Da
quando la crisi della società del lavoro è lentamente emersa nella
coscienza collettiva (all'incirca a partire dalla fine degli anni 1970),
il neoliberismo ha ostinatamente sostenuto il punto di vista per cui
tale crisi non esiste assolutamente. Quel che accade, avrebbe a che
vedere con il fatto che la forza lavoro è semplicemente "troppo cara".
Se fosse più a buon mercato, e venisse offerta in maniera più
"flessibile", si potrebbero creare posti di lavoro sufficienti, in tutto
il mondo e per tutta l'eternità.
Oggi, questo punto di vista viene
generalmente accettato come senso comune. "In una società dove c'è
divisione del lavoro, le persone devono guadagnarsi i propri mezzi di
sussistenza sul mercato. Ed il prezzo viene fissato dall'offerta e dalla
domanda. Se la merce non si vende, è perché il prezzo non è adeguato.
La disoccupazione non significa che il lavoro sta scomparendo, ma che è
diventato troppo caro", scrive il giornalista economico Nikolaus Piper
(Süddeutsche Zeitung, 6.8.1998), e questo è soltanto un esempio fra
tanti.
Dopo vent'anni di prassi neoliberista, gli ideologhi del
lavoro e del mercato vedono confermata la loro semplicistica visione del
mondo. Quindi, la verità sarebbe che dove la "deregolamentazione" del
mercato del lavoro è stata di conseguenza perseguita, specialmente negli
Stati Uniti, si sarebbero ottenuti dei successi giganteschi, come anche
osserva Piper: "Negli Stati Uniti, nell'ultimo quarto di secolo, non
solo sono stati creati 45 milioni nuovi posti di lavoro, ma allo stesso
tempo è aumentata anche la giornata lavorativa, in media dello 0,1%; la
percentuale delle persone occupate è aumentata dello 0,5% ed il
rendimento pro capite è cresciuto del 1,6% per anno". Il fatto che
questo glorioso "miracolo dell'occupazione", nonostante i continui
abbellimenti cui è soggetto, sia consistito prevalentemente di posti di
lavoro flessibili ("flexi-jobs") malpagati ed insicuri, e che
il lavoratore debba accumulare due o tre di questi posti di lavoro per
riuscire ad avere un reddito appena accettabile, è cosa cui il credo
neoliberista non assegna alcuna importanza.
Ma anche a livello
empirico non è che poi le cose siano state fatte con maggior rigore, dal
momento che "i successi dell'occupazione" vengono abitualmente
manipolati nelle statistiche. Anche ad una lettura superficiale, il
"bilancio occupazionale" non sembro così positivo come ci viene
raccontato.
Che si tratti di posti di lavoro a buon mercato o meno,
che siano molti, oppure, forse, non poi così tanti - ufficialmente si
ritiene dimostrata la tesi per cui la disoccupazione è soltanto la
conseguenza del costo del lavoro troppo elevato e delle condizioni di
lavoro non flessibili. Statisticamente, l'alto tasso di disoccupazione
nei paesi dell'Unione Europea è, secondo la dottrina economica
dominante, solo una prova del fatto che non si è ancora proceduto ad
un'adeguata deregolamentazione - argomento del quale, il recentemente
eletto governo socialdemocratico, approfitta per recuperare il ritardo
il più rapidamente possibile. E se i Länder del Capitalismo di Stato
collassato, dopo dieci anni di felicità di Capitalismo concorrenziale,
affondano sempre più nell'agonia socio-economica, la colpa non può
essere altro che della lentezza e della timidezza delle dolorose riforme
della "economia di mercato", che semplicemente non sarebbero state
ancora conseguentemente implementate. A proposito dell'economia, del
tutto distrutta, dell'Ucraina, si dice, con una rara miscela di
sincerità e di cinismo: "prima di un eventuale recupero, sono necessare
due riforme: devono essere chiuse più fabbriche che fanno uso intensivo
di energia, l'energia elettrica ed il gas devono rincarare per la
popolazione; la disoccupazione aumenterà se le imprese che hanno un
futuro - ad esempio, nell'industria dell'armamento (sic) - verranno
finalmente ristrutturate; inoltre, i burocrati devono essere licenziati,
di modo che l'iniziativa imprenditoriale possa svilupparsi" (Die Zeit,
23.04.1998).
Nonostante le argomentazioni di
questo tipo, è manifesto che la presunta ripresa economica nelle regioni
in collasso del Sud e dell'Est non avverrà, e che le consolazioni a
colpi di un futuro radioso, anche se nel presente la cinghia viene
sempre più tirata, non sono particolarmente credibili, a breve termine.
Perciò, nel discorso giustificativo del neoliberismo, è stato innestato,
dalla fine degli anni 1980, un nuovo paradigma ideologico: è stato
scoperto il "settore informale", ed è stato dichiarato essere il
serbatoio di una nuova imprenditorialità dinamica, e soprattutto libera,
la quale a causa della "sovra-regolazione" del settore formale non
trovava opportunità di sviluppo ed è stata costretta a rifugiarsi nella
"informalità". Si è così passato a fomentare questo "settore dal basso"
(titolo tedesco di un libro assai discusso del peruviano Herman de
Soto), poiché esso sarebbe il punto di partenza e la base di uno
sviluppo economico che in futuro avrebbe successo. In questa maniera si
prendono due piccioni con una fava. Da un lato, si pretende di
legittimare così l'eliminazione degli ultimi meccanismi di protezione e
di regolamentazione e, dall'altro, di presentare il crescente
deterioramento delle condizioni di vita delle masse, come prova della
superiorità dell'economia di mercato.
Il fatto che un'argomentazione
così grossolana possa svolgere un ruolo importante nel dibattito
economico ufficiale, si può spiegare naturalmente con la brutalità degli
interessi in gioco. Pertanto, da un punto di vista teorico,
l'affermazione secondo la quale il sistema capitalista, basato sulla
società del lavoro, possa continuare con successo fondandosi su
lucidatori di scarpe, venditori di gomma da masticare, e su montagne di
rifiuti, è tutto tranne che indiscutibile. Ed è ancora più penoso che
questa brutale teoria neoliberista inventata di proposito sia penetrata
in larghi settori della sinistra - anche se utilizzata in forma negativa
e con l'aria di essere una critica particolarmente solida al
capitalismo. La crisi della società del lavoro, si dice sempre più anche
negli ambienti della sinistra, non avrebbe, in realtà, un carattere
fondamentale e non potrebbe portare al collasso definitivo del sistema
di produzione di merci; tutt'al più si tratterebbe soltanto della fine
di una determinata fase del capitalismo: quella della prosperità del
dopoguerra. Poi, il capitalismo tornato finalmente alla sua normalità,
nella quale, ora, la maggioranza della popolazione deve mettersi in
vendita in condizioni miserabili e, nella migliore delle ipotesi, deve
sopravvivere in pessime condizioni - a meno che non abbia intenzione di
lasciarsi morire di fame. Il capitale, in queste condizioni, potrebbe
essere accumulato come non mai.
Il teorico della
regolamentazione di sinistra, Joachim Hirsch, ha espresso con
insuperabile chiarezza un'opinione che rispecchia la posizione
neoliberista: "Il capitalismo si caratterizza per
l'alterazione permanente delle condizioni di produzione e di lavoro e
per la creazione (ciclica) di un esercito industriale di riserva.
L'insicurezza dei posti di lavoro e la disoccupazione sono
caratteristiche strutturali di questo sistema economico. Che questo
venga frequentemente trascurato, deriva dal fatto che durante il
capitalismo fordista del dopoguerra tali condizioni erano sembrate
superate. La crisi della 'società del lavoro' è parte della crisi di
questa formazione. Quella che ha avuto realmente fine è stata una forma
storica specifica del capitalismo: il 'fordismo', il quale si era
organizzato a partire dalla crisi economica mondiale degli anni trenta,
nelle speciali condizioni del conflitto est-ovest e della guerra fredda"
(Hirsch, 1999, p. 15). Questa crisi del "Fordismo" è già diventata
chiaramente irreversibile sotto l'azione della globalizzazione e
attraverso i metodi neoliberisti del "Ovest selvaggio", con la
progressiva flessibilizzazione e don la deregolamentazione dei mercati: "con
la divisione dei salariati e con la possibilità di giocare fortemente
gli uni contro gli altri i loro segmenti nazionali, il capitale non solo
ha attutato una modificazione strutturale a suo favore del rapporto di
reddito, ma ha anche creato le condizioni per una razionalizzazione
globale e, perciò, anche da questa prospettiva, di un forte crescita del
suo profitto" (ivi, p.15 e segg.).
In qualche modo,
quest'opinione è sorprendente. Apparentemente, Hirsh smette di pensare
il sistema di produzione capitalista come un sistema globale,
diversamente si sarebbe reso conto che le sue teorie dell'accumulazione e
della crisi hanno i piedi d'argilla. Proprio come fa la teoria
economica liberale, Hirsh coglie il piano macroeconomica del capitalismo
globale a partire dal piano microeconomica della piccola impresa. Il
fatto che esistano contraddizioni fondamentali fra questi due piani, non
gli passa nemmeno per la testa.
Un'impresa può aumentare i suoi
profitti per mezzo della diminuzione dei salari e delle altre condizioni
di lavoro, attraverso la riduzione delle sue imposte e altri sconti da
parte dello Stato, dalla delocalizzazione di parti dell'impresa
attraverso "localizzazioni a buon mercato" e (o in alternativa a questo)
attraverso l'applicazione di nuove tecnologie, razionalizzando i
processi imprenditoriali e sostituendo posti di lavoro con capitale
tecnico. Visto dal punto di vista dell'economia globale, questo non
significa un contributo alla risoluzione della crisi del capitalismo,
ma, al contrario, il suo aggravarsi. Questo è subito visibile nel
mercato dei beni di consumo in contrazione. Infatti, quando i redditi da
lavoro e le sovvenzioni statali diminuiscono, questo significa anche
(mantenendosi le altre circostanze) la contrazione della domanda. Quando
le merci non vengono vendute, anche il capitale non può essere
valorizzato. Le imprese individuali o le economie localizzate possono
sottrarsi a questo dilemma nella misura in cui riescono a portare al
fallimento i loro concorrenti ed a conquistare le loro quote di mercato.
Ma in nessun modo riescono ad evitare che il mercato, nel suo insieme,
diventi sempre più ristretto e nascano nuove sovraccapacità nei settori
centrali della produzione mondiale, così come avviene da anni. Ma non si
tratta semplicemente di un problema di mancanza di potere di acquisto
sul mercato (sul piano della circolazione), come viene affermato dal
punto di vista keynesiano, bensì di un problema di mancanza di potere di
acquisto risultante da un dilemma molto più profondo: lo squagliarsi
della sostanza del lavoro e, insieme ad essa, della base della
valorizzazione del capitale nel corso della terza rivoluzione
industriale ( e della microelettronica). Il potere di acquisto reale non
proviene dal fatto di stampare moneta e di metterla in circolazione, ma
dal fatto che si conseguano "redditi da lavoro" che derivino
dall'utilizzo imprenditoriale di forza lavoro. Devono pertanto sorgere
nuovi settori di produzione che creino sufficienti posti di lavoro
supplementari al livello delle condizioni tecniche ed organizzative
della produzione vigente sul piano mondiale, affinché possano essere
compensati i potenti effetti della razionalizzazione economica
imprenditoriale risultante dalla microelettronica. Sul piano del mercato
dei beni di consumo, l'aumento dei profitti deve manifestarsi con una
domanda allargata di beni di investimento, mentre devono sorgere
simultaneamente nuovi redditi da lavoro che possano essere espressi a
livello di domanda di beni di consumo.
Ma sono
stati proprio questi, gli effetti che il metodo neoliberista non è
riuscito a produrre. Poiché, nello stadio ora raggiunto dalle forze
produttive, attraverso l'incorporazione delle scoperte scientifiche, il
meccanismo che aveva permesso il superamento delle crisi del
capitalismo, fino ad oggi, non ha sortito effetti. In realtà nascono
nuovi settori economici, come quelli legati alla tecnologia informatica,
in senso ampio, ma non creano posti di lavoro in quantità sufficiente
ad assorbire i posti di lavoro diventati superflui negli altri settori,
in quanto fin dall'inizio questi nuovi settori producono a partire dalla
razionalità della microelettronica.
Perciò, il neoliberismo non si
presenta come una "uscita capitalistica dalla crisi", contrariamente a
quanto afferma Hirsh, ma anzi può essere considerato, politicamente ed
economicamente, come la sua forma obsoleta. La deregolamentazione e la
progressiva dissoluzione degli spazi funzionalmente coerenti delle
Economie Nazionali porta, nella realtà, alla nascita di settori
largamente fondati sul lavoro salariato precario e sul lavoro
para-salariato, così come su altre forme di lavoro miserabile. Sembra
corretto affermare che mai come oggi tante persone, in tutto il mondo,
devono esercitare un'attività sotto forma salariata; ma non per questo è
stata eliminata dal mondo la crisi della società del lavoro e
dell'accumulazione del capitale.
Qui, un fatto di ordine sociologico
(la povertà) viene messo, senza alcun fondamento, in corto circuito con
una funzione economica (l'accumulazione del capitale), così come
determinate misure politiche (deregolamentazione, privatizzazioni, ecc.)
vengono considerate di per sé come fattori della valorizzazione forzata
del capitale, e ad essa subordinati. Anche i sociologhi ed i
politologhi di sinistra ignorano il fatto che l'economia della società
capitalistica del lavoro persegue una logica autonoma che non cede a
fenomeni sociali o a forme di regolamentazione politica. La logica
oggettiva della valorizzazione del valore non dipende dal fatto che le
persone si ammazzano a lavorare e spendono la loro energia vitale;
importa solo quanto "valore" economico viene prodotto per mezzo di
questa energia. Il valore di una determinata merce, tuttavia, non si
misura con il tempo che una determinata persona o una determinata
impresa spendono per produrla; il suo standard è dato dal tempo di
lavoro necessario alla produzione di tale merce al livello più elevato
(e storicamente sempre crescente) delle condizioni di produzione
economica imprenditoriale vigenti.
Se, ad esempio, una fabbrica
tessile che disponga di processi di gestione microelettronica e di
tecnologia laser produce alcune centinaia di camicie in un'ora, allora è
questo lo "standard" con cui si deve misurare la camiciaia che lavora
nel cortile di una baraccopoli di un qualche paese dell'America Latina,
Se a lei servono due o tre ore per fare una camicia, allora il suo
lavoro, puramente e semplicemente, non ha molto "valore". Per la sarta
questo si traduce, in forma sensibile, nel fatto che ottiene per una
camicia, che ad esempio fornisce ad un gruppo tessile internazionale, un
prezzo minimo che non superi i costi di produzione della fabbrica
tessile (con cui deve entrare in concorrenza diretta sul mercato
mondiale), e che la farà sopravvivere male ed in condizioni miserabili.
Se,
nella realtà, diversi milioni di persone lavorano in condizioni
identiche a quelle di questa camiciaia questo è dovuto a due ordini di
motivazioni. Dal punto di vista delle multinazionali che operano sul
mercato mondiale e dal punto di vista delle molteplici imprese
fornitrici subordinate, è del tutto indifferente in che modo vengano
minimizzati i loro costi ed aumentati i loro profitti. Produzione
"high-tech" o manodopera a basso costo "low-tech", sono per loro,
puramente e semplicemente, opzioni che - secondo il calcolo degli
investimenti necessari, della situazione del mercato, dei rischi, della
situazione della concorrenza e di altre condizioni strutturali - si
possono utilizzare e perfino combinare. Dal punto di vista dei
lavoratori e delle lavoratrici della miseria, è la coercizione assoluta
delle loro condizioni di vita che li costringe a vendere la loro forza
lavoro nelle più crudeli e disumane condizioni. Dal momento che le
condizioni materiali, sociali e culturali per l'esistenza di un'economia
rurale di sussistenza sono state distrutte nella maggior parte del
mondo (e soprattutto nei giganteschi agglomerati urbani con i loro
quartieri di latta), come presupposto dell'introduzione del sistema
capitalista di produzione di merci, a queste persone non rimane altro da
fare che vendersi, letteralmente, a qualsiasi prezzo. I lavoratori sono
stati così trasformati a forza in individui del mercato. Ma, in questo
modo, viene loro negata la possibilità di avere una vita in qualche
misura accettabile e, così, i salari miserabili devono essere integrati
con varie forme di lavoro autonomo, con l'assistenza, con produzioni di
sussistenza individuale (laddove sono ancora possibili), col lavoro
informale, con la piccola criminalità, la prostituzione, il
contrabbando, ecc..
Questo è un risultato del
capitalismo ma non è, in sé stesso, un fattore di accumulazione del
capitale. Ad una superficiale osservazione sociologica, le diverse forme
di lavoro miserabile potrebbero apparire come la rinascita delle
relazioni sociali proprie dell'inizio del capitalismo, nelle quali gli
uomini tornano di nuovo a cercare di sopravvivere in condizioni
precarie. Ma un tale punto di vista, assunto in molti studi sul settore
dell'economia informale (vedi Komlosy ed altri), ignora una differenza
essenziale. Il lavoro di massa all'inizio del capitalismo, nelle
industrie artigiane e nelle fabbriche, che veniva spesso integrato con
attività di sussistenza, era l'espressione di una produttività
capitalista ancora molto poco sviluppata. Ciò significava che il valore
delle merci prodotte superava solo in piccola parte il valore pagato ai
lavoratori sotto forma di salario. Il plusvalore, rispetto alle ore di
lavoro utilizzate, era relativamente piccolo. Il capitale (nella forma
del proprietario della fabbrica o del commerciante) compensava tale
piccolo margine obbligando al prolungamento dell'orario di lavoro nel
mentre che riduceva ad un minimo assoluto le condizioni di sussistenza
degli strati proletari: una capanna ammuffita, buia e sovraffollata
insieme ad una razione quotidiana di patate, erano ovunque il paradigma
per mezzo del quale si faceva sentire il "progresso della civiltà"
moderna. Solo così si riusciva ad esprimere un "plusvalore" che
garantiva una sufficiente valorizzazione del capitale. Marx ha chiamato
questo periodo, quello della "produzione assoluta di plusvalore".
Dalla
metà del 19° secolo, quest'estremo impoverimento è stato
progressivamente sostituito da un'altra forma più intensiva di
sfruttamento della forza lavoro. Nella stessa misura in cui la
produttività tecnica ed organizzativa veniva aumentata in maniera
efficace, anche il lavoro veniva progressivamente eliminato, rendendosi
simultaneamente, nel senso dell'economia imprenditoriale, sempre più
produttivo. Questo è stato, soprattutto, vantaggioso per la
valorizzazione del capitale, per mezzo di una corrispondente espansione
della produzione; ma allo stesso tempo è stato il presupposto economico
per cui, nel corso delle violente lotte sociali e politiche, l'orario di
lavoro potesse essere accorciato ed il livello di vita della maggior
parte delle persone, quanto meno nei paesi del centro del capitalismo,
potesse essere significativamente migliorato. Oggi, al contrario, la
situazione è radicalmente differente da quella esistente all'inizio
della rivoluzione industriale: in quanto la produttività economica
imprenditoriale basata sulle condizioni tecnico-scientifiche derivanti
dalla microelettronica è diventata gigantesca, lo sfruttamento estensivo
e di massa del lavoro precario a buon mercato non è in alcun modo la
base di una nuova accumulazione mondiale del capitale. Ma è piuttosto la
forma in cui il lavoro, ed insieme ad esso il capitale, sono
"svalorizzati".
In realtà, il lavoro ha ora sempre meno "valore", in
due sensi. Non solo il prezzo della merce lavoro è tornato un'altra
volta ad essere spremuto verso il minimo della sussistenza, ma anche i
guadagni, resi ancora possibili dalle merci prodotte, vanno cadendo
sempre più al sotto di un livello che possa permettere l'accumulazione
di capitale. Dato che lo "standard" della creazione del valore è
determinato dallo "standard" della produttività, per il capitale le
molte ore di lavoro a buon mercato sono di scarsa utilità, anche perché,
da un punto di vista economico, "valgono" pochi minuti, per non dire
secondi, del tempo di lavoro della produzione "high-tech". E questa è
una differenza decisiva, relativamente alla storia, fino ad oggi, della
società capitalistica del lavoro.
Ora i salari possono benissimo
scendere, e l'orario di lavoro aumentare - non ci sarà mai la
possibilità di accumulazione di quantità di lavoro che possa convertirsi
in valore, come nel capitalismo iniziale. E ancor meno può essere
allargata la produzione di merci, in modo tale che, nelle condizioni
della microelettronica, si possa raggiungere l'effetto dell'industria
"fordista". Per fare questo sarebbe necessarrio riempire letteralmente
gli oceani di Personal Computer, di telefoni cellulari e di Nintendo.
Così
come la produzione di "plusvalore assoluto" ha segnato il brutale
inizio del modo di produzione capitalista alla fine del 18° secolo ed
agli inizi del 19°, oggi il lavoro precarizzato di massa segna il rapido
declino di questo modo di produzione. E se il grado di sviluppo delle
forze produttive della produzione fordista aveva generato le condizioni
economiche necessarie, sia per la totalizzazione del capitalismo in
quanto sistema, sia per il successo relativo del movimento operaio,
anche il grado di sviluppo della produttività per mezzo della
microelettronica tira via il tappeto sotto i piedi all'accumulazione del
capitale ed agli interessi ad essa immanenti del lavoro salariato.
Dal
punto di vista del capitale, la nuova miseria delle masse non è più
produttiva. In realtà, non esiste nemmeno una "normalità" permanente del
capitalismo, che sarebbe stata solamente interrotta, temporaneamente,
dalla prosperità del "Welfare State"; quello che esiste è un processo di
sviluppo storico del capitalismo, nel quale nessuno degli stadi
precedenti può ripetersi. Se il lavoro a buon mercato, nei settori
formali, o anche informali, dell'economia, ha contribuito, direttamente o
indirettamente, alla formazione di valore del capitale, ora non è più
un fattore decisivo, ma di un effetto di "trasporto", secondario e
minimo, della crisi capitalista sul capitale stesso, senza che con
questo sia possibile superare la crisi stessa. Ma, per la grande (e
crescente) maggioranza, il fenomeno sociale della nuova povertà non
consiste nel massiccio sovra-sfruttamento (come avveniva nel capitalismo
iniziale), ma piuttosto nel fatto per cui le persone stanno diventando
superflue a livello di massa, non potendo più venire assorbite dal
processo produttivo del capitale, o al più potendo esserlo solo
provvisoriamente e a margine del sistema. Questa è solo un'ulteriore
prova che l'accumulazione del capitale ha raggiunto il suo limite
storico.
Non si tratta di un impoverimento nel, ed attraverso il,
lavoro, ma fuori dal lavoro, in quanto la società del lavoro stessa è
stata spinta fino all'assurdo, continuando, nonostante tutto, il dominio
della società da parte delle sue forme economiche. Al posto del lavoro,
utilizzato economicamente nelle imprese, appaiono le "attività di
miseria" degli esclusi. Al posto delle coltivazioni agricole di
sussistenza, nella terra bruciata dell'economia di mercato, il
contrabbando, la prostituzione infantile vanno ad integrare la
"sostanza del valore" nell'accumulazione del capitale. La forma
monetaria, nella maggior parte di questi casi, non viene introdotta
direttamente nella circolazione del capitale, ma emerge solamente nelle
cerchie di secondo o terzo ordine da questo dipendenti, come quando un
lavoratore precario contratta un alloggio in una baracca, o un turista
sessuale affitta un ragazzino. Lo stesso avviene con una gran parte del
settore informale in espansione nel centro del capitalismo: le attività
ambulanti; le forma di "lavoro sociale", le truffe, la piccola
criminalità, il lavoro forzato per le comunità locali, e così via. Se un
disoccupato o un beneficiario dell'assistenza sociale di uno Stato
oramai in demolizione venisse obbligato ad andare a vendere accendini
per strada, l'erario pubblico ne sarebbe di fatto sollevato (il che è in
realtà l'obiettivo di tali "misure"), ma l'accumulazione del capitale
ne beneficerebbe quanto beneficerebbe dello scippo di una borsetta.
Si
pone perciò il problema se la tesi di sinistra a proposito del
superamento capitalista della crisi, della continuazione ininterrotta
della società del lavoro e del presunto ritorno alla "normalità"
(negativa), non sia in fondo brutalmente "interessata", quanto la
medesima tesi del neoliberismo di segno (positivo) contrario.
Manifestatamente, la sinistra ha altrettanto paura di guardare negli
occhi, di quanto ne hanno i rappresentanti delle istituzioni del
capitalismo, il fatto che la categoria centrale del moderno sistema di
produzione di merci, il "lavoro" astratto, sia in rapida caduta - ed
insieme a questo, anche la possibilità dei movimenti di riforma
immanenti al sistema. Joachim Hirsh non riesce a portare avanti un solo
argomento economico (sul piano della teoria dell'accumulazione del
capitale) per sostenere la sua tesi, ma solamente argomenti di carattere
"sociologico" e "politologico". L'analisi non si pone al livello del
contesto del lavoro astratto, della forma del valore e
dell'accumulazione del capitale, ma li presuppone ciecamente in
anticipo. Così come il neoliberismo concepisce un ritorno alla
"normalità capitalistica" per mezzo delle privatizzazioni, delle
deregolamentazioni e dei bassi salari, anche la sinistra concepisce,
proprio sul terreno di questa stessa "normalità", di poter tornare alle
gloriose lotte per la regolamentazione, per l'intervento keynesiano
dello Stato del benessere e per il miglioramento dei salari.
Ricominciare tutto da capo - era tutto così bello, non è vero?
Un'uscita
immanente dal circuito infernale della svalorizzazione del capitale e
dell'impoverimento delle masse non è più possibile, in quanto il divario
fra la produzione "high-tech" e l'economia di sopravvivenza diventa
sempre più grande e e non potrà mai essere colmato da una qualche
"strategia di sviluppo". E' anche questa una ragione per cui il lavoro
precario si è necessariamente installato nel settore informale
dell'economia e lì rimane. L'informalità è una zona grigia posta fra la
produzione capitalista marginale e a buon mercato e le attività di
miseria degli esclusi, e per questo è anche un'attività economica a
margine della regolamentazione dello Stato o delle altre istituzioni
(tutela del lavoro, contrattazione collettiva, oneri ambientali,
sicurezza sociale, ecc.), ragion per cui, da un lato, sparisce la
protezione e, dall'altro, smette praticamente di essere pagata qualsiasi
tassa. In definitiva, questo significa naturalmente che lo Stato
abbandona sempre più le sue funzioni tradizionali di garante di una
società generale, scomparendo del tutto, in questo modo, il quadro
politico indispensabile al funzionamento di un'economia di mercato.
Anche la polizia passa la sua "funzione di sicurezza" a determinate
bande (con cui non è raro che rimanga intimamente legata), e i sistemi
di istruzione, sanità, sicurezza sociale entrano sempre più in collasso,
così come le infrastrutture materiali. In tal modo si accelera la
spirale di svalorizzazione e, alla fine, si perdono perfino le
condizioni per una partecipazione al mercato, seppure estremamente
improduttiva (come mercati, le regioni al collasso del Sud e dell'Est
hanno smesso da molto tempo di svolgere una qualsiasi ruolo degno di
essere riferito).
E' chiaro che, in queste zone, nella fase attuale
del processo di crisi, le frontiere possono diventare fluide. Nel
settore informale, possono anche esistere imprese e persone ben
remunerate che probabilmente riescono a far fronte ai costi
dell'economia formale; ma per la grande maggioranza non è così; in
questo settore non viene generato il valore sufficiente a poter essere
condiviso con lo Stato e con altre istituzioni. L'informalizzazione
dell'economia, che consegue necessariamente dal processo di evaporazione
della sostanza del lavoro e del valore, non può arginare questo
processo. Mentre il capitalismo si pone come condizione generale di
riproduzione della società e di sfruttamento del lavoro astratto, il
poderoso aumento della produttività per mezzo della microelettronica,
che avrebbe potuto rendere possibile per tutti una vita buona e facile,
può portate solamente a nuove catastrofi sociali.
Nel
quadro di questo processo di crisi si formano fenomeni socio-economici
paradossali. Da un lato, la maggior parte della popolazione mondiale,
che si trova già degradata ad individui del mercato, è del tutto
superflua per questo stesso mercato. Ma, dall'altro lato, questa dubbia
situazione di coscienza sociale, causata dal mercato e dal denaro, viene
ulteriormente rafforzata ed allargata. In molti paesi del "Terzo Mondo"
nei quali la società delle merci e del lavoro, fino agli 70 non era
ancora riuscita ad installarsi veramente (quanto meno mentalmente e
culturalmente), è stata proprio la crisi della "società del lavoro" ad
aver dato un forte impulso nel senso della formazione di una società di
mercato.
Purtroppo, non è avvenuto per puro desiderio ideologico che i
neoliberisti affermano di aver scoperto i piccoli imprenditori nel
settore informale. E' proprio la forza lavoro invendibile che si
converte in una sorta di imprenditoria della miseria, nelle nicchie e
nei settori secondari della circolazione del capitale (si pensi alla
gigantesca massa di venditori ambulanti "autonomi"). Non sono stati
soltanto i modi di esistenza materiale e sociale, ma anche le mentalità
che sono cambiate secondo questo modello, anche nella forma puramente
negativa della lotta per la sopravvivenza.
Nonostante tutte le
espressioni di solidarietà di quartiere e di lavoro familiare
(soprattutto femminile), senza le quali la sopravvivenza nel settore
informale sarebbe impossibile, questo tipo di lavoro non costituisce una
formazione economico-sociale autonoma, né un contro-modello
dell'economia di mercato, ma, al contrario, si presenta come il suo
stadio terminale, in cui l'economia di mercato, alla fine del suo
percorso storico, appare in maniera ancora più ripugnante. La
concorrenza universale degli individui del mercato non viene soppressa
in alcun modo, ma viene riprodotta, a livello di miseria, in forma
ancora più aggravata. In realtà, la prosperità o la rovina del settore
informale, nella sua miseria, dipende dal fatto che il suo accesso ai
flussi transnazionali delle merci e del denaro non sia completamente
interrotto, sebbene la sua quota in questi flussi, misurata nell'insieme
del prodotto mondiale, sia del tutto insignificante. Se questo legame
venisse tagliato, in quanto spariscono perfino le condizioni minime di
partecipazione al mercato mondiale o perché la sovrastruttura
finanziaria del paese collassa (oppure le due cose insieme), la strada
da percorrere, e che è già stata tracciata in anticipo, diventa quella
di un'economia di guerra e di sangue dominata da bande, come già avviene
in estese regioni del mondo.
Nei centri dell'Occidente, le relazioni
precarizzate ed informali di vita e di lavoro, che anche qui crescono
in maniera drammatica, si intrecciano con il segmento inferiore di
quello che il discorso delle scienze sociali, tanto imprecisamente
quanto eufemisticamente, chiama la "società della prestazione di
servizi". Questo discorso, che ha avuto inizio nel decennio del 1960,
pretende di suggerire che la crisi del lavoro potrebbe essere risolta
per mezzo di un trasferimento decisivo dal settore della produzione a
quello dei servizi. Superficialmente, da un punto di vista sociologico,
gli sviluppi degli ultimi decenni sembrano confermare questa tesi. In
tutti i paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti, dalla metà degli
anni 70, il "settore terziario" ha guadagnato un peso enorme, assoluto e
relativo. In parte si tratta di una distorsione statistica che nasce in
virtù del fatto che, ad esempio, molte funzioni, quali la pulizia degli
edifici, la contabiliutà, i trasporti o la tecnologia informatica non
si trovano sviluppate all'interno delle imprese, ma fanno ricorso alle
imprese esterne di "prestazioni di servizi" ("Outsourcing"), o alla
manodopera che viene "affittata" dalle agenzie di lavoro temporaneo. In
nessuno di questi casi nasce un nuovo settore di riproduzione del
capitale autonomo dall'industria, ma non si tratta altro che di attività
legate all'industria, presentate però secondo nuovi modelli. Se non si
tiene conto di tutto questo, emerge una tendenza statistica di
dislocazione verso il "settore terziario".
Ma proprio come nel caso
dei bassi salari, la cui espansione si interseca con la
"terziarizzazione", si pone qui anche la questione di sapere se
l'espulsione di forza lavoro fuori dai settori industriali centrali
della produzione mondiale, attraverso la crescita del settore della
prestazione di servizi, possa essere realmente, dal punto di vista
dell'accumulazione del capitale, compensatrice o perfino vantaggiosa.
Una teorizzazione affrettata, sulla base dell'osservazione empirica,
sembra dimostrarlo. E questo solo perché i nuovi posti di lavoro sorti, o
il volume del tempo di lavoro, vengono semplicemente sommati, senza
entrare nel merito di quale relazione intrattengano questi numeri con il
processo sociale della valorizzazione del capitale nel suo complesso.
Come è già stato dimostrato per la produzione industriale, la semplice
espansione del tempo di lavoro (ed ammettendo che essa sia un fatto
empirico) non significa che la produzione di valore aumenti
automaticamente. Il problema nelle prestazioni di servizi è diverso da
quello della sarta del cortile della baraccopoli. Il lavoro di
quest'ultima è, nella realtà, direttamente produttivo, seppure
rappresenti un quantum di valore assai piccolo in quanto, se comparato
con quello della fabbrica tessile altamente meccanizzata, è estremamente
improduttivo. Le altre prestazioni di servizio, al contrario, per la
posizione in cui si trovano e per la funzione che svolgono nel contesto
economico generale, non producono, per principio e per struttura, un
qualche valore, anche se in esse viene speso tempo di lavoro. Esse
servono, o per garantire le condizioni generali di funzionamento ed i
presupposti della produzione di merci, oppure sono i loro meri accessori
e, come tali, sono soggetti al processo di svalorizzazione, in quanto
non possono sostenersi da sé sole.
Questo si applica in primo luogo e
particolarmente all'infrastruttura sociale generale nel senso più ampio
del termine: ossia, ai sistemi di trasporto, di comunicazione, di
istruzione, di sicurezza sociale e sanitarie, di giustizia e di ricerca
scientifica, alla polizia, alle forze armate, ecc.. Non è un caso che
tutte queste funzioni siano in gran parte assunte direttamente dallo
Stato, o da esso finanziate, poiché pur essendo indispensabili per il
contesto generale del capitalismo, non possono - possono solo molto
limitatamente - essere organizzate in maniera imprenditoriale
"redditizia", a causa del loro grado di generalità e alla loro
insuscettibilità di essere vendute sul mercato. Si tratta di "beni
pubblici", che, in principio, devo essere a disposizione di ciascuno e
di tutti, ed i cui costi devono per questo essere supportati da tutti
sotto forma di tasse e di imposte. Il loro finanziamento avviene a costo
dei salari e dei redditi, così come dei profitti, e pertanto
rappresenta una diminuzione di massa del valore disponibile. Per tale
ragione, ogni e qualsiasi impresa cerca di comprimersi agli occhi del
fisco, mentre, dall'altro lato, utilizza l'infrastruttura pubblica.
Da
un punto di vista economico globale, si tratta - nel caso dei "beni
pubblici" - di consumo (principalmente di consumo statale o
para-statale), in quanto la quota di valore che viene spesa per essi si
rende indisponibile per gli investimenti economici imprenditoriali; e lo
stesso accade con quello che nel linguaggio abituale viene designato
come "investimenti pubblici". Dal momento che non creano profitti, ma
sono solamente condizioni generali perché si "stabiliscano" eventuali
nuove imprese ed utilizzino una mezza dozzina di lavoratori.
Se una
"localizzazione" vuole sperare in una partecipazione al mercato
mondiale, deve tenere in piedi una sua infrastruttura anche quando non
si verifica più, del tutto o quasi, una valorizzazione del capitale
(com'è stato amaramente sperimentato da molti municipi dell'est della
Germania, che posseggono zone industriali approvate e con allacci alle
autostrade, ma nessuna impresa che produca con sede in quelle zone).
Le
cose avvengono in modo strutturalmente identico in tutte le prestazioni
di servizi che si limitano a mantenere la circolazione del denaro e
delle merci; ossia, attività di distribuzione e vendita, di
amministrazione commerciale e di contabilità, nel settore bancario e
finanziario, nelle assicurazioni, nelle attività forensi e simili. Anche
queste attività sono indispensabili, come condizioni generali di
funzionamento, affinché possa avvenire la valorizzazione del capitale,
ma esse stesse non producono alcun valore, al contrario, devono essere
finanziate a partire dalla massa di valore creata dall'industria. In tal
senso, si tratta, in questo caso, di "costi morti" di manutenzione del
sistema, anche se si situano sul piano funzionale dei "beni pubblici".
Questa realtà viene solo nascosta per il fatto che le catene
commerciali, le banche, gli uffici di avvocati, ecc., sono essi stessi
gestiti come imprese private, identificando la loro partecipazione al
valore del prodotto sociale come fatturato e profitto, come se avessero
prodotto qualche cosa. Che quest'apparenza corrisponda poco alla realtà,
viene dimostrato allorché una regione, un territorio, viene schiacciata
dalla concorrenza e, insieme al collasso della sua produzione per il
mercato mondiale, entrano naturalmente in collasso anche i servizi da
essa dipendenti, nei settori di appoggio alla circolazione del capitale,
nei settori giuridici, ecc.. In quel momento, non sono solo i
lavoratori delle fabbriche, ma anche i commercianti e gli impiegati
bancari che si trovano, letteralmente, in mezzo ad una strada. In
maniera concomitante, le attività commerciali ed amministrative vengono
ridotte, anche quelle che guadagnano sul mercato, in quanto anch'esse,
come le attività della produzione industriale, sono coinvolte nella
razionalizzazione conseguente alla microelettronica. Le imprese cercano
di disfarsi del peso morto che grava sui loro profitti.
In questo
modo, gli elementi principali del "settore terziario" sorti in passato
vengono, nella realtà, dissolti dalla crisi e dalla razionalizzazione,
invece di formare un nuovo settore autonomo di valorizzazione del
capitale. Quel che rimane è il crescente segmento dei "servizi prestati
alla persona", nei quali l'amministrazione neoliberista di crisi ripone
particolari speranze: "se si riuscisse ad ottenere che una cinquantesima
parte del auto-lavoro venisse trasformato in lavoro pagato, potrebbero
essere creati 800,000 posti di lavoro" divinava la "Commissione per i
problemi futuri delle città libere di Baviera e di Sassonia"
(Kommission, 1997). Sfortunatamente, a questo si oppone "una marcata
mentalità di auto-aiuto dei tedeschi" (ivi). Con ciò non si vuole dire
che una maggioranza significativa della popolazione tedesca coltivi i
suoi ortaggi nel suo piccolo orto urbani, ma che essa, con una frivola
cocciutaggine, si ostina ad incartare i suoi propri acquisti e a
soffiarsi da sé il naso, invece di contrattare queste cose con una
prestazione di servizi retribuita.
Questo svergognato comportamento
che impedisce il lavoro deve, secondo l'intendimento della "Commissione
del Futuro", essere cambiato affinché un esercito di domestici malpagati
e ridicoli siano portati a godere della felicità del lavoro.
Nella
seguente argomentazione "psico-sociale" piuttosto trasparente si spiega
che: "al di là del benessere materiale, i servizi domestici possono
anche far crescere il benessere morale. Così, il benessere del cliente
può aumentare quanto i prestatori di servizi lo liberano
dall'auto-lavoro che lo sovraccarica. Allo stesso tempo, aumenta anche
il benessere del prestatore di servizi domestici, insieme all'aumento
della sua auto-stima (!)per mezzo di quest'attività. Esercitare una
semplice attività di servizio domestico, per la psiche è meglio che
essere disoccupato" (ivi). Così viene inequivocabilmente formulato il
programma politico dell'amministrazione repressiva della crisi, ossia,
trattamento duro nei confronti di coloro il cui benessere non aumenta
attraverso l'ingrassaggio degli stivali altrui. Economicamente, però, si
tratta puramente e semplicemente dell'ottimismo spericolato
dell'ideologia del lavoro, poiché, come nel caso delle imparentate
"attività di miseria" delle baraccopoli del terzo mondo, in questo modo
non si riuscirà a far sorgere nessuna accumulazione autonoma di
capitale.
Teoricamente, non c'è niente che
impedisca che il trasporto di pacchi, la lucidatura delle scarpe o fare
un massaggio rappresenti una produzione altrettanto reale della
fabbricazione di una borsa o di un paio di scarpe, quello che è decisivo
non è il fatto che il risultato del dispendio di energia umana astratta
sia materiale piuttosto che immateriale. Ma i "servizi prestati alle
persone", per loro propria natura, non possono essere - nella maggior
parte dei casi, se non in condizioni molto particolari - sviluppati in
modo da valorizzare il capitale (si pensi ad un gruppo economico di
lucidatori di scarpe o di babysitter) e perciò non sono nemmeno
suscettibili di scatenare una dinamica di accumulazione capitalista
autonoma. Il lavoro del pulitore di scarpe, della cameriera, dei
fornitori di cure personali, ecc., integra i consumi personali (la
maggioranza dei quali non particolarmente opulenti) e non può quindi
essere accumulato come "lavoro morto" e diventare il punto di partenza
per utilizzare più lavoro.
Per tale ragione, queste prestazioni di
servizi sono, in quanto produzione secondaria di merci, strutturalmente
dipendenti dal funzionamento di una creazione industriale di valore, del
cui prodotto si alimentino, in quanto non possono mantenersi da sé
soli. Questo è dimostrato dalla domanda e dall'offerta: i "servizi
prestati alle persone" non sostituiscono la produzione industriale, ma
scompaiono insieme ad essa, in quanto viene a mancare una domanda che
abbia una capacità di acquisto. Queste attività, per il loro carattere
specifico, non funzionano come parte di un complesso informativo
altamente socializzato, ma al contrario, di regola, funzionano come
offerta da parte di individui che utilizzano poche attrezzature e,
soprattutto, con scarse conoscenze. Perciò esse possono, al contrario
della produzione industriale, smettere facilmente di far parte del
lavoro di produzione formale di merci ed essere trasformate in
"auto-lavoro" (cosa che avviene quando mi soffio il naso da solo) o
perfino passare al settore "informale". E per questo è completamente
assurdo pensare che il sistema della società del lavoro possa essere
rinnovato in questa forma. I "servizi prestati alle persone" non sono il
passaggio verso il Capitalismo di prestazioni di servizi, ma soltanto
la forma in cui le relazioni precarizzate e le "attività della miseria" a
margine o, soprattutto, fuori della società del lavoro e della
valorizzazione del capitale, entrano in gioco nei centri occidentali del
sistema di produzione di merci.
Quelli che possono apparire come due
fenomeni differenti, ed insieme solo per caso, si trovano in realtà in
un contesto di causalità interna. In grandissima parte del mondo, è
diventato abituale incolpare i mercati finanziari usurai per il disastro
socio-economico e di considerarli all'origine della crisi. Dal momento
che praticano "margini liberi", questi settori fluttuanti hanno attratto
la maggior parte del capitale-denaro globalmente disponibile, che in
tal modo non ha potuto essere utilizzato nell'economia reale, in
"investimenti di posti di lavoro" e/o per lo stimolo statale della
domanda. Se questo capitale-denaro, al contrario, fosse stato inviato
verso i giusti canali, e soprattutto utilizzato produttivamente, allora
avrebbe potuto smettere, possibilmente, di esistere il problema della
disoccupazione. Questo modello di analisi, è pericoloso non solo per le
sue conseguenze ideologiche - in quanto, con la mobilitazione contro gli
speculatori, resuscita (quanto meno surrettiziamente) i risentimenti
antisemiti contro il "capitale finanziario giudaico" che presumibilmente
dominerebbe il mondo - ma anche perché inverte la realtà della
situazione economica.
Solo attraverso un'enorme
massa di liquidità scoperta, creata nella sovrastruttura finanziaria a
partire dagli anni settanta, è stato possibile - senza alcun utilizzo
reale di forza lavoro produttrice di merci ed in particolare nei paesi
occidentali - fermare in maniera provvisoria la crisi e concedere così
alla società del lavoro ancora un periodo di grazia, pur non esistendo,
in quantità sufficiente, lavoro creatore di valore. Questo meccanismo di
rinvio della crisi, attraverso la formazione di credito e di
speculazione, in sé non ha niente di nuovo. Già in passato aveva segnato
l'evoluzione delle maggiori crisi ed era sempre finito con il "crollo"
dei mercati finanziari. Questi "crolli" significavano che era terminato,
in un sol colpo, il processo ritardato di svalorizzazione del capitale,
con conseguenti fallimenti in massa di imprese e banche e con la
conseguente esplosione della disoccupazione, ecc.. Quel che c'è di nuovo
oggi è soltanto il fatto che la deregolamentazione ed il carattere
transnazionale dei mercati finanziari, così come il già pienamente
realizzato scollegamento del denaro dal valore-oro, hanno permesso una
durata storicamente lunga di questo ritardo.
Inoltre, il rapido
indebitamento degli Stati, che assorbe capitale, ha permesso di creare
il terreno per una miracolosa riproduzione di denaro. In generale, il
credito è stato immediatamente integrato nel circuito economico - e non
da ultimo, nel costruire quei servizi diversificati e quelle
infrastrutture statali che ai più sconsiderati sociologhi dell'economia è
apparso come il primo focolaio di una "società dei servizi". In realtà,
si trattava soltanto di consumo statale e non di valorizzazione del
capitale; non si trattava, quindi, di una massa di valore in espansione
reale, dei cui interessi e ammortamenti ci si poteva servire.
Teoricamente, un credito costituisce un'anticipazione di una
valorizzazione attesa per il futuro, ossia, un futuro utilizzo
imprenditoriale della forza lavoro. Nel mentre che si attende che queste
aspettative possano realizzarsi, il credito è il principio motore di
un'accumulazione dinamica di capitale, in quanto il presente viene
sicuramente e permanentemente sostituito dal futuro. Ma non è certo
questo il caso del consumo statale finanziato dal credito. Mentre si usa
la massa di valore prestata, da parte dei creditori si accumulano
aspettative le quali, a loro volta, possono essere alimentate, come
domanda, nel circuito economico. Avviene così che i crediti, a lungo
frequentati dal consumo statale, possono condurre una vita apparente di
capitale incubatore di denaro, fino a che non scoppia la bolla quando i
bilanci statali si avvicinano allo stato di emergenza, il quale consiste
nel fatto che le sue entrate reali provenienti dalle tasse devono
essere spese solo per pagare gli interessi. E' stato precisamente quello
che è avvenuto su scala mondiale a partire dall'inizio degli anni 80.
Nella
stessa misura in cui l'indebitamento statale ha raggiunto il suo
limite, la speculazione borsistica è diventata il motore principale
della proroga della crisi. Anche qui funziona lo stesso duplice
meccanismo della valorizzazione fittizia del capitale e della creazione
virtuale di potere d'acquisto. Ma nella realtà i tassi astronomici della
valorizzazione in borsa sono possibili solamente in quanto la massa di
liquidità scoperta rimane a dare propulsione alla spirale; tuttavia, una
parte non disprezzabile di questa massa finisce per infiltrarsi
nell'economia reale e finisce per alimentare la domanda di merci e di
servizi. E in questo modo la formazione di bolle relative ai pacchetti
di azioni altamente speculativi è diventata uno dei principali supporti
al consumo negli Stati Uniti. Un grossa fetta della popolazione compensa
i suoi redditi in caduta per mezzo del credito, la cui unica copertura
sono le valorizzazioni fittizie della borsa avvenute negli ultimi dieci
anni. In questo modo artificioso, si può, simultaneamente, creare potere
d'acquisto e continuare a partecipare alla "partita in corso", almeno
finché funziona. Non meno importante è la "sovvenzione" dei bilanci
delle imprese e delle banche attraverso i guadagni sul mercato
finanziario, senza i quali molti settori produttivi sarebbero già
falliti da tempo, soddisfacendo alla domanda per mezzo dell'espediente
degli investimenti, e della distribuzione dei profitti e dei rendimenti.
Alla fine, è lo stesso Stato che contribuisce, con un regime fiscale di
imposte su tutte queste transazioni, direttamente ed indirettamente,
alla manutenzione dell'ondata speculativa. Questo è il segreto peggio
custodito dell'attuale surplus miracolo del bilancio americano e del
molto ammirato boom dell'economia americana, che si basa da molto tempo
sulla creazione virtuale di denaro nei mercati finanziari
transnazionali.
Ed è stato proprio così che la
speculazione - demonizzata dagli appassionati della "nobiltà del lavoro"
- ha permesso, ancora una volta, da più di vent'anni, che nei centri
del capitalismo fosse possibile simulare la continuazione del
funzionamento regolare di una società del lavoro. Ma il periodo di
grazia arriva alla fine. In quanto anche l'aumento speculativo delle
azioni "capitalizza" naturalmente un'aspettativa nei confronti della
futura creazione reale di valore. Ma così come, nelle condizioni della
rivoluzione della microelettronica, il futuro non potrà mantenere quello
che prometteva sulla carta, anche gli stessi mercati azionari ormai non
possono più aspettare il rinvio della "svalorizzazione del valore".
Dopo i crolli dell'America Latina, della Russia e del Sudest Asiatico, a
breve toccherà anche ai mercati del Giappone, dell'Unione Europea e
degli Stati Uniti, forzatamente "maturi". Si vedrà, con l'ondata di
fallimenti che allora si scatenerà, qual è l'estensione che ha assunto
la crisi della società del lavoro.
E' in questo contesto che i sogni
ad occhi aperti della sinistra - che si infuria e pretende di
controllare la crisi del capitalismo per mezzo della regolamentazione
della speculazione e del controllo dei mercati finanziari - appaiono
come particolarmente fantasiosi. Partono dal paradosso del voler fare
"coscientemente", con i colori di un keynesismo di sinistra e
socialdemocratico, quello che l'evoluzione autonoma del capitalismo ha
ormai realizzato completamente in maniera incosciente: ossia, scaldare
l'economia reale con il denaro libero della sovrastruttura finanziaria e
simulare "posti di lavoro". Se questa strada venisse realmente tentata,
sarebbe l'occasione per il crollo totale di tutto il castello di carte.
L'ostinazione con cui vengono fatti questi conti del droghiere, anziché
chiarirne la rilevanza pratica, finisce, al contrario, per testimoniare
solamente la paura di fronte ad una critica categoriale del sistema di
produzione di merci e della sua forma di attività "lavoro", che spiega
anche la fede della Sinistra dell'amministrazione neoliberista della
crisi.
In questa prospettiva, non si riesce a
distinguere gli scongiuratori di sinistra della "normalità capitalista"
dai padrini del "Nuovo Centro" difensori dell'imposta sulla speculazione
finanziaria, i quali, con la loro fanatica retorica sul lavoro, sono
stati arruolati nel governo.
Tuttavia, quello che stiamo per vedere
non è la "società della prestazione di servizi", ma il definitivo
collasso della società del lavoro, la quale, dopo un collasso
finanziario occidentale, non potrà più svilupparsi sotto le forme dei
bassi salari, del lavoro forzato e delle attività della miseria degli
esclusi.
Ma già in questo momento, questa precarizzazione - così come
la propaganda per il "lavoro civico", per il lavoro non remunerato e
altri lavori del medesimo genere - ha smesso di far parte di una nuova
accumulazione del capitale, ma è soltanto un insieme di strumenti di
disciplina e di "moralizzazione", affinché non si possa affrontare
seriamente la fine della società del lavoro, ed affinché il trattamento
da riservare ai "superflui" possa essere ancora più duro.
Con la
fiction ufficiale, secondo la quale chi vuole può "lavorare" (anche se
in cambio soltanto di una pacca sulle spalle), si è ottenuta la
legittimazione morale per una definizione di "parassitismo sociale",
cui, nel nome della "nobiltà del lavoro", devono essere conferite le
colorazioni più sordide, di modo che possa essere offerto come "oggetto
di odio" sull'altare del panico crescente cui è ormai sottomessa la
popolazione lavoratrice.
E chi può mai essere più adatto ad
esercitare questa sottile forma britannica dell'amministrazione della
crisi, se non il classico "Partito del Lavoro", magari insieme ad un
giovane partito verde-oliva?
- Norbert Trenkle - Pubblicato il 31-12-1999 su Krisis -