"Coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…". Già il Machiavelli dei “Discorsi” aveva istituito un saldo legame tra conflitto e rafforzamento delle istituzioni democratiche.
E Giuseppe Di Vittorio, nel presentare all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso un primo progetto di Statuto dei Lavoratori, avvertì che «la democrazia se c’è nella fabbrica c’è anche nel Paese» e, al contrario, «se la democrazia è uccisa nella fabbrica essa non può sopravvivere nel Paese».
La grande questione che ha di fronte a sé la sinistra politica è quella di istituzionalizzare il conflitto, dargli cioè una rappresentanza stabile. Non da oggi, certo.
Ma ormai la crisi procede per accumulazioni successive, da quantitativa si è fatta qualitativa; si è trasformata cioè da crisi congiunturale in crisi organica, che sconvolge ogni aspetto della Repubblica: economico, sociale, istituzionale. Già si intravedono, minacciosi, disegni per una sua soluzione scopertamente reazionaria. Di qui l’urgenza della ricostruzione di un rapporto virtuoso tra conflitto e rappresentanza politica. Per riprendere i termini di Ernesto Laclau, sul momento orizzontale del movimento si deve saldare il momento verticale della lotta per l’egemonia.
Imotivi per cui questo intreccio virtuoso non si è fino ad ora prodotto sono molteplici, fortemente radicati in errori soggettivi, primo tra tutti la mancanza di unità tra le varie forze politiche della sinistra. Ma ci sono cause ulteriori da indagare. Prima tra tutte: può essere ancora il partito novecentesco la sintesi tra conflitto sociale e lotta egemonica? Allo stato dei fatti, i partiti tradizionali attraversano una crisi della propria ragione sociale tutt’altro che episodica. Ridotti a comitati elettorali al servizio del leader di turno, risolvono spesso la propria funzione in quella di “uffici di collocamento” per un ceto medio ipertrofico e in crisi di identità sociale, speranzoso di trovare nel “mestiere politico” un’àncora di salvataggio contro l’inesorabile degradare della propria posizione sociale.
Schiere di candidati si aggrappano a quest’àncora ad ogni tornata elettorale, fino a superare talvolta in numero, per sommo paradosso, gli affluenti al voto. Il trasformismo più estremo è all’ordine del giorno, per cui si trama nei corridoi del Palazzo per allungare legislature ingiustificatamente sopravvissute alla fine della spinta propulsiva dei risultati elettorali che le avevano prodotte. Leggi elettorali liberticide sono promulgate nell’assenso acritico della Camere. Gli enti locali, da elementi di democrazia diretta e popolare, sono ridotti a passacarte delle direttive fiscali dei governi centrali, in nome delle ragioni della “ditta” da far prevalere su quelli della cittadinanza.
La destra cavalca questa crisi della funzione sociale dei partiti, mentre la sinistra stenta, per antico abito mentale (comprensibilmente) duro ad estinguersi, a coglierne i motivi di lungo periodo. Eppure essi dovrebbero essere oggetto di attenta analisi.
Il partito di massa delle classi subalterne si configura, nei sui albori decimononici, come anti-Stato. Il partito è lo strumento di cui le classi subalterne si dotano per agire all’interno dello Stato liberale, e al tempo stesso trasformarlo. Esso nasce per unificare le lotte e dare loro continuità. Se il partito operaio contiene in sé i germi del pluralismo fin dalla sua formazione, la forza trainante è individuata nel proletariato di fabbrica, inteso come classe generale. Questo schema entra in crisi con la rivoluzione del “lungo ‘68″. In questo periodo il conflitto tra classi subalterne ed élite tradizionali da un lato assume la sua massima intensità; dall’altro, per così dire, esplode; si frantuma. Accanto alle lotte del proletariato di fabbrica, riconoscendone solo in una prima fase la guida, fanno la propria comparsa, e poi via vi acquistano rispetto ad esse un grado crescente di autonomia, quelle degli studenti, per l’emancipazione femminile, per la pace, per la salvaguardia dell’ambiente, tutte egemonizzate da una nuova classe media in ascesa.
L’inizio della restaurazione conservatrice si porta dietro la rottura dell’unità tra il movimento operaio e queste nuove classi medie. Si registra, in questi movimenti, un alto tasso di “integrabilità” nel sistema capitalistico, che ne adotta le istanze di avanguardia per rinnovarsi e rinvigorirsi. Il partito operaio di massa, in questo contesto, entra in crisi. Entra in crisi la sua capacità di unificazione ed organizzazione del conflitto.
All’interno dei partiti, il rapporto tra intellettuali e militanza operaia si inverte, con i primi che ascendono facilmente e frettolosamente ai posti dirigenti e la seconda che è vissuta quasi come un residuo fastidioso. Si giunge per questa via all’espulsione dei ceti subalterni dalla rappresentanza politica diretta. Ceti subalterni i quali, a loro volta, in parte subiscono questo allontanamento, in parte lo promuovono attraverso l’affermazione, tra di essi, di un nuovo senso comune che rimette in discussione l’utilità e la necessità dell’azione collettiva, e di nuovi modelli di consumo del tempo libero.
In questa fase di scomposta ritirata siamo ancora immersi, proprio nel momento in cui il conflitto sociale riprende vigore. Invece di attardarsi in tentativi di riesumazione di una esperienza storica forse irripetibile, serve trovare risposte innovative. È urgente la creazione di un fronte pluralistico della istanze popolari che sorgono dalla società civile in lotta, cercando di ridurle ad unità in base ad una elaborazione collettiva e ad una ricostruzione di un senso comune che sancisca la loro non-contraddizione; e modellando, su queste nuove modalità di istituzionalizzazione del conflitto, adeguate proposte di rinnovamento democratico delle istituzioni repubblicane. Dalla ricostruzione di questo intreccio virtuoso tra conflitto sociale e risposta politica dipende il futuro della nostra democrazia.
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