La sinistra e i giovani. Con i 10 miliardi spesi da Renzi per gli 80 euro si potrebbero creare subito 250mila posti di lavoro
L’articolo di Piero Bevilacqua (pubblicato il 5 novembre scorso sul manifesto)
sulle nuove generazioni apre un dibattito di grande rilevanza che
non si può fermare alla denuncia, ma spero contribuisca
a delineare delle linee politiche di intervento. In questa
direzione vorrei offrire un contributo che parte dall’area del
nostro paese dove è più grave la condizione giovanile.
Il Mezzogiorno è oggi una grande
riserva di forza-lavoro congelata, inutilizzata, destinata al
macero, come per molto tempo sono state le arance, le clementine,
i pomodori.
Una condizione che ricorda da vicino
quella categoria del «pauperismo» definito da Marx come «il peso
morto dell’esercito industriale di riserva», che si traduce oggi, nel
XXI secolo, in una condizione paragonabile a quella di una «riserva
di indiani» nel nord America, dove impera l’alcol ed i casinò, ma la
cultura locale, l’identità, le aspettative di riscatto sono state
cancellate.
È noto che in Italia su circa 2,3 milioni di giovani “neet” (not employment, education, training)
circa due terzi risiedono nel Sud. Meno noto è il fatto che molti
giovani meridionali sono stati costretti dalla Lunga Recessione
a ritornare nel paesello natio dopo aver sperimentato lavoro
precario ed alti costi di inurbamento nel Nord-Italia. Così come
molte giovani coppie sono state costrette dalla crisi a lasciare le
città meridionali per tornare al paese del padre o del nonno dove
possono usufruire di una casa in proprietà, e magari un
appezzamento con animali (galline, maiali, ecc.). Non c’è niente di
bucolico o romantico in queste scelte ma una dura necessità di
sopravvivenza. Perfino nelle Università meridionali troviamo
oggi giovani che sono tornati dalle più prestigiose università del
Centro-Nord perché i genitori non li potevano più mantenere.
Ancora di più sono gli studenti che si iscrivono in alcune
università del Mezzogiorno per necessità in quanto i genitori non
si possono permettere di mantenerli «fuori».
Elogio del posto fisso
Sembra siano passati secoli da quando,
negli anni ’70, i giovani del nostro Sud gridavano nei cortei
«lottare per restare e restare per lottare». Era molto di più di uno
slogan, era una prospettiva di vita e di impegno sociale
e culturale, una fede nella possibilità di cambiare la società, un
atto di amore per la propria terra. Una spinta vitale che ha prodotto
lotte sociali, che è confluita in una ribellione inedita contro la
mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, che ha costruito tante iniziative
nel sfera del sociale, della cultura, dell’economia solidale.
Chi resta oggi nel Mezzogiorno lo fa
o perché ha un lavoro (una esigua minoranza) o perché è costretto.
Sono giovani carichi di rabbia e frustrazione che in maggioranza
hanno votato per Grillo e Renzi, che non gliene frega niente dell’art.
18 , che vivono la loro disperazione in solitudine, che non credono
più a niente. Una condizione estrema che ormai colpisce quasi un
giovane su due e che meriterebbe una risposta politica adeguata.
C’è un solo modo, una sola politica che
possa fare uscire immediatamente una parte dei giovani
meridionali dalla «riserva», che gli possa dare un’alternativa di vita
e di lavoro. Si chiama posto pubblico. Una bestemmia, lo so, dopo
decenni in cui è stato propagandato il mito della mobilità del
lavoro come valore, dell’inventarsi un lavoro, dell’essere
imprenditori di se stessi, del dipendente pubblico come un
parassita.
Ma qual è l’alternativa?
L’ideologia neo liberista, di cui
Renzi è un paladino, sostiene che i posti di lavoro si possono e si
debbano creare solo dando incentivi alle imprese, e riducendo la
spesa pubblica. Ma in tutti i paesi in cui questa ricetta è stata
applicata ne è risultato un aumento dei posti di lavoro precari
e sottopagati, mentre sono peggiorati tutti i servizi pubblici
con danno grave per la maggioranza della popolazione. Inoltre, le
imprese private possono assumere nuovi giovani solo se c’è una
domanda crescente in quello specifico settore economico.
Per esempio l’hanno già fatto nei call
center, con salari da fame, stress micidiali e precarietà
assoluta, avevano creato fino a cinque anni fa quasi 80.000 nuovi
posti di lavoro. Poi , hanno scoperto che era meglio far svolgere
questo servizio in Albania o in Romania, con salari ancora più
bassi e condizioni di lavoro estreme.
Proposte credibili e immediate
Pertanto, se è vero che la condizione
giovanile nel Mezzogiorno è disperata, come sostengono tutti gli
analisti e gran parte delle forze politiche, allora diciamo basta
con il lamento e proviamo a dare delle risposte credibili ed
immediate.
Se pensiamo che gli 80 euro
distribuiti a chi aveva già un lavoro ed un reddito inferiore ai 1500
euro costano al bilancio dello Stato circa 10 miliardi l’anno, e non
creano un solo posto di lavoro in più , allora diciamo che con la stessa
cifra si potevano e si possono creare circa 250.00 posti di lavoro
a tempo indeterminato nella Scuola, Università, Sanità, trasporti
locali, servizi sociali, ecc. basterebbe tagliare la spesa militare
previsti per gli F35 o per qualche grande opera per trovare queste
risorse, lasciando immutato il bilancio dello stato.
Si tratta semplicemente di
riprendersi una parte dei 450.000 posti di lavoro cancellati nella
Pubblica Amministrazione bloccando il turnover negli ultimi
sei anni.
Se la Cgil e la Fiom volessero davvero
diventare un punto di riferimento per i giovani meridionali
inoccupati, precari, sottopagati, dovrebbero aprire una seria
vertenza con il governo — a partire dal prossimo sciopero generale —
chiedendo che vengano ripristinati questi posti di lavoro che sono
oggi assolutamente necessari per avere una Scuola decente, una
Università dove si investa sui giovani ricercatori e docenti, il
ripristino delle ferrovie e del trasporto pubblico nelle aree
esterne all’asse Milano-Napoli, servizi sociali per gli inabili, i non
autosufficienti, anziani, ecc.
Il vecchio, famigerato, posto fisso
nella Pubblica Amministrazione, che intere generazioni di
meridionali hanno sempre sognato per i propri figli, è oggi una
necessità – per avere servizi essenziali dignitosi — e anche una
opportunità. Non solo per rispondere al bisogno impellente di
occupazione stabile, ma perché ci potrà essere una rinascita del
nostro Sud solo se Stato ed Enti Locali saranno in grado di offrire
servizi che in parte sono stati privatizzati e devono tornare sotto
l’egida pubblica, anche perché costano meno di quelli privati!
Certo, nella Pubblica
Amministrazione, specie nel comparto delle strutture regionali,
ci sono sacche di parassitismo che possono e devono essere rimosse.
Ma, non è più accettabile la criminalizzazione del pubblico
impiego, dove esistono soggettività che si spendono per il bene
comune, spesso marginalizzate e penalizzate. E senza servizi
pubblici efficienti non ci può essere nessuna ripresa economica, ma
solo nuove ondate migratorie.
Questo non significa non battersi per
una riduzione dell’orario di lavoro, un reddito minimo garantito ai
giovani inoccupati, come sostiene da tempo Piero Bevilacqua,
o spendersi per un piano di salvaguardia dal dissesto
idrogeologico, o rinunciare all’indispensabile riconversione
ecologica della nostra struttura produttiva (Guido Viale),
o accettare che il governo Renzi tagli 8 miliardi alle regioni
meridionali obiettivo 1, come ha giustamente denunciato Andrea del Monaco su questo giornale
(domenica scorsa). Tutte scelte e obiettivi più che
condivisibili, ma che richiedono un tempo indefinito e non
rispondono al bisogno immediato di un lavoro utile e garantito.
Se un giorno risorgerà una forza
politica di sinistra in questo paese senza memoria, se vorrà dire
qualcosa di comprensibile ai giovani meridionali, non potrà non
partire da questa proposta.
Se si vuole uscire dalla marginalità
politica bisogna avere obiettivi chiari e raggiungibili nel breve
periodo, all’interno di un quadro più generale di cambiamento
radicale di questo modello di impoverimento sociale e culturale.
TONINO PERNA
da il manifesto
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