sabato 6 aprile 2013

I bravi cittadini di Marco Bracconi, La Repubblica

Quello che fa veramente spavento è il collettivo e generalizzato processo di deresponsabilizzazione.
La stragrande maggioranza degli italiani (molto più ampia di quella che ha votato Movimento Cinque Stelle) si dice profondamente indignata per il comportamento delle classi dirigenti. E’ una indignazione liquida e trasversale, che sfonda differenze di classe, cultura e condizione socio-economica. E si declina in una partitura di  sentimenti che spazia dall’odio all’insofferenza, passando per rabbia, schifo, orrore e tenebra.
Tra questi – e sono decine di milioni – in pochi si domandano se e quanto la cosa li riguardi. Se e quanto, insomma, in questi ultimi vent’anni ci abbiano messo anche del loro.
Chi oggi si schifa davanti alla persistenza di Berlusconi non si chiede quanto ci abbia messo del suo, votandolo per anni oppure non votandolo ma spaparanzandosi sul divano quattro sere a settimana davanti alle reti Mediaset, così da perpetuare il suo potere economico consustanziale a quello politico.
Chi oggi alza il suo deluso sopracciglio davanti alle inadempienze del Partito democratico non si chiede perché non ha mai alzato il sedere dalla sedia e si è iscritto a quel partito, provando assieme ad altri a dargli una bella svegliata esponendosi in prima persona.
Chi oggi inveisce e strepita contro lo schifo della casta non si chiede quante volte ha provato ad ammiccare al suo vigile urbano evitando la multa sulla ennesima doppia fila. E così il commerciante, oggi umiliato e offeso dalla crisi,  non si domanda quante volte ha soprasseduto nel pigiare il ditino sul registratore di cassa per emettere il suo scontrino.
Non se lo chiede l’imprenditore, quello che ha delocalizzato non per evitare di chiudere ma per quadruplicare il suoi già discreti profitti. Non se lo chiede il padre che invece di spaccarsi la testa con il figlio per costringerlo a chinarsi sui libri o sul tavolo di un artigiano, ha chiesto per lui  un “aiutino” all’amico dell’amico.
E non si pone il minimo dubbio il cittadino comune, o il giornalista, il contabile, il magistrato, che per quieto vivere ha scelto di non litigare col suo capoufficio, manager, direttore, capocantiere invece di correre il rischio personale dello scontro.
Non tutti, certo. Nella geografia dell’italica indignazione c’è un sacco di gente che ha tutto il diritto di fare le vittima. Esodati, neolaureati a pieni voti senza mercato, espulsi di ritorno dalla catastrofe dei distretti industriali. E ancora gli esercenti onesti e fiscalmente fedeli, gli imprenditori coraggiosi, i ricercatori scurpolosi e solitari.
Ma decine di milioni di quelli che oggi gridano al sopruso e fallimento dei potenti non si chiedono perché in questi anni sono stati accucciati e vagamente lieti, preferendo arrangiarsi in pubblico per poi lamentarsi comodamente in privato. Fino a salvarsi l’anima con la catarsi vaffanculea, che scarica e moltiplica la rabbia magari per lenire i propri sensi di colpa.
Le colpe della classe dirigente sono conclamate ed evidenti. Ma l’aggressivo vittimismo di un bel pezzo dell’opinione pubblica italiana è disgustoso e disonesto. Una versione di comodo nella quale lo Stato sono sempre gli altri, mai ciascuno di noi; e dove l’alibi delle malefatte del potere consente di sentirsi sempre in credito.
Leggere la storia degli ultimi vent’anni come la storia di un Paese dove una casta cattiva e puzzona ha soffocato la meraviglia dell’opinione pubblica non è una falsificazione, ma una barzelletta. Come se una buona democrazia fosse il risultato di una concessione del principe e della sua corte, o di una delega in bianco, e non di uno sforzo comune di una (intera) società.

2 commenti:

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