di Alfredo Morganti – Nuovatlantide.org
Ho letto la lettera di Renzi a
Repubblica. Non c’è nulla di nuovo, tranquilli. Colpisce l’affermazione
che, nonostante l’articolo 18, in Italia ci sia ancora una
disoccupazione a doppia cifra. Ma solo lui interpreta quella norma come
volano occupazionale (e così pure la sua prossima cancellazione), quando
essa esprime invece solo tutela per chi viene ingiustamente licenziato.
Poi ritorna sul sindacato che non ha manifestato contro la legge
Fornero mentre lo fa sul Jobs Act. Ma scambia l’eccesso di
responsabilità nazionale del sindacato di allora per una concessione
oggi a chissà chi. Semplicemente si doveva scioperare prima e pure
adesso. Anche perché oggi l’attacco al lavoro è sensibilmente più forte
di qualche anno fa e il Jobs Act non è solo l’articolo 18, ma, per
esempio, l’ipotetica flexicurity de’ noantri finanziata davvero con due
spiccioli.
Ma non è questo il punto dirimente. Il
punto è quando Renzi, rispondendo alle critiche di Repubblica, si
sofferma sui valori della sinistra. A parte la presentazione del solito
Pantheon di figurine Panini a motivare una storia che è DAVVERO più
complicata di quattro santini sparsi alla rinfusa. A parte questo. Mi
chiedo che senso abbia definire questi santini come la nostra ‘storia’ e
i nostri ‘valori’, per poi ribadire (con una avversativa) che la
sinistra renziana è “soprattutto un futuro”. Che significa?
Intanto, che
col renzismo è scomparso il presente, e non è poco. Sono trent’anni che
ci dicono di concentrarci di più su di esso (che è l’unico stato di
cose esistente, a meno che la fisica quantistica non innovi in materia) e
adesso, per bocca del Premier, questo ‘presente’ torna a scomparire, in
nome di un passato ridotto a figurine Panini e di un futuro che
dovrebbe comunque “cambiare” (ma come può cambiare una cosa che non c’è
ancora, non esiste, non è uno stato?). Cambiare poi rispetto a che? Alle
previsioni del FMI o dell’OCSE o della UE? Alle nostre paure? Alle
nostre aspettative? Ai nostri incubi? A un’immagine vaga e terribile che
ne abbiamo? Non si sa. Che il futuro “cambi” intanto, poi si vedrà.
La verità è che il presente non solo è
la nostra dimensione, il mondo che ci è stato assegnato dal Caso, da
Dio, dagli eventi, fate voi. È pure il contenitore di quanto di più
malvagio ci circondi. Dei lutti, della sofferenza, della malattia, dei
fondamentalismi di ogni tipo, del male in genere. Del fango delle
alluvioni come delle macerie di un terremoto. Della morte di un bimbo
come della brutalizzazione di una donna. Della diseguaglianza che cresce
e dei pochi rimedi accampati per porvi rimedio. Di tutto questo male è
pieno il presente, così come, d’altra parte, anche della gioia di
vivere, dell’amore, dell’amicizia, della solidarietà, dell’arte, della
buona scienza, dei libri, degli affetti, delle relazioni umane. Ma del
male soprattutto. E a battersi contro questo male (sociale, umano) è
chiamata la sinistra, che ha scelto originariamente di lottare contro lo
sfruttamento del lavoro ma poi ha allargato pian piano i suoi spazi e i
suoi orizzonti di lotta, senza mai perdere di vista quella iniziale,
appunto il lavoro.
Ecco. Questo ‘presente’ scompare dalla
‘narrazione’ del premier. Scompare sistematicamente, viene obliato,
celato strutturalmente, perché con il presente la comunicazione c’entra
poco, così come c’entra poco la sua retorica dei sogni, ma anche quella
delle ‘opportunità’ offerte a chi vive nella società della
diseguaglianza (è come dire a un cucciolo di capriolo di farsi avanti in
piena savana!). Come c’entra poco il ‘change’ ripetuto sino a sfinirci,
e così tutta la ‘pubblicità’ messa in campo quale surrogato della
politica-politica.
Il presente, ecco il grande scomparso a sinistra. Che
è invece tutta compressa nella logica della ‘comunicazione’ e in quella
lineare e temporale del linguaggio e della sua sintassi implacabile.
Per tornare a considerare il presente (l’unico stato di cose che deve
essere cambiato!) serve invece un ritorno alla politica, alla sua
spazialità (micro, macro, globale, locale, glocal, sopra, sotto e
m’arimovo, FATE VOI, ma che spazio sia!) e dunque ai conflitti veri, non
figurati. E basta coi ‘patti’ indicibili e con gli accordi (esterni ed
interni) stipulati con gli avversari.
Questo non vuol dire che sul presente ci
si debba ‘schiacciare’, che vengano a mancarci ogni prospettiva e ogni
orizzonte. Non vuol dire che l’essere debba scomparire perché tutti
concentrati sull’ente presente e manipolabile. Ovvio che non è così. A
patto che si parli di un futuro costruito a partire dal presente, da
questa vita. E dunque di una comunicazione fatta con la politica, e non
viceversa di una politica fatta e costruita solo sulla comunicazione.
La
verità è che, senza lo sguardo conficcato sul nostro mondo attuale (con
TUTTO quello che esso ci propone), tutto si ‘scolla’ temporalmente e si
centrifuga: il passato diventa un passato finto, un Pantheon di
figurine e canzoni alla Jovanotti, e il futuro una mera scorciatoia
linguistica. Ma se c’è il presente là in mezzo a tenere uniti spazio e
tempo, allora il passato ritorna a essere una memoria profonda e una
ragione vera, e il futuro una faticosa costruzione, non l’ultima, non la
finale, ma un orizzonte, una bussola, un orientamento. Una nuova tappa
verso società sempre più libere ed egualitarie. E così, il sogno e la
narrazione non potranno affatto sentirsi ‘autonomi’ dalla politica, né
autosufficienti, tanto meno sue metafore. Ma strumenti. Utensili della
politica. Sennò è tutto propaganda. Chiacchiere, Fuffa. Roba vecchia,
altro che “nuovo”.
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