Nel corso del fine settimana appena passato abbiamo
registrato almeno tre importanti avvenimenti politici, collegati con il
processo di riallineamento ormai in atto da diverso tempo nell’area del
centrosinistra e della sinistra.
Naturalmente questi fatti, che cercherò di analizzare, si
inquadrano all’interno di una situazione generale che è sempre bene rammentare:
la crisi economico – finanziaria si rivela di giorno, in giorno più grave e le
cifre della disoccupazione, della cassa integrazione, dello strangolamento di
piccole aziende sta portando vasti settori sociali non solo in una condizione
materiale molto difficile, ma addirittura al limite della disperazione come
testimoniano i tanti suicidi cui quotidianamente stiamo assistendo impotenti; il
ceto politico – rinserrato nelle trattative per la presidenza della Repubblica
e la formazione del governo- non riesce assolutamente a fornire un minimo di
risposta a questo stato di cose mentre sta ulteriormente disgregandosi ogni
possibilità di compiuta espressione democratica; emergono dalla società
terribili contraddizioni, come nel caso dell’esito del referendum di Taranto;
si muovono populismi e revanscismi vecchi e nuovi, alimentati anche da
un’Europa che strangola a cominciare dai cittadini di Cipro e della Grecia, e
tollera benevolmente il fascismo ungherese.
Ho tracciato questo quadro, assolutamente drammatico,
proprio perché mentre ci esercitiamo nell’analisi – giusta e necessaria – della
dinamica tra le forze politiche non ci si dimentichi della realtà dentro la
quale viviamo e si muove, comunque, il quadro politico.
Andiamo comunque per ordine, limitando il raggio d’azione
alla realtà del centrosinistra e della sinistra in Italia.
Gli avvenimenti da prendere in considerazione, in questo caso,
sono tre: la presentazione, da parte del ministro Barca, di un documento
programmatico attraverso il quale egli intende proporre al PD di spostare il
proprio asse a sinistra per formare un vero e proprio “partito del lavoro”;
l’avvio pressoché formale da parte di SeL del processo (del resto facilmente
prevedibile da tempo) di confluenza nel PD, l’assemblea nazionale di ALBA
svoltasi a Firenze.
E’ evidente che i primi due fatti sono strettamente connessi
tra di loro, nell’ottica – appunto – di spostare i riferimenti su cui il PD era
nato (l’incontro tra due diverse culture riformiste, l’una frutto dell’evoluzione
del PCI, l’altra della corrente cattolica che aveva dato vita alla sinistra DC:
quindi due soggetti fortemente inseriti nella storia politica dell’Italia al
tempo della proporzionale).
Quell’incontro, che si era cercato di trasformare in un
partito “pigliatutti” non personalistico a “vocazione maggioritaria” non è
riuscito, limitandosi a costituire quella che è stata definita “una fusione a
freddo” e sta dimostrando tutti i propri limiti sia nella capacità di
aggregazione del consenso, sia nell’espressione di contenuti provvisti di una
qualche capacità di incidenza sulla crisi, sia nella costruzione di un nuovo
quadro dirigente all’altezza delle contraddizioni sociali del paese:
costruzione del gruppo dirigente demandato alla forma di “individualismo
competitivo” da esercitarsi nelle primarie. Un partito, insomma, legato mani e
piedi al concetto di governabilità comunque, sia in sede locale, sia in sede
nazionale (come è stato, del resto, ben dimostrato nel sostegno praticamente
acritico fornito al governo Monti e alla progressiva cessione di sovranità
concessa verso la surrettizia forma di presidenzialismo esercitata da
Napolitano, che ha recato grave nocumento agli equilibri istituzionali della
Repubblica, così come questi erano stati disegnati dalla Costituzione).
Insomma il progetto PD lo si può ben considerare fallito,
mentre resiste – comunque – pur avendo perso milioni di voti il populismo di destra
rappresentato dal regime personalistico di Berlusconi e il bipolarismo
all’italiano è andato in crisi, non per la presenza di una consistente forza
moderata diCentro, bensì per l’emergere impetuoso di una forza
antisistema (almeno all’apparenza e limitandoci alle dinamiche interne al
quadro politico) come quella rappresentata dal M5S che, finora, se non altro ha mandato in crisi il mito della
“governabilità comunque”, rilanciando anche, a proprio modo s’intende, il ruolo
dell’opposizione.
Mi limito in ogni caso al tema del PD e dintorni.
Appare del tutto logico che, in un frangente come questo, ci
sia chi sviluppi un tentativo di spostamento dell’asse politico di un partito
di grandi dimensioni ma in altrettanto grande difficoltà nel definire una propria
identità, una linea politica, un minimo indirizzo posto sul terreno di un
radicamento sociale prevalente.
E’ questo a mio giudizio il tentativo che sta sviluppando,
attraverso la presentazione pubblica del suo documento, il Ministro Barca: un
tentativo, mi è parso di capire, accolto con grande freddezza dai vertici del
PD, soprattutto perché – oltre a mettere in discussione la contendibilità della
leadership appare molto incerto il profilo del rapporto possibile sia con la
cultura di provenienza cattolica presente nel partito, sia con quella più
specificatamente moderata, di derivazione direttamente liberista di cui pare
farsi interprete, pur nelle nebbie di un linguaggio fumoso e di una evidente
competenza del tutto approssimativa anche soggettivamente, l’altro competitore
alla guida del partito Renzi.
E’ già stato scritto, ma è bene ribadirlo: l’iniziativa del
Ministro Barca appare, prima di tutto stupefacente (anche per via
dell’accoglienza mediatica). Prima di tutto perché rappresenta un caso di post-personalizzazione
della politica, in una forma molto accentuata ed anche vistosa (davvero un
“uomo solo” che si propone “al comando”). Questo contraddice lo stesso impianto programmatico proposto sul
terreno della “forma partito” che si vorrebbe, negli intendimenti del
proponente, “radicato sul territorio” quasi si trattasse, pur nel tempo della
democrazia 2.0, di una riedizione dell’antico partito di massa.
Dal punto di vista dei contenuti, invece, nel documento
spiccano due questioni ritenute fondamentali: il distacco dei partiti dallo
Stato che dovrebbe avvenire per il tramite di un passaggio dalla prevalenza del
finanziamento pubblico alla prevalenza di un finanziamento da parte dei
sostenitori, iscritti, simpatizzanti ed anche da privati in una sistema di
trasparenza; la revisione dei meccanismi della burocrazia pubblica che,
nell’attualità, impediscono lo sviluppo frenando, in misura decisiva, la libera
iniziativa.
Nella sostanza quindi un “partito del lavoro” fondato sulla
revisione tecnocratica delle regole e una ripresa di un meccanismo di
concertazione, se non di compartecipazione, tra lavoratori e imprese (un po’ il
“siamo tutti sulla stessa barca” di Squinzi).
Con un accenno, ancora del tutto generico, di una “ricontrattazione
dei patti europei” che non affronta il nodo del “deficit democratico” a quel
livello.
E’ in questo quadro che si innesta il processo di confluenza
di SeL nel PD.
Sel fin dalla fase
precedente al congresso di fondazione (nel quale, è bene ricordarlo, non era
stata ammessa la possibilità di presentazione di mozioni alternative da quella
elaborata dal “cerchio magico”) aveva abbandonato l’idea di rappresentare un
nuovo soggetto aggregatore delle sparse membra della sinistra d’alternativa
italiana agendo sul meccanismo della personalizzazione della politica da
spendere anche all’interno delle primarie del PD, puntando addirittura – almeno
a parole- a disputarne la candidatura alla presidenza del Consiglio.
Di conseguenza ne è emerso un soggetto politico tutto
interno alla logica della governabilità, che non ha svolto alcuna funzione di
innovazione reale sul sistema politico e al riguardo del nesso, che sappiamo essere in questa fase così complesso e
delicato, del rapporto con la società.
Una impostazione politicista che ha fornito risultati negativi:
l’esito delle primarie è stato quello di un ridimensionamento secco di
qualsivoglia ambizione, personale e/o collettiva, si intendesse nutrire e, di
conseguenza, il risultato delle elezioni
politiche ha ben dimostrato una
sostanziale sofferenza nella raccolta del consenso anche laddove, dal punto di
vista della geografia politica proprio i meccanismi della personalizzazione
avrebbero dovuto far pensare a risultati migliori.
L’esito complessivo è stato così quello di una sostanziale irrilevanza
politica: a questo punto l’inevitabile confluenza nel PD pare verificarsi,
ancora una volta, con una impostazione di tipo “politicista” . Dell’andare,
cioè, a “pesare” all’interno della
formazione di una presunta “corrente di sinistra”. Questo allo scopo di
contrattare collocazioni soggettive: una forma che si può ben definire di vera
e propria degenerazione nella concezione dell’agire politico, che deriva n
larga parte dallo stesso processo avviatosi fin dall’inizio del XXI secolo
all’interno di Rifondazione Comunista, tra – appunto – personalizzazione, idea
della governabilità intrecciata al movimentismo, sindrome “assessorile” negli
Enti Locali.
Irrilevanza politica nella quale rischiano di essere
trascinati quei settori del PRC che potrebbero anche essere affascinati
dall’idea della corrente di sinistra del PD, apprestandosi anch’essi a una
sorta di confluenza, senza aver considerato in precedenza a fondo le esigenze
di alternativa, di autonomia, di opposizione che dovrebbero rappresentare il
riferimento e il collante di una sinistra italiana adeguata al livello di
scontro imposto dalla crisi.
L’assemblea nazionale di ALBA ( che era nata per formare “un
soggetto politico nuovo” poi arenatasi di fronte ad un rivelatosi troppo
impervio passaggio elettorale) ha dimostrato (ripeto la parte di un testo che
abbiamo già pubblicato nel nostro blog) di “non proporsi come soggetto politico
tradizionalmente inteso come partito, ma piuttosto come un corpo intermedio
all’interno del quale si raccolgono l diverse frammentate espressioni sociali,
con un radicamento territoriale “leggero” allo scopo, semplicemente, di
costruire una “agenda delle criticità” intesa quale fine dell’azione politica e
non quale possibile punto di partenza per una iniziativa di intervento compiuto
fuori e dentro le istituzioni”.
Da dove nasce questa valutazione,elaborata a caldo, mentre i
lavori dell’Assemblea Nazionale erano ancora in corso?
Da un dato di fondo: l’assenza, nel complesso delle
argomentazioni ascoltate nel corso del dibattito, di una prospettiva compiuta
di trasformazione del sistema; si è sentita più volta la nozione di
“anticapitalismo” ma sono sfuggiti del tutto i termini teorici per poter
affrontare sul serio il tema del “cosa significa” oggi agire concretamente, sul
piano politico, nella direzione dell’anticapitalismo.
Del resto anche nella metodologia stessa seguita nello
svolgimento dell’Assemblea questa mancanza di una prospettiva compiuta (e della
scarsa volontà di riflettere per perseguirla, almeno sul terreno dell’elaborazione
politica) di trasformazione si è avvertita direttamente nell’assenza di una
relazione introduttiva ai lavori che indicasse ai partecipanti una cornice
dentro alla quale “agire” le diverse argomentazioni: sarà il mio un residuo
metodologico derivato dal vecchio e superato partito novecentesco ma mi pare un
contributo indispensabile, quello – appunto – della cornice per superare il
limite che l’insieme dei soggetti che si muovono sul filo della “democrazia del
pubblico” (e nutrono un grande terrore, ogni qual volta assumono una
iniziativa, di essere considerati “casta”) mi pare presentino in una dimensione
quanto mai evidente: manca “l’elaborazione della continuità” partendo da una
prospettiva di cambiamento, declinata in un progetto di trasformazione della
società, rivolto all’apertura di quella che un tempo definivamo “fase di
transizione” (terminologia che sarebbe bene riprendere).
L’indicazione più evidente che ci viene, allora, dagli
importanti accadimenti politici avvenuti in questi giorni è quella del
permanere di un “vuoto a sinistra”.
Un “vuoto a sinistra” che non si potrà cercare di colmare se
non lanciando da subito il tema del partito politico.
Un tema sul quale riflettere principiando con l’analisi
delle forze sociali in campo, il riferimento alle “fratture” sia materialiste,
sia “post – materialiste” da intrecciare in una progettualità alternativa.
Appare del tutto al di sotto di ciò che dovrebbe servire,
almeno a mio giudizio, l’idea di una semplice “rete” (o “nodi”) di collegamento
che lascerebbe inalterato il distacco esistente anche a sinistra tra base
sociale e ceto politico (non colmabile sicuramente soltanto attraverso i
meccanismi di partecipazione del web).
Siamo di fronte, non solo in Italia beninteso, a una crisi
della democrazia tale da minacciare sbocchi imprevedibili e pericolosi.
Occorre ragionare assieme sulla necessità e urgenza di una
compiuta soggettività politica dell’alternativa, a partire dalla mobilitazione
dal basso anche in forme inedite d aggregazione.
Serve la formazione di un “nucleo fondativo”, capace di
riprendere il meglio della nostra storia, che ponga davanti a sé un traguardo parziale
ma identificabile con chiarezza: quello della costruzione di un partito fondato
ancora sul modello dell’integrazione di massa, posto non tanto da subito sul
piano della ricerca immediata della dimensione numerica (che dovrà essere
cercata ma che sarà difficile da realizzare in tempi brevi) ma soprattutto
nella capacità di delineare un orizzonte strategico, un programma politico, un
adeguamento delle strutture organizzative.
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