Ci siamo illusi che la società potesse vivere senza la fatica e le pene del conflitto, che la coesione sociale e la democrazia potessero essere il frutto della pacifica convivenza fra egoismi. La democrazia desertificata che abbiamo di fronte ci dice che non è così. Il conflitto sociale è la linfa della democrazia e anche il costo che dobbiamo pagare perché essa viva.
Il Conflitto Novecentesco
Il novecento è stato un secolo di grandi conflitti sociali che hanno segnato gli andamenti della politica e il divenire della società giungendo a condizionare anche il contesto economico. Si è trattato a lungo di conflitti che avevano come scenario privilegiato, se non unico, il mondo del lavoro e come teatro la fabbrica, in particolare la grande fabbrica in cui si è consumata l’era della produzione di massa e si è affermato il mito del fordismo. Le condizioni di lavoro, la remunerazione del lavoro, talora i rapporti di potere, erano la posta in gioco. La sospensione del lavoro era lo strumento, l’arma, con cui questi conflitti venivano combattuti. Il conflitto in fabbrica era nel contempo causa ed effetto di un processo di socializzazione che aveva al centro il processo lavorativo e le esperienze di condivisione e di riconoscimento che in esso si generavano. Si può forse parlare, in questo senso, di una vera e propria antropologia fordista, di un uomo forgiato dentro il crogiolo di un’esperienza collettiva assorbente e totalizzante perché fortemente congiunta con la speranza di un cambiamento radicale dei rapporti sociali e delle condizioni di vita.
Quei conflitti, che avevano nella grande fabbrica la loro matrice sociale e il luogo eletto della loro elaborazione e manifestazione, hanno plasmato la società del novecento, ne hanno condizionato l’evoluzione, ne hanno segnato la cultura.
Il novecento è stato un secolo di grandi conflitti sociali che hanno segnato gli andamenti della politica e il divenire della società giungendo a condizionare anche il contesto economico. Si è trattato a lungo di conflitti che avevano come scenario privilegiato, se non unico, il mondo del lavoro e come teatro la fabbrica, in particolare la grande fabbrica in cui si è consumata l’era della produzione di massa e si è affermato il mito del fordismo. Le condizioni di lavoro, la remunerazione del lavoro, talora i rapporti di potere, erano la posta in gioco. La sospensione del lavoro era lo strumento, l’arma, con cui questi conflitti venivano combattuti. Il conflitto in fabbrica era nel contempo causa ed effetto di un processo di socializzazione che aveva al centro il processo lavorativo e le esperienze di condivisione e di riconoscimento che in esso si generavano. Si può forse parlare, in questo senso, di una vera e propria antropologia fordista, di un uomo forgiato dentro il crogiolo di un’esperienza collettiva assorbente e totalizzante perché fortemente congiunta con la speranza di un cambiamento radicale dei rapporti sociali e delle condizioni di vita.
Quei conflitti, che avevano nella grande fabbrica la loro matrice sociale e il luogo eletto della loro elaborazione e manifestazione, hanno plasmato la società del novecento, ne hanno condizionato l’evoluzione, ne hanno segnato la cultura.
La politica che ancora oggi abbiamo di fronte e che si sta faticosamente tentando di superare è figlia, in gran parte, di quella stagione, di quei problemi, di quella configurazione sociale. Occorre prendere atto che quella stagione si è definitivamente conclusa, anche se continua a vivere nella memoria delle persone che l’hanno vissuta e ancora alimenta l’immaginario di forze politiche che da tempo hanno smesso di elaborare il loro rapporto con la realtà. Con quella stagione è morto anche il conflitto sociale, quella forma di conflitto che ne aveva costituito la forza propulsiva e la dannazione. Il conflitto si è ridotto a sporadico atto di protesta, per quanto ampio, al di fuori di ogni prospettiva di cambiamento e privo di una significativa base organizzativa. Le grandi mobilitazioni “no global”, il movimento “Occupy Wall Street” e quelli che lo hanno imitato in varie parti del mondo, gli indignados, si sono esaurite quasi senza lasciare traccia, certo senza raggiungere stabilmente nessuno degli obiettivi per cui erano nati. La sensazione diffusa che il “sistema” non sia scalfibile si è rafforzata, il senso di impotenza degli individui si è intensificato.
Una società senza conflitto?
Nella lunga deriva post-fordista, che ha ridisegnato il panorama sociale, il conflitto si è lentamente ritratto dalla scena fino a scomparire come fenomeno preminente della dinamica sociale. Si è diffusa l’illusione che il conflitto sociale, come l’abbiamo vissuto nella lunga deriva novecentesca sulla scia delle grandi organizzazioni di massa, fosse stato definitivamente espunto dal metabolismo sociale. Si è pensato, per un lungo istante storico, che le leggi del cambiamento sociale fossero mutate e che esso tendesse ora a essere il frutto di variazioni incrementali, tutt’al più di micro conflitti, perché erano venute meno le grandi aggregazioni cementate dall’ideologia e gli individui si ritrovavano soli con le loro scelte di vita. Si era esaurita, per un complesso di ragioni non facili da analizzare ma che si possono individuare, la capacità di attrazione e di mobilitazione della dimensione collettiva e con essa si era spenta la fiducia nella possibilità di poter modificare collettivamente la realtà sociale secondo un disegno condiviso. In particolare, si erano rivelati irraggiungibili e talora ingannevoli gli obiettivi di cambiamento sociale che la mobilitazione collettiva di ingenti masse di lavoratori si era proposta nell’ambito di una visione socialista dell’assetto sociale. Più in profondità, dentro quei sommovimenti che determinano le derive della lunga durata, si stava sfaldando il sistema della produzione di massa che era stato l’essenza del fordismo. Non teneva più da un punto di vista economico ed era diventato insostenibile socialmente e politicamente agli occhi degli esponenti del capitalismo mondiale proprio per la forza e la coesione che aveva attribuito alle masse lavoratrici raccolte nelle grandi fabbriche. Con esso cominciava a dissolversi quel grande aggregato sociale che andava sotto il nome di “classe operaia”, attraverso cui milioni di lavoratori, in primo luogo, avevano fatto la loro comparsa sulla scena politica acquisendo un’identità, una cultura, un’ideologia, una forza organizzativa e una capacità d’iniziativa che erano storicamente sconosciute alle classi inferiori. Era libero il campo perché potesse rispuntare e diffondersi il mito antico della “società senza classi”, ovvero di una società senza conflitto, in cui non esistono divisioni e contrapposizioni in grado di metterne in discussione la coesione.
Parallelamente, si stava imponendo, a partire dalla fine degli anni settanta, quella revanche del fronte capitalistico-liberale che avrebbe preso le forme del neo-liberismo e si sarebbe concretizzata nei governi di Reagan e della Thatcher. Una strategia intelligente, maturata nell’ambito dell’oligarchia economica e finanziaria globale e da essa fortemente sostenuta, aveva puntato fin dai tempi del New Deal rooseveltiano, ma con crescente intensità a partire dai primissimi anni del secondo dopoguerra, a porre le basi di un’egemonia culturale che avrebbe dovuto estirpare dal corpo delle società occidentali il germe del collettivismo, che veniva sbrigativamente identificato con il regime comunista dell’Unione sovietica. Verso la fine del secolo scorso, un sociologo acuto come Pierre Bourdieu era giunto alla conclusione che il neoliberalismo imperante non era altro che la copertura di un “immenso lavoro politico” all’insegna di un programma di distruzione sistematica di tutti gli spazi e gli organismi collettivi che si erano formati nella società (Le Monde diplomatique, marzo 1998).
La conseguenza di questa poderosa offensiva culturale, di cui la cultura progressista ha colpevolmente tardato a prendere coscienza, fu l’affermazione di quell’individualismo “mascalzone”, come mi piace definirlo, che è un’inquietante caricatura di dell’individualismo consapevole che è all’origine del liberalismo classico. L’incapacità, in tutto l’occidente, dei partiti tradizionali di comprendere e di affrontare questa metamorfosi ha fatto il resto.
Nella lunga deriva post-fordista, che ha ridisegnato il panorama sociale, il conflitto si è lentamente ritratto dalla scena fino a scomparire come fenomeno preminente della dinamica sociale. Si è diffusa l’illusione che il conflitto sociale, come l’abbiamo vissuto nella lunga deriva novecentesca sulla scia delle grandi organizzazioni di massa, fosse stato definitivamente espunto dal metabolismo sociale. Si è pensato, per un lungo istante storico, che le leggi del cambiamento sociale fossero mutate e che esso tendesse ora a essere il frutto di variazioni incrementali, tutt’al più di micro conflitti, perché erano venute meno le grandi aggregazioni cementate dall’ideologia e gli individui si ritrovavano soli con le loro scelte di vita. Si era esaurita, per un complesso di ragioni non facili da analizzare ma che si possono individuare, la capacità di attrazione e di mobilitazione della dimensione collettiva e con essa si era spenta la fiducia nella possibilità di poter modificare collettivamente la realtà sociale secondo un disegno condiviso. In particolare, si erano rivelati irraggiungibili e talora ingannevoli gli obiettivi di cambiamento sociale che la mobilitazione collettiva di ingenti masse di lavoratori si era proposta nell’ambito di una visione socialista dell’assetto sociale. Più in profondità, dentro quei sommovimenti che determinano le derive della lunga durata, si stava sfaldando il sistema della produzione di massa che era stato l’essenza del fordismo. Non teneva più da un punto di vista economico ed era diventato insostenibile socialmente e politicamente agli occhi degli esponenti del capitalismo mondiale proprio per la forza e la coesione che aveva attribuito alle masse lavoratrici raccolte nelle grandi fabbriche. Con esso cominciava a dissolversi quel grande aggregato sociale che andava sotto il nome di “classe operaia”, attraverso cui milioni di lavoratori, in primo luogo, avevano fatto la loro comparsa sulla scena politica acquisendo un’identità, una cultura, un’ideologia, una forza organizzativa e una capacità d’iniziativa che erano storicamente sconosciute alle classi inferiori. Era libero il campo perché potesse rispuntare e diffondersi il mito antico della “società senza classi”, ovvero di una società senza conflitto, in cui non esistono divisioni e contrapposizioni in grado di metterne in discussione la coesione.
Parallelamente, si stava imponendo, a partire dalla fine degli anni settanta, quella revanche del fronte capitalistico-liberale che avrebbe preso le forme del neo-liberismo e si sarebbe concretizzata nei governi di Reagan e della Thatcher. Una strategia intelligente, maturata nell’ambito dell’oligarchia economica e finanziaria globale e da essa fortemente sostenuta, aveva puntato fin dai tempi del New Deal rooseveltiano, ma con crescente intensità a partire dai primissimi anni del secondo dopoguerra, a porre le basi di un’egemonia culturale che avrebbe dovuto estirpare dal corpo delle società occidentali il germe del collettivismo, che veniva sbrigativamente identificato con il regime comunista dell’Unione sovietica. Verso la fine del secolo scorso, un sociologo acuto come Pierre Bourdieu era giunto alla conclusione che il neoliberalismo imperante non era altro che la copertura di un “immenso lavoro politico” all’insegna di un programma di distruzione sistematica di tutti gli spazi e gli organismi collettivi che si erano formati nella società (Le Monde diplomatique, marzo 1998).
La conseguenza di questa poderosa offensiva culturale, di cui la cultura progressista ha colpevolmente tardato a prendere coscienza, fu l’affermazione di quell’individualismo “mascalzone”, come mi piace definirlo, che è un’inquietante caricatura di dell’individualismo consapevole che è all’origine del liberalismo classico. L’incapacità, in tutto l’occidente, dei partiti tradizionali di comprendere e di affrontare questa metamorfosi ha fatto il resto.
C’è ancora bisogno del conflitto?
Il conflitto è il portato inevitabile di una società caratterizzata da un grado elevato di disuguaglianza, ma fa anche parte del normale metabolismo sociale, attraverso cui la società nel suo insieme trova di volta in volta i propri equilibri transitori. In una democrazia sana il conflitto è addirittura istituzionalizzato attraverso la costituzione di specifici organismi (associazioni, sindacati, partiti) cui è affidata la rappresentanza degli interessi sezionali e che agiscono e si confrontano attraverso una pluralità di procedure. Ciò non toglie che vi possano essere anche conflitti non istituzionalizzati, sia nel senso che si fanno portatori di interessi ancora non rappresentanti oppure di interessi che non trovano o non possono trovare accoglienza nell’ordine sociale esistente. Il conflitto non istituzionalizzato è, nel contempo, una valvola di sfogo e un indicatore di problemi e contraddizioni sociali che la politica del momento non è in grado di interpretare e di risolvere, almeno parzialmente. Un regime democratico rappresentativo, che dovrà sempre fare i conti con le imperfezioni di un sistema della rappresentanza che non potrà mai dare voce a tutte le istanze che si fanno strada nella società sia a livello individuale che collettivo e che, tanto meno, potrà dare piena soddisfazione a tali istanze, non può fare a meno di tutte le forme del conflitto, anche di quelle apparentemente più insidiose e ostiche da accettare.
Oggi c’è un bisogno impellente, quasi fisico, di conflitto. Lo avvertono in molti, in molti ne sentono l’esigenza rigeneratrice, ma pochi lo dicono esplicitamente e ancora meno sono quelli che tentano di praticarlo in forma collettiva, in vista di un fine. La democrazia ne ha un bisogno disperato, perché il sistema della rappresentanza ha perso la capacità di leggere le dinamiche sociali, di riconoscere i soggetti nuovi che che invadono la scena sociale e, tanto meno, di comprendere e soddisfare i bisogni di cui sono portatori. Le energie nuove che perennemente si riproducono e premono per cambiamenti che diano spazio a nuove forme di vita e di convivenza appassiscono e la società si sclerotizza, perde la sua capacità inclusiva. Il nesso sociale si dissolve.
Il conflitto, tuttavia, non si inventa, non si crea in laboratorio. È un evento sociale che si produce a seguito della convergenza di una molteplicità di comportamenti dietro i quali possono esservi motivazioni anche molto diverse. Gli ingredienti essenziali e necessari sono almeno tre: la percezione di una condizione vissuta come insopportabile, la convinzione che solo l’azione collettiva può avere successo nel cambiarla e la decisione di provare a farlo scontrandosi con quelli che sono visti come i tutori e i difensori dello status quo, i nemici del cambiamento, di tutto ciò che appare suscettibile di mettere in discussione gli assetti di potere e la distribuzione dei privilegi esistenti. Ci deve essere, da qualche parte, anche la volontà di affermare la propria autonomia nei confronti di qualsiasi potere dominante, costi quel che costi.
Il conflitto è il portato inevitabile di una società caratterizzata da un grado elevato di disuguaglianza, ma fa anche parte del normale metabolismo sociale, attraverso cui la società nel suo insieme trova di volta in volta i propri equilibri transitori. In una democrazia sana il conflitto è addirittura istituzionalizzato attraverso la costituzione di specifici organismi (associazioni, sindacati, partiti) cui è affidata la rappresentanza degli interessi sezionali e che agiscono e si confrontano attraverso una pluralità di procedure. Ciò non toglie che vi possano essere anche conflitti non istituzionalizzati, sia nel senso che si fanno portatori di interessi ancora non rappresentanti oppure di interessi che non trovano o non possono trovare accoglienza nell’ordine sociale esistente. Il conflitto non istituzionalizzato è, nel contempo, una valvola di sfogo e un indicatore di problemi e contraddizioni sociali che la politica del momento non è in grado di interpretare e di risolvere, almeno parzialmente. Un regime democratico rappresentativo, che dovrà sempre fare i conti con le imperfezioni di un sistema della rappresentanza che non potrà mai dare voce a tutte le istanze che si fanno strada nella società sia a livello individuale che collettivo e che, tanto meno, potrà dare piena soddisfazione a tali istanze, non può fare a meno di tutte le forme del conflitto, anche di quelle apparentemente più insidiose e ostiche da accettare.
Oggi c’è un bisogno impellente, quasi fisico, di conflitto. Lo avvertono in molti, in molti ne sentono l’esigenza rigeneratrice, ma pochi lo dicono esplicitamente e ancora meno sono quelli che tentano di praticarlo in forma collettiva, in vista di un fine. La democrazia ne ha un bisogno disperato, perché il sistema della rappresentanza ha perso la capacità di leggere le dinamiche sociali, di riconoscere i soggetti nuovi che che invadono la scena sociale e, tanto meno, di comprendere e soddisfare i bisogni di cui sono portatori. Le energie nuove che perennemente si riproducono e premono per cambiamenti che diano spazio a nuove forme di vita e di convivenza appassiscono e la società si sclerotizza, perde la sua capacità inclusiva. Il nesso sociale si dissolve.
Il conflitto, tuttavia, non si inventa, non si crea in laboratorio. È un evento sociale che si produce a seguito della convergenza di una molteplicità di comportamenti dietro i quali possono esservi motivazioni anche molto diverse. Gli ingredienti essenziali e necessari sono almeno tre: la percezione di una condizione vissuta come insopportabile, la convinzione che solo l’azione collettiva può avere successo nel cambiarla e la decisione di provare a farlo scontrandosi con quelli che sono visti come i tutori e i difensori dello status quo, i nemici del cambiamento, di tutto ciò che appare suscettibile di mettere in discussione gli assetti di potere e la distribuzione dei privilegi esistenti. Ci deve essere, da qualche parte, anche la volontà di affermare la propria autonomia nei confronti di qualsiasi potere dominante, costi quel che costi.
Composizione sociale
Il trentennio che è sfociato nella crisi globale, prima finanziaria e poi economica, ha profondamente trasformato la composizione delle nostre società sia nei suoi aspetti soggettivi, “culturali”, sia in quelli oggettivi, “strutturali”. Ha cambiato in profondità le basi economiche della riproduzione sociale, che in passato avevano rappresentato la matrice della fondamentale strutturazione della società. E ha cambiato, in maniera altrettanto profonda e radicale, le basi culturali sotto l’influenza delle quali gli individui costruiscono il loro progetto di vita, il loro modo di stare nella società. Ne è risultata una grande frammentazione, oggettiva e soggettiva, della società, gli individui si sono ritrovati confinati nella loro monade e poco a poco hanno perso la capacità e il desiderio di uscire da se stessi e riconoscersi in un destino collettivo.
“Perché i poveri non danno l’assalto alle barricate?” titolava l’Economist del 24 gennaio scorso, riprendendo un articolo di Matt Miller sul Washington Post del 15 gennaio sugli “Enigmi della disuguaglianza”, il quale, a sua volta, si rifaceva a una ricerca del Cato Institute di quattro anni prima. La risposta è che i membri della underclass non avvertirebbero la disuguaglianza come intollerabile perché vittime di una sorta di illusione ottica generata dal miglioramento dello standard di vita in termini di beni consumati e di accesso ai beni pubblici. L’accresciuta possibilità di accedere a beni, come i beni di consumo durevoli, che un tempo erano accessibili solo ai ceti più abbienti genererebbe l’illusione che il divario fra gli stili di consumo si stia riducendo, offuscando la percezione dell’abisso che si è scavato fra il reddito e la ricchezza di cui godono i più ricchi e quelli che sono nelle mani dei più poveri, con il crescente appiattimento verso il basso delle condizioni di vita.
Non è così semplice, anche se in questa osservazione c’è una parte di verità. Il punto centrale, tuttavia, sta probabilmente altrove, in un cambiamento del clima sociale che si è prodotto nel trentennio del neo-liberalismo trionfante e che ha due facce principali. Da un lato, dopo i grandi e tragici esperimenti sociali, economici e politici del secolo breve, si è perduta di fiducia nella possibilità di cambiare l’ordine sociale in direzione di una più equa (egualitaria) distribuzione del reddito, della ricchezza e, conseguentemente, del potere. La formazione di aggregazioni gigantesche di ricchezza e di potere, per di più, ha spostato il luogo dello scontro sociale in un altrove che non si riesce più a vedere concretamente. Dall’altro lato, c’è il cedimento, non di rado inconsapevole, all’ideologia dell’individualismo “mascalzone”, secondo la quale, come affermò perentoriamente la Thatcher, il sociale non esiste (There is no such thing as society, Intervista a “Woman’s Own”, sett. 1987); esistono solo gli individui e i problemi li affrontano e li risolvono, se ne sono capaci, gli individui. Il resto è silenzio, come avrebbe detto un poeta connazionale della “lady di ferro” (Amleto: Atto V, scena II). Dall’antropologia sociale del nostro tempo è stata così estirpata la dimensione sociale, l’inclinazione a ricercare soluzioni collettive ai problemi che di volta in volta ci troviamo a condividere nel divenire della società. Si è così celebrato il trionfo dell’iniziativa individuale, dell’individuo “imprenditore di se stesso”, avulso da un contesto di relazioni sociali e poco incline alla cooperazione, e, dunque, abbandonato a un solipsismo che non ha tardato a dimostrarsi come l’anticamera della disperazione e della depressione.
Il bandolo della matassa, se si vuole ritrovare la via di azioni collettive per tentare di porre rimedio alle situazioni di sofferenza e, più in generale, alle disuguaglianze e alle disparità esorbitanti che le pulsioni presenti nella società sono suscettibili di produrre, sta probabilmente qui. Bisogna ricostruire il gene dell’agire collettivo, con tutti gli elementi che lo compongono e lo producono: la condivisione, la cooperazione, la solidarietà. E lo si può fare solo a piccoli passi, in una prospettiva di lungo periodo, evitando le infatuazioni collettivistiche che hanno potentemente contribuito all’estirpazione di quel gene. Lo si può fare se le persone riescono a ritrovare la convinzione che prendere la parola, agire in prima persona all’interno di strutture collettive, può produrre mutamenti sociali rilevanti. Lo si può e, forse, lo si deve fare a partire da interessi circoscritti, da ambiti, anche territoriali, limitati, da gruppi di persone sospinte da moventi diversi, ma con la piena consapevolezza che solo se questi tentativi si riempiono di una voglia di futuro condiviso, se ambiscono a comporre una visione, possono produrre quella massa critica che è necessaria per dare un nuovo senso al cammino dell’umanità. Lo si può fare se non ci si ritrae di fronte alla prospettiva di contrastare con tutti mezzi democraticamente leciti lo strapotere di chi comanda. Lo si può fare se si esce dall’ottica “localistica” che è prevalsa nell’agire politico e si torna a pensare in grande, alla possibilità e alle condizioni di un ordine sociale diverso e più equo. Il cambiamento è sempre e necessariamente una questione che investe la responsabilità dell’individuo e la sua voglia di essere protagonista attivo, ma senza una visione collettiva, capace di immaginare e desiderare un futuro diverso, non si mettono in moto quelle dinamiche vaste e profonde che determinano l’evoluzione della società.
Il trentennio che è sfociato nella crisi globale, prima finanziaria e poi economica, ha profondamente trasformato la composizione delle nostre società sia nei suoi aspetti soggettivi, “culturali”, sia in quelli oggettivi, “strutturali”. Ha cambiato in profondità le basi economiche della riproduzione sociale, che in passato avevano rappresentato la matrice della fondamentale strutturazione della società. E ha cambiato, in maniera altrettanto profonda e radicale, le basi culturali sotto l’influenza delle quali gli individui costruiscono il loro progetto di vita, il loro modo di stare nella società. Ne è risultata una grande frammentazione, oggettiva e soggettiva, della società, gli individui si sono ritrovati confinati nella loro monade e poco a poco hanno perso la capacità e il desiderio di uscire da se stessi e riconoscersi in un destino collettivo.
“Perché i poveri non danno l’assalto alle barricate?” titolava l’Economist del 24 gennaio scorso, riprendendo un articolo di Matt Miller sul Washington Post del 15 gennaio sugli “Enigmi della disuguaglianza”, il quale, a sua volta, si rifaceva a una ricerca del Cato Institute di quattro anni prima. La risposta è che i membri della underclass non avvertirebbero la disuguaglianza come intollerabile perché vittime di una sorta di illusione ottica generata dal miglioramento dello standard di vita in termini di beni consumati e di accesso ai beni pubblici. L’accresciuta possibilità di accedere a beni, come i beni di consumo durevoli, che un tempo erano accessibili solo ai ceti più abbienti genererebbe l’illusione che il divario fra gli stili di consumo si stia riducendo, offuscando la percezione dell’abisso che si è scavato fra il reddito e la ricchezza di cui godono i più ricchi e quelli che sono nelle mani dei più poveri, con il crescente appiattimento verso il basso delle condizioni di vita.
Non è così semplice, anche se in questa osservazione c’è una parte di verità. Il punto centrale, tuttavia, sta probabilmente altrove, in un cambiamento del clima sociale che si è prodotto nel trentennio del neo-liberalismo trionfante e che ha due facce principali. Da un lato, dopo i grandi e tragici esperimenti sociali, economici e politici del secolo breve, si è perduta di fiducia nella possibilità di cambiare l’ordine sociale in direzione di una più equa (egualitaria) distribuzione del reddito, della ricchezza e, conseguentemente, del potere. La formazione di aggregazioni gigantesche di ricchezza e di potere, per di più, ha spostato il luogo dello scontro sociale in un altrove che non si riesce più a vedere concretamente. Dall’altro lato, c’è il cedimento, non di rado inconsapevole, all’ideologia dell’individualismo “mascalzone”, secondo la quale, come affermò perentoriamente la Thatcher, il sociale non esiste (There is no such thing as society, Intervista a “Woman’s Own”, sett. 1987); esistono solo gli individui e i problemi li affrontano e li risolvono, se ne sono capaci, gli individui. Il resto è silenzio, come avrebbe detto un poeta connazionale della “lady di ferro” (Amleto: Atto V, scena II). Dall’antropologia sociale del nostro tempo è stata così estirpata la dimensione sociale, l’inclinazione a ricercare soluzioni collettive ai problemi che di volta in volta ci troviamo a condividere nel divenire della società. Si è così celebrato il trionfo dell’iniziativa individuale, dell’individuo “imprenditore di se stesso”, avulso da un contesto di relazioni sociali e poco incline alla cooperazione, e, dunque, abbandonato a un solipsismo che non ha tardato a dimostrarsi come l’anticamera della disperazione e della depressione.
Il bandolo della matassa, se si vuole ritrovare la via di azioni collettive per tentare di porre rimedio alle situazioni di sofferenza e, più in generale, alle disuguaglianze e alle disparità esorbitanti che le pulsioni presenti nella società sono suscettibili di produrre, sta probabilmente qui. Bisogna ricostruire il gene dell’agire collettivo, con tutti gli elementi che lo compongono e lo producono: la condivisione, la cooperazione, la solidarietà. E lo si può fare solo a piccoli passi, in una prospettiva di lungo periodo, evitando le infatuazioni collettivistiche che hanno potentemente contribuito all’estirpazione di quel gene. Lo si può fare se le persone riescono a ritrovare la convinzione che prendere la parola, agire in prima persona all’interno di strutture collettive, può produrre mutamenti sociali rilevanti. Lo si può e, forse, lo si deve fare a partire da interessi circoscritti, da ambiti, anche territoriali, limitati, da gruppi di persone sospinte da moventi diversi, ma con la piena consapevolezza che solo se questi tentativi si riempiono di una voglia di futuro condiviso, se ambiscono a comporre una visione, possono produrre quella massa critica che è necessaria per dare un nuovo senso al cammino dell’umanità. Lo si può fare se non ci si ritrae di fronte alla prospettiva di contrastare con tutti mezzi democraticamente leciti lo strapotere di chi comanda. Lo si può fare se si esce dall’ottica “localistica” che è prevalsa nell’agire politico e si torna a pensare in grande, alla possibilità e alle condizioni di un ordine sociale diverso e più equo. Il cambiamento è sempre e necessariamente una questione che investe la responsabilità dell’individuo e la sua voglia di essere protagonista attivo, ma senza una visione collettiva, capace di immaginare e desiderare un futuro diverso, non si mettono in moto quelle dinamiche vaste e profonde che determinano l’evoluzione della società.
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