Partito democratico. Quel che c’è oggi a sinistra non è in grado di
incidere sul terreno politico. Ma questo non dimostra che dentro il Pd
vi sia spazio per una battaglia di sinistra né soprattutto che nulla di
nuovo possa nascere e che non valga la pena di lavorare a tal fine
E che si battevano per
un’interpretazione coerentemente riformistica delle lotte
politiche del movimento operaio. Ripeto: si poteva e si può
dissentire dalla sua visione. E, nell’intervista, trovare qualche
giudizio discutibile, come la sottovalutazione (a mio parere)
della cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
da parte del governo. O come la difesa un po’ astratta (sempre a mio
parere) del centralismo democratico, principio che conserva una
ragion d’essere finché in un partito non c’è soltanto centralismo
ma anche democrazia. Ciò che non pare proprio il caso del Pd di
Renzi, guidato a suon di ricatti da un uomo solo al comando. Il che
legittima anche qualche perplessità a proposito dell’idea che per
fare politica si debba per forza stare nel Pd.
Non che Macaluso si inventi un
problema. È vero che quel che c’è oggi a sinistra non è in grado di
incidere sul terreno politico. Ma questo non dimostra che dentro
il Pd vi sia spazio per una battaglia di sinistra né soprattutto
che nulla di nuovo possa nascere e che non valga la pena di lavorare
a tal fine. Resta che nella sostanza le considerazioni di Macaluso
appaiono non soltanto interessanti, ma nell’essenziale
assolutamente centrate e meritevoli di attenta riflessione.
Capita, è noto, che in un mondo che
corre a destra i moderati seri e coerenti si ritrovino a sinistra,
magari all’estrema. Beh, ci voleva Macaluso perché una figura di
spicco vicina benché esterna al Pd – non importa se in pensione
e senza incarichi – dicesse a chiare lettere che un partito non deve
puntare a rappresentare tutto il popolo ma una parte, assumendosi
di conseguenza le proprie responsabilità. E che le schifezze che
il governo Renzi (come del resto i suoi predecessori) chiama
«riforme», riforme non sono affatto. Poiché la questione non sta nel
«cambiare verso» ma in quel che concretamente si combina, e cioè
nel muoversi verso una maggiore uguaglianza. Siccome quanto il
governo sta facendo va evidentemente nella direzione opposta, di
riformismo nell’azione sua e del Pd non vi è traccia. C’è anzi
l’esatto contrario: conservazione o piuttosto reazione.
In positivo, Macaluso dice due cose su
cui sarebbe molto opportuno riflettere. In primo luogo
è indiscutibile che oggi a sinistra del Pd c’è solo, nella migliore
delle ipotesi, testimonianza. La frammentazione delle forze, quali
che siano le cause, dà torto a tutti per la semplice ragione che
«senza popolo» non c’è sinistra. Può esserci, in qualche misura,
politica. Ma di destra, in un quadro di gestione autoritaria del
consenso. La sinistra vive nella misura in cui conquista la fiducia
innanzi tutto del mondo del lavoro (e del non-lavoro). Forze che non
raggiungono questo obiettivo fuoriescono dallo spazio della
politica. Può anche darsi, anche se è inverosimile, che ciò non sia
di per sé colpa dei loro dirigenti. Ma lo diventa dal momento in cui
essi non fanno di tutto per sovvertire questo stato di cose e per
tornare a svolgere un ruolo nel conflitto politico.
La seconda cosa che Macaluso dice non
è meno importante. Per rinascere, la sinistra deve avere un’idea di
società, un progetto nuovo e organico per il paese, una prospettiva
politico-culturale. Il che significa, mi pare, che deve innanzi tutto
recuperare il coraggio della propria autonomia e l’orgoglio della
propria storia. Insomma, fare l’esatto contrario di quello che da
vent’anni accade. Tra futili nuovismi, scelte opportunistiche
e osceni trasformismi.
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