Dovrebbe essere contento il premier modernista che, nel solco della
tradizione di una nazione di poeti, artisti e stilisti, alla finanza
creativa si aggiunga il sindacato creativo.
E invece no, non gli piacciono gli inventori di scioperi
“ingiustificati” e distruttivi, come direbbe il neo iscritto alla
sezione Pd delle Cayman, il palco dei piccoli chimici dell’antagonismo
futile. E soprattutto non gli piace la cerchia di sfaccendati “che non
hanno mai lavorato”, che mestano nel torbido per tutelare rendite
parassitarie, che in sostanza, fa intendere, vorrebbero togliere al ceto
politico l’esclusiva dello sfruttamento scroccone ai danni dei
poveracci tramite scioperi “politici”. E proprio come gli accademici che
vogliono insegnare come deve comportarsi al movimento degli studenti,
proprio come i padroni abituati a contare le fiches del gioco d’azzardo
finanziario, che vogliono indottrinare gli operai su come si fatica, il
Renzi impartisce lezioni su come e quando manifestare: mai prima del
ponte, mai contro un governo doc, continuatore, a detta della purtroppo
evergreen Fornero dell’opera restauratrice dell’era Monti ma in peggio,
mai per danneggiare l’immagine di un operoso paese dedito
all’ubbidienza, in modo da attrarre compratori esteri in cerca di facili
bottini, come se proprio grazie ai vent’anni precedenti, al condannato e
agli impuniti della politica, dell’impresa, dell’evasione, oggi
definitivamente legittimata, e al susseguirsi dei peggiori governi degli
ultimi 150 anni predoni internazionali non si fossero già mangiato
gran parte del Bel Paese, lasciando solo le croste.
E come se non bastasse accusa il sindacato di tutelare solo gli
interessi dei garantiti, di quelli del posto fisso, come se ce ne
fossero ancora al di fuori dell’inattaccabile cerchia dei boiardi e
delle loro partite di giro, dei nominati e incoronati che si fanno leggi
appropriate per non cedere mai il posto e trasmetterlo a dinastie di
altrettanto inviolabili eredi. Imputa loro con indegna sfrontatezza, e
dio sa quante colpe possiamo addebitare a rappresentanze smidollate e
castali che negli anni hanno lasciato soli i lavoratori, con poche
eccezioni, di non salvaguardare le vittime delle sue politiche, dettate
dai suoi padroni. Come se non fosse universalmente noto che uno degli
obiettivi della giuliva mobilità, della profittevole precarietà, delle
loro tutele crescenti, è proprio rompere qualsiasi fronte dei
lavoratori, sradicarli da un contesto nel quale si possano riconoscere
tra loro e coltivare solidarietà, identificando interessi comuni, come
se la loro competitività non mirasse a nutrire conflitti tra ricattati,
inimicizia e contesa divisiva anche tra uguali e perfino di chi sta male
contro chi sta peggio, rottura di ancestrali vincoli tra generazioni,
la compiacenza verso un clima che favorisce sentenze oltraggiose,
l’impiego geometrico del diritto a danno dei diritti.
La guerra di classe di chi ha contro chi non ha, incrementa la sua
mutazione antropologica, assoldando pattuglie di specialisti nella lotta
contro il lavoro i suoi valori i suoi diritti, la cittadinanza, la
rappresentanza e infine la democrazia, facendo dell’disuguaglianza una
necessità inderogabile, della rinuncia un doveroso realismo,
dell’appagamento dell’avidità dei padroni, dei finanzieri, degli
investitori, la molla fatale e ineludibile per la creazione di una
ricchezza che distribuirà chissà quando e chissà mai la sua polverina
d’argento in giro, che magari qualche granello ne cascherà sui poveri.
Beh non è polvere d’argento, è polvere da sparo e i cannoni sono puntati
contro di noi.
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