata sull’intera gamma del grigio.
Qualcuno cerca ancora il drago da infilzare con la lancia miracolosa di
San Giorgio, quando ormai il Palazzo, nella sua nuova tattica mimetica,
tende a giocare come il Barcellona di Guardiola: offrire il meno
possibile punti di riferimento (e solo madamin Fornero risulta in grave
ritardo nell’apprendere i nuovi schemi di squadra).
Particolarmente significativo è il caso del più noto opinionista di quel Corriere della Sera dotato di vibrisse ipersensibili a ogni stormir di fronda in casa del Potere: Ernesto Galli della Loggia,
un vero flipper nell’arte di prendere posizione. Nel 1976 fa l’apologia
di “quel sottilissimo strato di borghesia nazionale rimasto vicino a un
modello ideale di tipo europeo che si era dissociato dal fascismo e
l’aveva combattuto”, i cui maestri – tra gli altri – erano Gobetti e
Salvemini; i suoi partiti Giustizia e Libertà, il Partito d’Azione. Nel
1993 cambia radicalmente parere: il nemico diventa l’ideologia italiana
di Gobetti e soci, con le loro pretese di “rigenerazione etica” della
politica. Nel 1994 stronca Berlusconi quale “monopolista per meriti
craxiani della televisione commerciale”, ma subito dopo (e negli anni a
venire) si spende sottobanco nel produrre il migliore marchingegno
argomentativo per gli imbrogli propagandistici del Cavaliere: la
denuncia dell’idea “manichea” delle due Italie (da una parte quella
“colta e illuminata” che odierebbe l’altra, quella “semplice e
popolare”) su cui si è fondata la teoria del “partito dell’amore” al
servizio dei maneggi berlusconiani.
Ora scopre che Berlusconi è
stato un pessimo politico, abile solo nell’acchiappare voti con messaggi
plebiscitari (tipo “noi amiamo”). Coming out apparso sull’ultimo numero
della rivista Il Mulino, normalizzata dalla nuova direzione di
Michele Salvati (uno della banda dei miglioristi ex comunisti
scatenati, già al tempo di Cofferati, contro la CGIL che difendeva lo
Statuto dei lavoratori); il quale sta richiamando in servizio attivo
nell’autorevole testata bolognese i migliori fichi del bigoncio del
cerchiobottismo targato Corriere della Sera.
Prepariamoci a vedere questi già “berlusconiani di complemento” sfilare alle parate in onore della restaurazione post-berlusconiana
inveendo contro l’ex unto del signore di Arcore. Pronti a dare il loro
prezioso contributo affinché il “dopo” sia l’esatta prosecuzione del
“prima”: un’immensa prateria in cui riposizionarsi a piacere. E con il
massimo della faccia tosta.
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